Diciamo la verità: da un genere musicale che ha esortato al sesso fin da quando stava in fasce ci si poteva francamente aspettare di più. L’orgasmo di Robert Plant in Whole lotta love degli Zeppelin non era male, ma la sua repentinità e la cornice esoterica dentro cui si compì poteva insinuare il sospetto che il rock fosse più incline a infliggere sevizia che non a suscitare piacere. The great gig in the sky dei Pink Floyd era l’ideale se volevi attirare l’attenzione dei vicini, ma in quell’estasi astronomica c’era già, in nuce, lo stordimento del new age e il sesso tantrico a beneficio di una civiltà orfana di liturgie (le candele, l’incenso, gli abbracci di luce). Quanto a Orgasm (a.k.a. Poem) di Prince, il primo istinto è sempre stato quello di abbassare il volume e aprire a caso una poesia di Giorgio Baffo o i sonetti lussuriosi dell’Aretino. Insomma, e per farla breve: di orge, toccatine, versetti e sospiri vari il kamasutra del rock è pieno, ma se restringiamo il campo agli amplessi veri e propri, quelli in cui ci si prende il tempo, preliminari e tutto quanto, allora la scelta è quasi obbligata.

Je t’aime… moi non plus fu pubblicata da Serge Gainsbourg cinquant’anni fa, nel febbraio del 1969, dapprima come lato A di un 45 giri e in seguito su un album intitolato Jane Birkin – Serge Gainsbourg, dove s’accompagnava a un’altra canzone interpretata a due voci dalla coppia: 69 année érotique (definiamolo pure, suppergiù, un disco a tema). Censuratissima, bandita e maledetta dal Vaticano, proibita in mezzo mondo, Je t’aime… moi non plus metteva in scena l’orgasmo dell’allora compagna di Gainsbourg, l’attrice inglese Jane Birkin. La canzone in verità era stata scritta due anni prima per un’altra fiamma (succede), Brigitte Bardot, all’epoca amante di Gainsbourg oltre che una delle donne più concupite di Francia (e forse della galassia tutta). Una sera la Bardot chiese a Gainsbourg di scriverle la canzone d’amore più bella che fosse mai stata composta, e detto fatto lui le fece interpretare un orgasmo. Prima di aggiungere altro bisogna sottolineare una cosa, e cioè che Serge Gainsbourg era ben consapevole di non avere dalla sua il profilo di Gregory Peck, di Alain Delon, o di Marcello Mastroianni. Anni dopo, transitando davanti a una galleria d’arte nelle vie di Parigi, fu colpito da una scultura esposta in vetrina che ritraeva un uomo nudo, seduto, le braccia distese sulle gambe e un cespo di verza al posto della testa. Gainsbourg comprò la scultura su due piedi, la portò a casa e la sistemò in salotto. Quell’opera gli avrebbe ispirato una canzone e un intero disco a tema: Je suis l’homme à la tête de chou / Moitié légume moitié mec (Sono l’uomo con la testa a forma di cavolo / Un po’ verdura e un po’ tipo qualunque). L’uomo dalle orecchie a sventola e Brigitte Bardot. L’archetipo della bella e la bestia. Un messaggio di speranza per tutti gli uomini verza del pianeta.

La versione di Je t’aime… moi non plus cantata da Brigitte Bardot godette di un unico passaggio radiofonico su Europe1 nel dicembre del 1967 (sul mezzogiorno, subito dopo il giornale radio, mentre i francesi si accingevano al pranzo). L’allora marito dell’attrice, l’imprenditore tedesco Gunter Sachs, saputo della canzone e dell’orgasmo stereofonico di BB, minacciò il finimondo, e la Bardot, preoccupata che uno scandalo del genere potesse comprometterle carriera e reputazione, implorò Gainsbourg di rinunciare alla pubblicazione del 45 giri. Lui accettò, il disco non fu pubblicato e la storia d’amore fra Serge Gainsbourg e Brigitte Bardot finì, come si suol dire, sul più bello. La versione di Je t’aime… moi non plus cantata dalla Bardot vedrà la luce soltanto nel 1986, diciannove anni dopo l’incisione. Claude Dejacques, storico direttore artistico di casa Philips a metà anni ‘60, definì la richiesta di censura della Bardot un errore colossale. A suo dire la carriera di BB non solo non ne avrebbe risentito, ma quell’orgasmo pubblico l’avrebbe verosimilmente trasformata nell’icona dell’emancipazione femminile di fine anni ‘60.

