Ágnes Heller, una delle più importanti filosofe del secolo scorso e dei primi diciannove anni del Duemila, è morta nuotando nel lago di Balaton il 19 luglio. Aveva novant’anni e l’acqua era il suo elemento più congeniale. A Budapest tutte le mattine si tuffava nella piscina della sua casa, ma poi quando era in giro per il mondo e trovava uno specchio d’acqua, non esitava un secondo: una volta a Fano, con il suo fraterno amico Francesco Comina, nel mare, ma le piacevano anche i laghi e una volta si era tuffata persino nel Rio delle Amazzoni.
Al pari di Derrida, Bauman, Goytisolo, è stata una “sradicata”: già a quindici anni, lei ebrea, fu rinchiusa nel ghetto di Budapest, strappata ai suoi affetti. Poi fu censurata, licenziata dall’università, e infine costretta a rifugiarsi in Australia a causa del fondamentalismo comunista. Infine, nell’ultimo periodo della sua vita, quando dopo il crollo del Muro era finalmente potuta tornare a Budapest, è stata continuamente osteggiata e minacciata di morte per la sua implacabile opposizione a Orbàn.
Suo padre, un anarchico squattrinato quanto morale, intriso di filosofia, poesia, musica, arte, rifiutò di convertirsi al cristianesimo per evitare la camera a gas. Molti altri ebrei credenti lo avevano fatto ma lui, ateo, non volle cedere perché è proprio nell’ora del pericolo che si deve manifestare fedeltà alla comunità di cui si è parte. Morì ad Auschwitz e le diede un esempio indimenticabile. Era lui a consentirle di mettere a repentaglio la vita per andare a uno spettacolo quando già si respirava una brutta aria e si rischiava di essere arrestati. Era lui a coccolarla, a incarnare il femminile, a mostrarle costantemente la bellezza poetica del decentramento, dei voli pindarici, della frenesia e dell’azzardo che è connaturato alla nostra finitezza umana. Ágnes infatti non aveva paura di nulla. D’altronde, in lei la joie de vivre si sposava costantemente con un rigore che non era mai una manifestazione del Super-io quanto piuttosto la tensione incoercibile verso la realizzazione del desiderio di allargare la sua conoscenza penetrando profondamente la realtà per comprenderla e tesaurizzarla. Nella sua Breve storia della mia filosofia ha scritto: “La scelta di un tema, o di un argomento concreto ed effettivo, è dovuta a due fattori. Il primo è un pensiero ricorrente, che necessita di essere ripensato giorno e notte e che ci impedisce di dormire. Il secondo è un’intuizione improvvisa. I due fattori possono essere collegati”. Così, le Einfälle musiliane, le “illuminazioni”, contrappuntavano un’alacre ricerca.
I suoi interessi dei vent’anni erano scientifici come per il suo amico Bauman: la fisica, la chimica. Poi ascoltò una lezione di György Lukács che le risultò totalmente incomprensibile. Volle sentirlo ancora, non era tipo da arrendersi all’inintelligibilità. Dopo poco abbandonò con decisione quel che stava facendo e si dedicò alla filosofia finché ebbe vita. E Lukács la adottò appassionatamente.
Il problema, con Lukács, era lo spirito del tempo, che impediva a qualunque voce non completamente e ciecamente sintonizzata con quella del partito di affiorare, e visto che Lukács era troppo serio per accontentarsi della manfrina stalinista, non era stato abilitato a insegnare Marx ma solo la filosofia che era venuta prima. Questo compromesso permise a Ágnes di fargli da assistente all’università fino a quando, dopo la rivoluzione del ’56, arrivarono la deportazione per lui e la messa al bando dall’ateneo per lei.
