Il titolo originale del libro di Élise Thiébaut, Mes ancêtres les Gauloises: une autobiographie de la France (Paris, Editions La Découverte, Settembre 2019) riprende un’espressione francese, ‘‘nos ancêtres les Gaulois’’ — traducibile letteralmente con ‘‘i Galli, i nostri antenati’’ —, centrale nella costruzione del cosiddetto romanzo nazionale francese. Il racconto delle origini disegnato a partire dal XIX secolo ambiva a unificare la nazione illustrandone la gloria — e, in seguito, a motivare almeno in parte la ‘‘missione civilizzatrice’’ affidata alla colonizzazione. La formula mistificava un’ascendenza diretta tra gli eroici Galli di Vercingetorige, che resistettero all’assedio romano, e il popolo francese moderno, che con essi si identificava. Resa pervasiva dalla sua ricorrenza nei manuali scolastici, compresi quelli in uso nelle colonie, e riattivata nell’immaginario collettivo da prodotti popolari quali Asterix e Obelix, questa assimilazione rimane attuale in alcune rivendicazioni identitarie. Con il passaggio dalla prima persona plurale alla prima persona singolare, dal maschile al femminile, l’autrice gioca ironicamente con la stratificazione di significati, impliciti e scoperti, racchiusa nell’eco di queste parole. Ne rovescia il senso e se ne riappropria. (Angela Attolini)

Sono francese. Non francese a metà, per matrimonio o per unione. Non naturalizzata, nata lontano o qui, ma da genitori stranieri. Che sia per ius soli o per ius sanguinis, la mia geometria è esagonale come la geografia della Francia. I miei genitori sono nati francesi su suolo francese, e i loro genitori provenivano anch’essi da quel ceppo di cui si vantano inspiegabilmente gli appassionati di identità nazionale. Perché il ceppo, la parte inferiore del tronco, è ciò che resta dopo che un albero è stato stato tagliato o strappato. È la traccia quasi sempre morta di ciò che si era. Vantarsi di essere de souche, ovvero francese di ceppo puro, è tanto assurdo quanto accontentarsi di avere un bidet nel proprio bagno — benché, come amava sottolineare mia madre, i bidet siano il fiore all’occhiello del patrimonio nazionale.

Contrariamente al 40% dei francesi, di cui almeno un ascendente è nato all’estero, appartengo a quel 60% che affonda le proprie radici piuttosto lontano nella terra che era chiamata Gallia, sempre che tale paese sia mai esistito altrove che in Asterix e Obelix o nei vecchi libri di testo. Benché con apporti italiani, spagnoli, anglosassoni o germanici, sono pur sempre impregnata di celtitudine, e corrispondo al modello che tanto infiamma i difensori europei dell’ideale nazionale. Tuttavia la loro sollecitudine nel correre in mio soccorso per salvare quel concentrato di civiltà che secondo loro porterei nei miei geni, mi preoccupa a tal punto che mi sono finalmente decisa a impugnare la penna per esplorare la mia identità nazionale, invece di restarmene comodamente a casa a scrivere poesie o a guardare le piante morire sul balcone (ahimè, non ho il pollice verde).

In effetti, secondo gli ideologi che, da Alain Soral a Eric Zemmour, passando per Renaud Camus o Alain Finkielkraut, eruttano regolarmente le proprie angosce all’orecchio dei francesi, il mio popolo sarebbe sul punto di scomparire sotto i terribili colpi del Grand Remplacement, o ‘‘Grande Sostituzione’’. Molto in voga tra i movimenti identitari, questa teoria asserisce che il popolo europeo sia una specie minacciata, alla quale la lobby sionista e/o capitalista (o ancora, secondo alcune varianti, islamista) avrebbe deciso di sostituire un altro popolo venuto dall’Africa, ritenuto più docile. Pensate si tratti di un romanzo di fantascienza? Invece no: è l’ideologia che si sta diffondendo in questo principio di XXI secolo, soprattutto attraverso i social network, e tutto ciò mentre la sesta estinzione di massa (anche chiamata ‘‘ingresso nell’Antropocene’’: cfr. Elisabeth Kolbert, La sesta estinzione, Milano, Beat Edizioni, [2015], Premio Pulitzer 2015) mette in pericolo i grandi equilibri del nostro pianeta a un ritmo impareggiabile: tra il 1970 e il 2014, le popolazioni di vertebrati (mammiferi, volatili, pesci, rettili e anfibi) sono calate del 60%.

Certo, non sono un’orsa, né una lupa o una balena, ma sembrerebbe che anche io sia sulla lista, perché appartengo al popolo designato dagli identitari come ‘‘in via di sostituzione’’. Mi è dunque parso necessario, per non dire urgente, interessarmi più da vicino a questa storia che si compie, per così dire, in mio nome.

Cos’è che fa di me una francese? È una questione di geni, di storia, di religione, di convinzione? Il mio DNA contiene forse l’eleganza, lo spirito francese, la gastronomia e la haute-couture? Sono forse laica per essenza? Resistente per definizione? Cristiana dalla notte dei tempi?