Due anni dopo, febbraio del 1969, fu pubblicata la seconda versione di Je t’aime… moi non plus, interpretata stavolta da Jane Birkin. Stessa canzone, stessa agonia, e scandalo planetario. Prima d’allora il sesso in canzone s’era sempre limitato agli eufemismi e ai giri di parole. Si poteva lasciar intendere tutto, a condizione che non si dicesse nulla. Let’s do it (facciamolo), aveva scritto Cole Porter sul finire degli anni ‘20, salvo poi dover aggiungere, a parziale ammenda del titolo, Let’s fall in love (innamoriamoci). Dorothy Fields, una delle poche donne attive nel teatro musicale americano, aveva optato per l’espressione Diga Diga Doo (when you love it is natural to Diga Diga Doo – “quando si ama è naturale fare diga diga doo”), attribuendo il motto a una tribù di selvaggi africani (Zulu man is feeling blue, recitava anche il testo: “l’uomo zulu si sente triste”). Quanto a Eddie Cantor, star di Broadway, ricorreva a un’espressione molto in voga negli anni ’20: Makin’ whoopee (She feels neglected, and he’s suspected / Of makin’ whoopee; “lei si sente trascurata, e si sospetta che lui faccia urrà”). Che fosse per il teatro musicale, per il vaudeville, per il cabaret, oppure in ambito di osteria o di canto popolare, la canzone ha sempre trovato il modo di alludere in modo più o meno esplicito al sesso. Nessuno però aveva mai provato a scalare le classifiche di vendita mettendo in scena un orgasmo. Lo scandalo di Je t’aime… moi non plus non aveva attinenza col tema evocato, ma col fatto che il pop si fosse trasferito nell’alcova munito di registratore e di altoparlanti. L’equivalente di un filmino pornografico su vinile.

 

C’era anzitutto quello strano titolo: Je t’aime… moi non plus (ti amo… neanch’io). Un titolo surrealista, più che surreale, che rinviava a una celebre dichiarazione di Salvador Dalì: Picasso est espagnol, moi aussi. Picasso est un génie, moi aussi. Picasso est communiste, moi non plus (Picasso è spagnolo, anch’io. Picasso è un genio, anch’io. Picasso è comunista, neanch’io). Nella canzone Jane Birkin non fa che ripetere con trasporto je t’aime, mentre Serge Gainsbourg si ostina a filosofare o a rispondere in tono distaccato moi non plus. Jane Birkin, ad anni di distanza, provò a spiegare questo gioco di coppia (lei che gode dichiarando il suo amore, lui che si sottrae non tanto al piacere quanto alla ratifica di un sentimento) facendolo risalire al fatto che Gainsbourg avesse composto la canzone per Brigitte Bardot, una donna di una sensualità hors norme. Nonostante i due fossero accesi di voluttà, parafrasando la Birkin, Serge non riusciva a convincersi che una donna tanto bella potesse amarlo per davvero. In quel moi non plus la Birkin leggeva insomma una tutela, un parare preventivamente il colpo in attesa dell’inevitabile ricusa da parte della Bardot. Quel che è certo è che la donna nella canzone si concede all’amore, mentre l’uomo non fa che negarsi (e in pochi, va detto, riuscivano a negarsi come Serge Gainsbourg).

Se c’è una ricorrenza nel Gainsbourg interprete, questa va cercata proprio nel distacco emotivo ch’era solito mettere fra sé e la materiale da interpretare. Cresciuto a Parigi, frequentatore dei locali di Saint-Gérmain-des-Prés, Serge Gainsbourg s’era formato musicalmente ascoltando Boris Vian e i dischi di Art Tatum, di Thelonious Monk, di Django Reinhardt e di Dizzy Gillespie. Del jazz amava il carattere, il ritmo e le armonie, in particolare quelle adottate dalla rivoluzione del be-bop. Inizialmente, quando si propose di vestire le sue canzoni con l’abito del jazz, lo fece estetizzandone i clichè e gli aspetti per così dire di contorno. Del bop Gainsbourg amava soprattutto l’attitudine dei musicisti che lo avevano fatto proprio e che si esplicitava in un distacco ch’era insieme esistenziale ed emotivo. Il jazz moderno aveva rappresentato una profonda cesura con l’era dello swing non solo sul piano musicale, ma anche in termini di approccio temperamentale al fare musica. L’euforia ritmica delle big band, la partecipazione e l’abbandono collettivo dello swing, erano stati soppiantati da un approccio più scuro e introspettivo, improntato a un ascolto di natura riflessiva e individuale, si pensi soltanto ai grandi jazzisti del periodo: Miles Davis o Thelonious Monk, Bill Evans o John Coltrane, Bud Powell o Dexter Gordon (diciamo pure tutta la stagione Blue Note del periodo classico). Erano artisti che rivelavano un’indole e un’attitudine molto diversa rispetto ai musicisti della generazione precedente. Per inquadrare al meglio il rapporto di Serge Gainsbourg con l’interpretazione è importante sottolineare il raccordo con questo ambito stilistico e questo modo di sentire. Gainsbourg aveva insomma colto un aspetto fondamentale del jazz moderno: il distacco psicologico, lo spleen esistenziale, il non coinvolgimento emotivo con la realtà. Funzionava così in musica, e funzionò così anche quando la sua donna gli dichiarò (istigata da lui, questo è vero, e su base non più jazz, ma rock) il suo amore gioendo pubblicamente: je t’aime. Risposta: moi non plus. Era una replica che poteva essere letta alla stregua di un contrappunto bop, degna di un accordo dissonante di Monk o dello sguardo tenebroso di Miles Davis.

