Cinquant’anni or sono, il 30 maggio 1960, moriva Boris Pasternak, l’autore de “Il dottor Zivago”, il romanzo che gli valse il Premio Nobel per la letteratura, premio che lo scrittore russo, prigioniero del regime sovietico, non potè mai ritirare. Del resto il mondo non avrebbe conosciuto nemmeno il suo capolavoro, se Giangiacomo Feltrinelli non fosse riuscito a farlo uscire clandestinamente dall’Urss e a pubblicarlo, in Italia, in anteprima mondiale. Dei quasi otto anni che ho trascorso a Mosca come corrispondente di “Repubblica”, uno l’ho vissuto a Peredelkino, il “villaggio degli scrittori” creato da Stalin: avevo preso in affitto la dacia di un maestro di scacchi e non era lontana dalla dacia dove aveva abitato a lungo Pasternak, oggi trasformata in un museo, in verità polveroso e semplice. Ma forse a lui sarebbe piaciuto così. Ogni tanto andavo a passeggiarci intorno. Poco più in là, dietro una cappella, c’era il cimitero con la tomba dello scrittore. Eravamo a poche decine di chilometri dalla capitale, ma già la forza della natura russa si sentiva in modo diverso rispetto alla città: lì a Peredelkino la neve si scioglieva soltanto a maggio inoltrato. Una volta chiesi al mio vicino di casa ed amico Sergeij Advenko dove finiva il bosco che circondava le dacie del villaggio, e lui rispose: “Non si sa, nessuno è mai arrivato fino in fondo”, una frase che ricordo bene perchè mi è sempre sembrata una perfetta metafora – non solo geografica – della Russia. Storia di guerra e di pace, di amore e politica, “Il dottor Zivago” era la dimostrazione che l’eccezionale vena della narrativa russa, quel fiume carsico fuoruscito da Puskin e Gogol, proseguito con Tolstoj, Dostoevksij, Cechov e tanti altri, sarebbe continuato, anche e nonostante le censure del comunismo. “Tutto il mio essere si stupiva”, scrive Pasternak del personaggio di Jurij Zivago e del suo sentimento per Lara,”e si chiedeva: se fa così male amare, assorbire questa elettricità, come deve essere più doloroso essere donna, essere questa elettricità, e suscitare l’amore”. Per quanto carico di un ben diverso pathos hollywoodiano, anche il film tratto dal romanzo rifletteva una simile “elettricità”, perfino nella ben nota colonna sonora e nelle parole della canzone “Il tema di Lara”. Nella versione italiana faceva così: “Dove non so, ma un giorno ti vedrò, e fermerò il tempo su di noi”.