Quota Albania è il libro meno letto di Mario Rigoni Stern, forse per il titolo, certo non evocativo come Il sergente nella neve o Il bosco degli urogalli, ma quello più amato dallo scrittore. Pubblicato nel 1971, è subito apprezzato dalla critica: Corrado Stajano, sulla rivista Tempo, scrive che la guerra per Rigoni è uno «specchio per conoscere gli uomini» e che Quota Albania è «un libro virile, intessuto di pietà».
Dopo il modesto successo di pubblico, arriva anche la delusione del Campiello: per Rigoni è un premio letterario importante, il suo amico Primo Levi lo aveva vinto nel 1963 con La tregua, inoltre si tiene a Venezia, e il libro ha un particolare legame con la città. Ma resta fuori dalla selezione finale.
Ambientato nei luoghi attraversati durante il primo anno di guerra, il libro ricostruisce le vicende accadute a Rigoni Stern tra i primi di giugno del 1940 e la primavera del 1941, a partire dall’avvicinamento del suo battaglione al confine con la Francia, in vista dell’aggressione che Mussolini scatenerà il 10 giugno. “Si era accampati tra Aymavilles e Villeneuve, sulla riva destra della Dora. Eravamo arrivati lì dopo le marce attraverso il Canavese e risalendo la Valle d’Aosta; dietro di noi c’era il pianto delle ragazze di Castellamonte, Torre Bairo, Frassinetto”.
I primi capitoli raccontano proprio la breve guerra sulle Alpi, con Rigoni caporale portaordini, e una pioggia torrenziale che accompagna gli alpini mentre marciano attraverso gli alti valichi tra Italia e Francia, tra il Colle del Piccolo San Bernardo e il Mont Valaisan. Quella marcia notturna nel freddo anomalo del giugno 1940 è quasi un presagio dei disastri che seguiranno. Rigoni tornerà in quei luoghi nel settembre del 2001: sul passo del Piccolo San Bernardo un’inaspettata nevicata fuori stagione gli porterà alla memoria tanti ricordi.
Dopo l’armistizio con la Francia del 24 giugno, Rigoni trascorre alcuni mesi di addestramento in Val di Fiemme, poi deve partire con la Tridentina per l’Albania: Mussolini ha deciso di invadere la Grecia. L’attacco ha inizio il 28 ottobre del 1940, nell’anniversario della marcia su Roma. È la stagione peggiore per un’invasione: si è alle soglie dell’inverno, l’imperversare delle piogge riempie strade e mulattiere di una fanghiglia che invischia camion, uomini e muli; fiumi e torrenti si gonfiano di acque limacciose. Già in novembre l’esercito italiano è costretto a ripiegare in territorio albanese, incalzato dai greci. Sulle cime più alte gli alpini sono costretti a scavare ricoveri e grotte per difendersi da una temperatura che a volte scende sotto i trenta gradi sottozero; le comunicazioni sono insufficienti e scarseggiano i rifornimenti. I fiumi Kalamos, Sarandaporos e Vojussa sono in piena, i greci fanno saltare i ponti e i genieri italiani sono costretti a ripristinare alcuni punti di passaggio. E intanto da Roma arrivano missive e direttive irrazionali, più finalizzate alla propaganda che a concrete strategie militari.
Tanti di quei soldati sono ragazzi distolti dal lavoro nei campi e nei boschi, già con un mestiere, semplice ma sicuro. Rigoni sa spaccare la legna, fare un buon fuoco, e anche sparare. Per il fiato e per le gambe buone che lo contraddistinguono, viene soprannominato Piè veloce; spesso svolge rischiose missioni da solo, in un territorio difficile. È stimato da commilitoni e ufficiali, il 1° dicembre diviene sergente. E nella vita militare Rigoni, come altri, si impegna con serietà, con il desiderio di mettersi alla prova, di riuscire bene anche nel lavoro di soldato, per sé e per gli altri. Le attese silenziose prima delle cannonate, le grida dei feriti, la paura: tanto dolore e tanto spreco di giovinezza scorrono nelle pagine; ma anche episodi di generosità tra disperati, di quiete notturna davanti a un fuoco, ricordando i giorni sereni tra le montagne dell’addestramento alpino o il proprio paese lontano.
Il sanguinoso equilibrio del conflitto si risolve a primavera per l’intervento della Germania: le armate tedesche scendono da nord-est occupando Tracia e Macedonia. Gli italiani ora hanno davanti un nemico indebolito e ormai preso alle spalle, e il 13 aprile riprendono ad avanzare, rioccupando Corizia e Argirocastro. Il 21 aprile viene firmato l’armistizio: Mussolini e Hitler si spartiscono la Grecia.
Si tratta di una guerra oggi quasi dimenticata, che costò al nostro Paese circa 14.000 morti, più di 12.000 congelati, oltre 50.000 feriti e 25.000 dispersi, risultati poi quasi tutti deceduti. Altrettanti i caduti greci. Vanno poi aggiunti i soldati annegati sulle navi italiane affondate nello Jonio e le vittime civili dei bombardamenti sulle città greche.
Il libro si abbina a Il sergente nella neve per consequenzialità e contiguità degli avvenimenti, chiarezza di scrittura e abilità narrativa. Curiosamente solo in Svizzera, nel 1974, le due opere sono state pubblicate in un unico volume. .
Quota Albania, come il Sergente, si appoggia al diario di quei giorni: durante gli anni dell’addestramento alpino e della guerra, Rigoni annotava accadimenti e impressioni in taccuini con la copertina nera.