Sentendosi inadatto all’arte con la A maiuscola (pittore fallito, considerava la canzone un’arte minore), e impossibilitato a profilarsi in veste di ambasciatore di bellezza (l’homme à la tête de choux), Gainsbourg abbracciò in modo quasi naturale la provocazione. Quella di Je t’aime… moi non plus fu una delle più clamorose (ne seguiranno altre, si pensi soltanto a Smoke gets in your eyes versione camere a gas sul disco a tema Rock around the bunker, o la Marsigliese su base reggae). L’orgasmo di Jane Birkin fece certamente epoca, dando il la a tutta una serie di pornoparodie e di tentativi di emulazione in cui il godimento femminile veniva esposto più come un trofeo maschile che non come un vessillo di emancipazione. Che è poi quanto alcuni avevano rimproverato allo stesso Gainsbourg e, soprattutto, a Jane Birkin, accusandola di essersi lasciata manipolare da un losco e perverso figuro. Jane Birkin ha sempre respinto le critiche al mittente, rispondendo che lei e Serge s’erano amati alla follia, e che la maldicenza non contava. Je t’aime… moi non plus, ha anche dichiarato la Birkin, est une chanson d’une grande pudeur (è una canzone che esprime un grande pudore). Sarà, anche se i versi: comme la vague irrésolue / je vais et je viens / entre tes reins (“come l’onda irresoluta vado e vengo tra i tuoi fianchi” – dove l’uso di reins, reni, è un richiamo diretto al Marchese de Sade), parrebbero indicare l’esatto contrario. Quanto al je me retiens di Gainsbourg (mi trattengo), e all’esortazione della Birkin: non! Maintenant, viens! (no! Vieni adesso!), rimandano direttamente a quanto si diceva poco sopra riguardo al distacco emotivo del bop, oltre che alla convinzione di cui Gainsbourg si fece portavoce, secondo cui la donna fosse diversamente predisposta al fatto amoroso rispetto all’uomo. Sempre Gainsbourg, stuzzicato in merito, definì Je t’aime… moi non plus la canzone più morale che avesse mai scritto. Ma lo disse, come amava fare, sbuffando volute di fumo denso (Gitanes senza filtro), e con il desiderio sempre vivo di spiazzare l’interlocutore. Resta il fatto che nella canzone Serge Gainsbourg infilò un verso ch’era la vera sottolineatura di quella provocazione in musica: l’amour physique est sans issue (“l’amore fisico è senza via d’uscita”).

Ora, si potrà dire ch’era facile, per Gainsbourg, buttar là una frase del genere mentre era intento a fare l’amore con Brigitte Bardot. È un po’ come quando un milionario sostiene che il denaro non fa la felicità. Beh, grazie… Quella frase però, enunciata in tono imperturbabile mentre la sua amante stava per raggiungere l’orgasmo, si poneva da un lato come una sorta di monito filosofico (copulare in pubblico, dopo tutto, era roba da cinici greci: Cratete e Ipparchia che offrono alla polis l’intimità della loro vita coniugale), e dall’altro esplicitava il vero scandalo di quell’amplesso. A fine anni ’60, quando libertà dei costumi e libertà sessuale parevano indicare la nuova frontiera, ecco un uomo che metteva in scena un orgasmo femminile apponendovi una curiosa avvertenza: l’amore fisico è senza via d’uscita. Je t’aime… moi non plus, per quanto sconcia e scandalosa, e per paradossale che possa sembrare, è anche una canzone che metteva in guardia dal credere che il sesso fosse in grado, a lui solo, di validare l’amore (moralità di Gainsbourg: un apparente ossimoro).

Gainsbourg lo affermò proprio nei giorni che seguirono la pubblicazione del disco: l’amore fisico non basta alla passione. Il faut se réferer à d’autres arguments. Bisogna cercare altri argomenti. Quali? Non lo disse, ma probabilmente non era compito suo il farlo, in quella circostanza. Ciò che gli competeva era la provocazione: cantare un inno all’amore a mezzo di un orgasmo femminile, lasciando intendere che lo scandalo risiedesse in quegli ansiti, non già nel deficit d’amore. Non dimentichiamo che siamo nel 1969. L’anno della tre giorni di pace amore e musica di Woodstock. L’anno in cui John Lennon e Yoko Ono inscenarono due bed-in di protesta contro la guerra restandosene a letto per due settimane (una ad Amsterdam e una a Montreal) di fronte a dei giornalisti. Tutti erano rimasti colpiti dalla manifestazione pubblica del piacere femminile della Birkin (je t’aime), ma non avevano badato granché al fatto che il vero perno morale della faccenda, con ogni probabilità, era il dispiacere maschile insito in quel diniego di Gainsbourg (moi non plus).

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