In fondo, alla morte – non solo la sua – Fellini ci aveva preparati da sempre. La sua filmografia, dai Vitelloni in avanti, non è che una continua meditazione/esorcismo sul tempo che passa e consuma la vita e i sogni («Una mattina ti svegli, eri ragazzo fino a ieri e adesso non lo sei più») e sul mistero del “dopo”, al quale avrebbe voluto dedicare un intero film, quel Viaggio di G. Mastorna che non riuscì mai a realizzare. Eppure, io credo che se si montassero una dietro l’altra tutte le sequenze di feste banchetti parate sagre circhi matrimoni orge processioni capodanni carnevali dei suoi film, probabilmente avremmo in mano la più vasta meditatio mortis del XX secolo. Ora, se questo è quel che ci ha lasciato, quale futuro per Fellini?
Un Fellini “futuribile”. Nell’immaginario comune, la sua immagine è legata semmai al passato, alla nostalgia, al sogno, insomma al fellinismo. Un prodotto rigorosamente Italian Style, esportabile al pari della pizza e dell’alta sartoria. A pensarci bene, anche il (poco) cinema italiano davvero spendibile oltre i confini ha un retrogusto inequivocabilmente felliniano. Penso ovviamente a La grande bellezza (prontamente insignito dell’Oscar) e a un po’ tutta la filmografia di Sorrentino a partire da L’amico di famiglia. Ma penso anche a registi più insospettabili: a Nanni Moretti, per esempio (il “Sol dell’avvenire” in cartapesta di Palombella rossa, il Vaticano di Habemus Papam); oppure a Matteo Garrone, ai corpi grotteschi e disturbanti dei suoi primi film (L’imbalsamatore, Primo amore), al suo gusto per il fiabesco (Reality, Il racconto dei racconti), per non parlare del Pinocchio prossimo venturo, un progetto a lungo cullato da Fellini e diluito poi in altri film, a cominciare dal Casanova.
Pian piano, però, dal 1993 a oggi, tra omaggi e convegni (l’ultimo solo pochi giorni fa), il cliché dell’artista perso fra le sue rêveries si è andato via via appannando – o quanto meno problematizzando: «A ben vedere», ha scritto Emiliano Morreale, «Fellini non è identificabile con la dimensione della nostalgia. In lui, il passato è dapprima carico di una connotazione inquietante e addirittura orrorifica, e poi messo in scena come un vero e proprio repertorio». Possiamo insomma incominciare a considerare il regista riminese per quello che effettivamente è stato: un grande antropologo della modernità italiana, di quello strano oggetto continuamente sospeso «fra arcaicità e fantascienza», per usare un’espressione di Giulio Bollati. Studi recenti come quelli di Andrea Minuz (Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, 2012), e, prima ancora, di Gianni Celati (Fellini on the Italian Male, 2009, solo in parte tradotto in italiano) hanno messo in luce la straordinaria capacità del cinema felliniano di penetrare l’identità (politica, storica, sessuale) italiana e i modi con cui essa si rappresenta, restituendone una visione critica “dall’interno”, con tutto il suo amalgama irrisolto di repulsione e attaccamento. Pensiamo ad Amarcord (1973). I primi quaranta minuti sono fellinismo puro (non a caso il film venne premiato con l’Oscar): il giovane Titta in calzoncini, la “Fogarazza”, le fantasie masturbatorie, i genitori, il nonno, i professori, lo struscio serale, l’eterna provincia, le musiche di Nino Rota… Poi però arriva il momento dell’adunata. Con un twist repentino, Fellini ci rivela che quasi tutti i personaggi visti fin lì, con i quali abbiamo ormai familiarizzato e simpatizzato – l’avvocato, i compagni di scuola, la tabaccaia, persino la “leggendaria” Gradisca – sono tutti irrimediabilmente, entusiasticamente, fascisti. E se all’inizio possiamo ancora sorridere dell’atmosfera farsesca, con i gerarchi a passo di corsa, i labari e i motti deficienti (“IMMARCESCIBILMENTE”), il divertimento cede il posto al disagio e infine al fastidio, durante la scena in cui il padre di Titta, antifascista, è costretto con la forza a buttar giù l’olio di ricino. Un fastidio non troppo diverso da quello che proviamo nella sequenza successiva, quando lo zio scapolo del protagonista – che poco prima abbiamo visto pavoneggiarsi in orbace ed esclamare, garrulo: «Mussolini c’ha due coglioni così!» – dopo essersi appartato con una turista straniera, torna dagli amici dichiarando con finta pudicizia che la donna, innamoratissima, gli ha concesso addirittura «l’intimità posteriore». Altro che elegia del passato: per dirla con Italo Calvino, Fellini «ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino».