Molto rapidamente mi è parso necessario interrogare la mia identità di francese attraverso una lente multipla, al fine di esplorare ciò che il racconto nazionale lascia troppo spesso da parte: il ruolo delle donne, l’impatto che la colonizzazione o la schiavitù hanno avuto sulla mia genealogia familiare e gli eventuali privilegi che ne sono risultati.

Personalmente, faccio parte di quegli individui che non sono quasi mai obbligati a declinare la propria identità o le proprie origini. Il mio nome e cognome, come quello dei miei genitori e dei miei nonni, sono iscritti nella storia ufficiale della Francia. Per strada non vengo mai fermata per un controllo d’identità, come invece capita ai giovani di colore. Non vengo privata del diritto alla casa perché il mio nome suona arabo o africano. Non mi è mai stato detto che se non ero soddisfatta potevo tornarmene al mio paese. Sembrerebbe addirittura che abbia il diritto di non essere soddisfatta e di dirlo chiaro e forte — anche se, in quanto donna, dovrei senz’altro ripetermi due o tre volte prima che, con un’alzata di sopracciglio, mi venga chiesto perché mai sono tanto aggressiva.

Ho beneficiato di una buona educazione, di una biblioteca ben fornita, e anche se non ho voluto proseguire gli studi all’università, ho avuto accesso piuttosto facilmente a posti di lavoro che corrispondessero alle mie capacità, e in particolare perché i miei genitori potevano raccomandarmi presso tale o tal altra persona ben inserita nel mondo dei media o in quello della cultura. Non faccio parte dei ‘‘senza voce’’. Non ho bisogno di urlare il mio disagio in piazza, di gridare che non riesco ad arrivare a fine mese.

Poiché ho ceduto alla maggior parte delle assegnazioni riservate al mio sesso — eterosessualità, matrimonio e maternità — non ho dovuto sopportare la buona dose di stigmatizzazioni imposte alle persone omosessuali o transgender, o alle donne che hanno scelto di non avere figli. Non ho dovuto subire domande imbarazzanti sulla mia sessualità o sull’orologio biologico che fa tic-tac — tutte cose che in realtà non dovrebbero interessare altri che me, essendo quasi sempre l’unica ad occupare il mio corpo.

Benché io sia stata stata battezzata all’età di un mese soltanto e venga da una famiglia in cui i cattolici integralisti sono legione, non sono mai stata accusata di avere legami con preti pedofili, di essere responsabile dell’Inquisizione o di prendere alla leggera la strage di San Bartolomeo. Fino ad ora non sono mai stata tenuta a giustificare le dichiarazioni dei diversi papi riguardo al preservativo, all’omosessualità o all’aborto. Allo stesso modo mi dispiace sottolineare che nessuno si meraviglia del fatto che parli francese senza accento, e che quando passa una canzone come ‘‘Ne m’appelez plus jamais France’’ di Michel Sardou, a nessuno verrebbe mai in mente di dirmi ‘‘Senti, è per te’’, come accade ai miei amici algerini quando Cheb Khaled intona ‘‘Didi’’ a fine serata. In materia di ritornelli nazionali ho un debole per ‘‘Douce France’’ di Charles Trenet, che risale alla Seconda Guerra mondiale, ma in tutta onestà è l’interpretazione di Rachid Taha per Carte de séjour che mi fa venire la pelle d’oca. E visto che parliamo di Seconda Guerra mondiale, a nessuno (e sottolineo, nessuno) è mai saltato in mente di chiedermi cosa facessero in quel periodo i miei nonni, partendo dal presupposto che, senza alcun dubbio, avevano militato nella Resistenza come la stragrande maggioranza dei francesi, o erano se non altro vittime innocenti di una crudele Occupazione.

E quindi ho scelto di mettermi qui, nel triangolo magico della francesità eterna, per comprendere cosa spinge ‘‘gli imbecilli felici che sono nati da qualche parte’’ cantati da Brassens a imbracciare le armi contro i loro simili, per protestare contro la perdita dei propri valori.

Non si tratta di ‘‘decostruire’’ il racconto nazionale, ma piuttosto di esplorarlo a partire dai miei interrogativi, mostrandone i lati nascosti, gli interdetti o i non-detti, che si tratti delle donne ‘‘galanti’’ del mito della seduzione alla francese o dell’impatto che hanno avuto, di generazione in generazione, schiavismo e colonizzazione, radici cristiane o guerre nazionaliste, sulla mia genealogia familiare. Attraverso questo libro, vorrei contribuire a creare uno spazio di autobiografia collettiva e condivisa. Raccontare le nostre storie, le nostre origini, i nostri percorsi, significa impedire che si installi un racconto nazionale egemonico, che schiaccia e rinnega tutte e tutti coloro che non si conformano alla sua leggenda dorata.

È anche — o almeno lo spero — un modo per riunirci e raccogliere insieme le sfide del presente, in particolare in materia di ambiente. In un momento in cui piove plastica sui Pirenei (Tristan Vey, «Même au fin fond des Pyrénées, il pleut du plastique», Le Figaro.fr, 23 aprile 2019), non credo di esagerare se dico che si tratta di una questione urgente.

 

Traduzione di Angela Attolini

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