Ágnes, fra i diciotto e i ventidue anni, aveva letto non la storia della filosofia ma i testi dei filosofi, possibilmente in lingua originale. Il suo pensiero morale era inossidabile ma all’inizio aveva mal digerito l’etica kantiana per l’accento che poneva sul dovere. Si sentiva ed era epicurea. Poi, però, riuscì a comprendere la grandezza di Kant e nel suo libro An Ethics of Personality conciliò stoicismo ed epicureismo mettendo a confronto due uomini che sostengono rispettivamente la prospettiva di Kant e quella di Nietzsche, con il contrappunto di una terza persona, una donna, che assume la prospettiva di Kierkegaard. Si rendeva conto della necessità di sistemi filosofici diversi, e forse l’eredità letteraria del padre che scriveva romanzi ha illuminato la sua concezione filosofica così simile a quella della letteratura: mettere insieme Kant, Nietzsche e Kierkegaard salvandoli tutti e tre mi fa venire in mente il romanzo Libertà di Jonathan Franzen dove a pagina 601, quando si chiude il libro, ci si è inesorabilmente affezionati sia al marito, sia al chitarrista fascinoso, sia alla moglie fedifraga. Per Ágnes la filosofia deve riuscire a gettare luce sulle diverse possibilità dell’esistenza, come avviene con i personaggi della narrativa, ed è probabilmente per questa ragione che ha sempre letto tantissima narrativa e ne ha travasato una porzione cospicua nella sua opera filosofica.
In ogni caso, giusto per ripercorrere a grandi linee la sua storia, Ágnes prese coscienza del suo valore a cominciare dal periodo in cui intratteneva la sua corrispondenza, censurata, con il suo maestro: lui le chiedeva con insistenza di scrivere dell’etica di Lenin e lei nicchiava, fino a che non si rese conto che Lenin semplicemente non aveva un’etica. E dalla fine degli anni Sessanta i suoi libri cominciarono a essere tradotti in inglese, tedesco, spagnolo, italiano, francese e in altre lingue ancora, perfino in giapponese. Si mise a studiare il Rinascimento dopo il viaggio in Italia, a Venezia e soprattutto a Firenze, e con la “Scuola di Budapest” iniziò a cercare di far rinascere Marx dall’umiliante mausoleo privo di vita in cui i comunisti lo avevano imprigionato.
In quegli anni fecondi scrisse Sociologia della vita quotidiana, La teoria dei bisogni in Marx, La filosofia radicale e Teoria dei sentimenti. Marx ormai le stava stretto, nonostante l’amicizia e l’ammirazione per Lukács, e in Australia prima e a New York poi si liberò del fardello sia di Marx sia di tutti gli “ismi”. Aveva fondato una sua filosofia che era però asistematica e le dava la nausea quella che definì “citatologia”: in effetti in lei si trovano poche citazioni e, nel libro che ha scritto con me, Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione, non ce n’è nemmeno una. Alcune idee anteriori al 1980 sono rimaste intatte, come la assimilazione dei bisogni quantitativi, che Kant aveva definito Süchte, ovvero la sete di possesso, potere o fama, ai bisogni alienati destinati, come i consumi su cui Bauman ha focalizzato la sua attenzione, a non poter essere mai totalmente soddisfatti.
Dal 1980 al 1995, che Ágnes ha definito “Gli anni della costruzione e dell’intervento”, la nostra filosofa essenzializza il suo pensiero e lo traduce puntualmente in azione, impegno, appunto “intervento”. Dopo l’amicizia con Eric Hobsawn, Jacques Derrida, Cornelius Castoriadis e la femminista Judith Butler, legge Foucault, fa amicizia con lui e diventa una sostenitrice accanita del pluralismo, contro qualunque totalitarismo, e continuerà a farlo finché avrà vita indirizzando fino all’ultimo i suoi strali contro Viktor Orbàn.
Conobbi Ágnes di persona solo otto anni fa e fu Bauman a presentarmela a Roma, proprio il giorno successivo a quello in cui mi aveva fatto conoscere la sua seconda moglie Aleksandra Kania. Mi piacque la sua relazione ma poi a tavola mi incantai nel vederla mangiare: aveva ottantadue anni e aggrediva la sua orata con un gusto e un’energia straordinari. Non stringemmo amicizia, mi rimase la curiosità di conoscerla meglio e andai a rileggermi un paio di suoi libri.
Poi, in occasione di una conferenza che lei e Bauman avrebbero tenuto alla Freie Universität di Bolzano, fui invitato a introdurre Bauman mentre il grande amico di Ágnes Francesco Comina, che aveva organizzato l’evento, avrebbe introdotto lei. Da quell’incontrò nacque il libro, piccolo e intenso, che introdussi, La bellezza (non) ci salverà che piacque agli organizzatori di Pordenonelegge: invitarono lei e me a presentarlo nel 2015.