E il Fellini “futuribile” di cui dicevamo all’inizio? Quello che non solo ci racconta ciò siamo diventati, ma anche quel che diventeremo? L’aggettivo “profetico” è stato utilizzato spesso, soprattutto per i suoi ultimi film. A rivederli oggi, non se ne capisce bene il motivo. Davvero la TV commerciale e rivistaiola del cavalier Lombardoni (sic!) raffigurata in Ginger e Fred (1985) o la “Sagra della Gnoccata” ne La voce della luna (1990) sarebbero delle prefigurazioni dell’Italia berlusconizzata di fine millennio che il regista non vide mai? Il Fellini degli anni Ottanta – corteggiato dai media, imbalsamato dalla critica, sistematicamente disertato dal pubblico – è un artista amareggiato e un po’ confuso, che fatica a comprendere il presente, figuriamoci il futuro: «Io sono tentato di stare a guardare tutti questi mutamenti con rispetto», dichiara in un’intervista del 1985. «Mi domando soltanto com’è successo, quando, dov’ero io quando accadeva. C’è questa nuova creatura umana, che apparentemente ci somiglia, […] ma che sa fare straordinariamente a meno delle cose alle quali noi siamo stati educati».
Anzi, rivedendo in questi giorni La voce della luna, più che dagli apoftegmi contro il fracasso della contemporaneità («Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire»), rimango colpito semmai da quei personaggi in cui Fellini raffigura pezzi di se stesso: l’oboista Sim, che si è rifugiato in un loculo del camposanto per difendersi dalla musica (dal cinema?) «che promette, promette, e non mantiene mai»; l’ex prefetto paranoico Paolo Villaggio, ossessionato dall’idea che i vicini lo possano contagiare con «la loro orrenda malattia: la vecchiezza»; il folle disincarnato Roberto Benigni, “abitato” da una cacofonia di «schiocchi di frusta» e «migliaia e migliaia di voci» che non è (più?) in grado di decifrare.
«Ma dammi almeno un raggio di sole!», dice il produttore a Fellini nel finale di Intervista (1987). Il “Maestro” da cui tutti si aspettano un monito o un parere, ma che non riesce a dire nulla, è un’immagine ricorrente negli ultimi film del regista. In E la nave va (1983), Orlando (Freddie Jones), cronista a bordo di un piroscafo nel fatidico 1914, confessa sconsolato la propria impotenza allo spettatore: «“Io scrivo, racconto… Ma cos’è poi che voglio raccontare? Un viaggio per mare? Il viaggio della vita? Ma questo non si racconta, si fa, ed è già tanto”… È banale, eh? È stato già detto. E meglio! Ma tutto è stato già detto! E fatto!». L’Arte, quella con la Maiuscola, si riduce allo svago solipsistico e masturbatorio del feticista che, nel chiuso della cabina, riproietta ossessivamente le immagini della propria cantante preferita. Oppure trova spazio nei luoghi più inospitali: la sala macchine in cui i virtuosi dell’ugola si esibiscono a favore dei virtuosi del badile; e le cucine dove due vegliardi maestri di musica eseguono Schubert all’arpa di vetro fra le stie dei polli e il borbottare sommesso delle pentole.
