Abbiamo visto La sposa promessa (Fill the Void) regia di Rama Burshtein e Yigal Bursztyn.
Volete conoscere come vivono gli ebrei chassidici ortodossi di Tel Aviv? Osservare come si regolano per le faccende amorose, i matrimoni e le feste comandate? Questo film ve ne da’ una oggettiva trasposizione e vi farà scoprire un piccolo universo claustrofobico ma in fondo accettato da tutti come in una qualsiasi comunità ristretta e prigioniera di tradizioni che spesso mostrano i loro limiti intrinseci. Una comunità dove uomini e donne obbediscono senza fiatare e senza
avere un minimo dubbio, dove però le donne hanno ancora più limitata autonomia e i matrimoni vengono decisi dalle famiglie per le motivazioni più personali da parte degli adulti e in questo caso dalla madre di lei. La regista Rama Burshtein – che ha scelto lo chassidismo da adulta – realizza questo film minimalista con uno sguardo distaccato, e sembra aver letto con attenzione i romanzi di Jane Austen.
La storia inizia durante la festa del Purim, una ricorrenza religiosa che dura due giorni e che inizia dopo un altro di completo digiuno per la purificazione dell’animo, fatto di preghiere per avere una maggior forza d’animo e poter affrontare le difficoltà della vita. La diciottenne Shira, figlia buona e remissiva di un rabbino della comunità (Hadas Yaron, che per questo ruolo ha vinto la Coppa Volpi come migliore attrice protagonista all’ultimo Festival di Venezia), intravede per la prima volta il suo futuro sposo ed è felice per la scelta che hanno fatto i loro genitori ed anche perché immagina una vita di donna adulta e libera. Ma succede una tragedia, la sorella maggiore Esther muore di parto lasciando suo marito Yochay con il neonato; i genitori rinviano a non si sa quando l’ufficializzazione del fidanzamento di Shira. Ma il giovane vedovo decide allora di risposarsi perché ha bisogno di una donna che curi il bambino, e nella loro comunità c’è l’elenco delle donne libere che potrebbero unirsi a lui: gli viene proposta una sua amica d’infanzia, vedova e che vive in Belgio, quindi si dovrà trasferire in Europa. Ma la notizia sconvolge la madre di Shira che dopo avere perso una figlia non vuole anche perdere una nipote appena nata e tra uno svenimento e un pianto decide che Shira sposi Yochay, anche se tutto reputano la cosa sbagliata e fuori dalle regole. E da questo momento c’è un no e un sì ripetuto della ragazza che rifiuta, poi sembra accettare – quando il fidanzato promesso decide di sposare un’altra stanco dell’attesa -, poi accetta dicendo che non lo ama davanti al rabbino che quindi non può permettere il matrimonio e così via fino a che pur ammettendo la sua infelicità decide di sposare quell’uomo che non ama e che ha almeno dieci anni più di lei.
Storia minimalista realizzata in modo essenziale e con distaccata partecipazione. La regista (e suo marito) usano una specie di kammerspiel – un’impostazione teatrale ma anche tipica del Cinema tedesco degli Anni Venti del secolo scorso – dove tutto il film si muove in interni e la messa in scena è data da effetti flou e da chiaroscuri di primi piani nella penombra. Il dramma è scarnificato, privo di psicologismi e di analisi sociologiche (il mondo interiore e quello esteriore, la vita di famiglia e il mondo esterno, la tradizione e la modernità, la religione e le sue ritualità legate al passato, l’individualismo e la collettività). Interessante, per chi ama scoprire mondi a parte, le ritualità e il modo di essere così distante da noi, con uomini dalle trecce lunghe e praticanti senza alcun dubbio e donne con lo sheitel in testa, sigillo sponsale a cui ogni giovane donna della comunità aspira anche per ortodossa ci sono anche piccoli sommovimenti sotto traccia come in qualsiasi giovane di ogni tempo che tuttavia non giungono mai a un terremoto esistenziale o ad una pur minima contestazione di riti e obblighi.