Non avrei mai creduto un soggiorno con lei potesse essere così stimolante e invece si rivelò una vera e propria festa itinerante: la accompagnai alla Biennale di Venezia, dove mi spiegò tutte le opere d’arte contemporanea che non capivo (ero rimasto a Vermeer e Lorenzo Lotto dei miei esami universitari). Mangiavamo con voracità, bevevamo, ma soprattutto parlavamo ininterrottamente mettendo a confronto idee assolutamente antitetiche: su Freud, di cui contestava il determinismo, sull’epoca contemporanea, che lei considerava né peggio né meglio delle precedenti mentre io vi vedevo vampiri spaventosi che minacciosamente si aggiravano, su mille altri aspetti della realtà su cui con puntualità teutonica nutrivamo convinzioni differenti. Il punto è che trovavamo entrambi questa costante divergenza di idee stimolante! La nostra conferenza riempì la nostra sala più un’altra con il maxischermo. Il giorno dopo andammo a girovagare per Trieste e a quel punto eravamo diventati amici. Decidemmo di scrivere un libro insieme su utopie e distopie ma, consapevoli delle due prospettive remote, stabilimmo che lei avrebbe scritto il suo saggio e io il mio, in gennaio, per avere il libro pubblicato entro aprile. Detto fatto. Poiché lei è una vera filosofa mentre io sono un editor che dice la sua su svariati argomenti, anche per una questione di rispetto scrissi tre capitoli su distopie di opere letterarie contemporanee, uno sull’Utopia del Morus e soltanto uno sulla mia prospettiva che si situava sul crinale tra sociologia e psicoanalisi. Dal canto suo, scrisse un saggio filosofico magistrale ma nell’ultimo capitolo citava alcuni dei miei autori e la sua visione non strideva affatto con la mia. Ne gioii immensamente e, una volta che fu in libreria, presentammo il libro insieme in varie conferenze fra cui quella al Teatro Sociale di Trento, quella al Festival biblico di Vicenza e un’altra memorabile (per me, lei era memorabile sempre) in un teatro della Basilicata.
Rivederla era sempre galvanizzante e quando ricevette l’Orso d’Oro dalla Fondazione Masi Alighieri, trascorremmo insieme altre giornate magnifiche fra la Valpolicella, Verona, Venezia e Milano. Si svegliava la mattina presto e andava a letto a tarda sera senza fermarsi un secondo, era incredibile.
Quando la vidi per l’ultima volta, nel dicembre dell’anno scorso, fu costretta a venire in treno da Budapest perché vi avrebbe tenuto una conferenza la sera prima e l’unica opzione possibile era quella che andassi a prenderla in auto a Monaco. Scesa dal treno, prima di salire in macchina si gustò una Wiener Schnitzler che è d’obbligo se si mangia in Germania, un buon bicchiere di vino e poi via verso Trento. La pregai di dormire un po’ durante il tragitto: macché, parlò senza sosta e non volle neppure riposare una mezz’ora in albergo. Alla Biblioteca provinciale parlammo a un vasto uditorio di identità e confini. Poi un Martini alla Hemingway in piazza Duomo, una buona cena al Grand Hotel annaffiata da un vino eccellente. Le proposi di scrivere un nuovo libro sull’argomento che avevamo trattato e lei mi rispose che avremmo dovuto rimandare perché per il momento avrebbe dovuto scriverne un altro, come promesso, con il suo amico Francesco Comina. Infine l’aperitivo del giorno dopo, solo Campari, poiché doveva viaggiare in treno e raggiungere gli amici di Castelvecchi a Firenze. Durante l’aperitivo si prese cura della mia border collie Tina, fecero amicizia subito.
Quest’anno abbiamo parlato solo dell’edizione inglese del nostro libro che uscirà per Brill in settembre, con il titolo originale Wind and Whirlwind che tanto era piaciuto a Bauman (“Ma che peccato, in italiano Il vento e il vortice perde tutta la sua musicalità!”), ma la sua vitalità era intatta. Ecco perché non riesco a darmi ragione della sua morte, benché lasci a tutti noi un’eredità incomparabile.