Ecco, se c’è un film che merita la qualifica di “profetico”, fra gli ultimi diretti da Fellini, direi che è proprio E la nave va. Rivista a più di trent’anni di distanza, questa fantasia in stile belle époque, con il prologo muto alla Lumière e la nave allestita da Dante Ferretti che traversa un mare di plastica, mi pare che dica parecchie più cose sulla nostra contemporaneità di tutto il cosiddetto “cinema del reale” realizzato nell’ultimo decennio. Il transatlantico diretto nell’Egeo per spargere le ceneri del soprano Edmea Tetua, versione ammodernata della stultifera navis, non è forse un’allegoria perfetta dell’Europa (anzi, dell’Occidente) di oggi, che avanza compunta verso il proprio funerale? E i suoi ospiti, granduchi principesse aristocratici militari sceicchi attori intellettuali, un po’ comici e un po’ (melo)drammatici, che giocano a non capirsi e che proclamano soddisfatti «Siamo seduti sulla bocca di un vulcano!», non somigliano in modo preoccupante ai leader sovranisti, agli alfieri del capitalismo smart e ai loro portaparola, che sembrano accogliere gongolando ogni sentore di una catastrofe prossima ventura?
Ancora: davanti all’apparizione, improvvisa e inspiegabile, di una folla di profughi serbi (siamo all’indomani dell’attentato di Sarajevo) sulla tolda della nave, gli scambi di battute fra capitano e passeggeri indispettiti («Il comandante è tenuto a raccogliere i naufraghi», «Fra quelli che lei definisce profughi, si nascondono professionisti dell’assassinio», «Ho dato ordine di isolare gli individui pericolosi») non richiamano alla mente altri scambi, altri profughi, altre navi? Infine il naufragio: per un istante sembra quasi che Orlando/Fellini stia rivelando le vere ragioni dello scoppio della Grande Guerra… ma poi tutto si consuma in una nebulosa di “si dice”, “pare che”, “altri sostengono”. Congetture che si elidono l’un l’altra come segni opposti di un’operazione algebrica: una prassi fin troppo familiare, in tempi di post-verità e fake news.
Intendiamoci, non voglio fare della «triviale simbologia profetica», per dirla con Furio Jesi. Però Fellini, che era stato in cura da Ernst Bernhard e aveva sfogliato Jung, conosceva il potere suggestivo di certi archetipi. L’aveva capito bene anche uno spirito laico e illuminista come Calvino, che, in occasione dell’uscita, riservò al film parole calorose: «Il transatlantico “Gloria N.” diventa un’immagine del mondo in cui ci troviamo sempre più stretti, in cui da un giorno all’altro scopriamo che distanze geografiche e sociali sono annullate […] ai cui problemi non si trovano soluzioni se non in affermazioni di principio che poi non si riesce a rispettare». E della catastrofe finale scrive: «Da molto tempo viviamo come cittadini di un giudizio universale a rallentatore. […] La sola cosa che possiamo fare è contemplare vecchie immagini di naufragi come per tranquillizzarci, dato che siamo sopravvissuti fin qui».
Insomma, il Fellini che sembra annunciare la fine del mondo (o soltanto la fine di “un” mondo: il nostro), porta con sé anche il contravveleno. Nel momento più drammatico, mentre il piroscafo cola a picco, la regia fa un passo indietro, svelandoci che in fondo è tutto un trucco: la nave è finta, il mare è di plastica, il cielo dipinto, il rollio generato da una colossale idromacchina. Senza dubbio, un modo di celebrare per l’ultima volta una tradizione artigianale del nostro cinema che nel 1983 era giunta al capolinea. Ma forse anche un monito rassicurante rivolto a chi vien dopo (cioè a noi): un’apocalisse non è una cosa seria, dopotutto, e una catastrofe può essere anche una possibilità di rinascita. Come quella della rinocerontessa malata d’amore e di dissenteria, che ritroviamo sana e salva, insieme a Orlando, a bordo di una scialuppa in mezzo al mare. «Lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte?», bisbiglia il cronista, rivolto alla macchina da presa. Sul significato riposto di quel latte si sono versati fiumi di parole e d’inchiostro. Io, che mi son già dilungato abbastanza, m’accontenterei di adoperarlo per brindare alla memoria di Federico Fellini.