La prima stesura è del 1967, si intitola Tra fango e tormente, viene pubblicata dall’editore Ferro in La guerra della naia alpina, un’antologia di scritti di Monelli, Lussu, Weber, Gadda e altri, curati e commentati da Rigoni. Il testo è privo dei capitoli ambientati sulle Alpi e contiene alcune digressioni e riflessioni che l’autore eliminerà in Quota Albania, affinando lo stile e rendendolo più oggettivo.
Tra le Alpi Occidentali e l’Albania, Mario è un giovane ancora pieno di ideali e di illusioni, immagina un futuro da capitano degli alpini o da guardaboschi, con la ragazzina di cui è innamorato. Nel libro la chiama ‘la ragazzina di Venezia’, un amore forte ma limitato ai sentimenti: si sono conosciuti e frequentati durante le vacanze estive di lei ad Asiago, dove alloggiava con la madre in una casa difronte a quella di Rigoni. Per la differenza di età, i costumi morigerati di allora e la timidezza di Mario, quel sentimento non diverrà mai qualcosa di più. Ma lui è perdutamente innamorato, e le scriverà per molti mesi lettere d’amore, a volte inserendo nelle buste stelle alpine ed altri fiori.
Per il giovane caporale quell’esperienza di guerra sarà terribile, per certi aspetti anche più di quella successiva in Russia, dove Rigoni conoscerà l’orrore delle morti in battaglia, a Kotowskij e a Nikolajewka, e della morte per sfinimento e congelamento durante la ritirata, ma anche momenti di tregua, in certe notti stellate nella steppa infinita, tra grandi distese di betulle e di girasoli. In Albania assiste e partecipa solo a una tragedia e uno sfacelo senza fine, inaspettato. Mesi di freddo, fame e disperazione in un Paese poverissimo, e una guerra a cui nessuno sa dare un senso.
Nelle sue lettere dal fronte non si notano apprezzamenti verso il fascismo, solo una ingenua fiducia nelle sorti della guerra; Rigoni non immaginava il disastro organizzativo e logistico dell’esercito e dei suoi comandi. Difficili anche i rapporti con la popolazione, molto chiusa e diffidente; l’opposto di quanto avverrà nel ’42 in Russia, dove i contadini e le donne sono socievoli, anche generosi, con chi li tratta da esseri umani. Tanti anni dopo, quando le regole internazionali lo consentiranno, tornerà in Russia, in visita, non tornerà mai invece in Albania.
Nei primi tre capitoli di Quota Albania Rigoni inizia a scrivere alternando passato remoto e imperfetto, racconta le sue vicende avvertendo il distacco degli anni, ma poi irrompe a tratti il tempo presente, più diretto e coinvolgente. La scrittura ha cadenze quasi musicali:
“Tra la bufera vediamo delle forme scure; quasi ci cadiamo addosso: sono corpi irrigiditi, levigati dal vento e dalla neve come sabbia, gli occhi aperti, brinati dal ghiaccio. Uno ha il braccio alzato come volesse ancora chiamare qualcuno o salutare, la mano gli è rimasta aperta. Tento di abbracciare quel braccio lungo il corpo pietrificato affiorante dalla neve, ma lo sento rigido e fragile come una canna vuota, e temo che mi si rompa tra le dita: questi sono gli alpini del Vestone. (…).
Guardi le fiamme in silenzio e sei in nessun posto e nessuno, e non sai cosa sia vero e cosa sia sbagliato, perché al sogno di camminare con lei lungo le Fondamenta delle Zattere si sovrappone l’immagine dei congelati del Valamare. All’infuori di queste fiamme tutto è buio e ignoto. Neve che ti soffoca, fango che ti inghiotte”.
Alcuni momenti sono narrati con abilità quasi cinematografica e comunque di grande efficacia visiva ed emotiva. Come quando Mario si trova da solo, in territorio nemico, in un campo dove nell’inverno si era svolto uno scontro feroce tra italiani e greci, e lo scioglimento della neve gli svela i cadaveri in decomposizione e tutto l’orrore della guerra e della morte.
Il severo ma affezionato colonnello Reteuna lo va a cercare correndo a cavallo e lui, ancora sconvolto e confuso, gli punta il fucile contro. Ma il colonnello lo chiama per nome, Mario, più volte. E Rigoni stacca il dito dal grilletto. Riprende consapevolezza.
“Ma che cos’hai? Laggiù, risposi sottovoce indicando con la mano, ci sono soldati italiani e greci che marciscono al sole e mangiati dai corvi. Io, ora, volevo spararle. Mi guardò negli occhi e forse capì quello che avevo dentro, fece una smorfia e disse brusco: Andiamo! Era sul cavallo e gli camminavo al fianco, in silenzio. Ogni tanto lui si guardava intorno: muoveva le guance e gonfiava l’aria dentro la bocca. Io aspettavo che mi dicesse qualcosa, desideravo che mi parlasse, e solamente dopo un lungo tratto di cammino si decise a dirmi: Non ti ho visto ritornare e ho pensato che era stata una grande imprudenza mandarti così da solo. Ci potrebbero essere in giro pattuglie greche di retroguardia.
Continuavo a camminare in silenzio a lato del cavallo e volevo che mi parlasse ancora; incominciavo a provare tenerezza per il vecchio comandante, brutto e bastonatore. Dopo un poco dissi con voce che non pareva mia: Ma lei è venuto da solo a cercarmi? Diede con i calcagni nei fianchi del cavallo per fargli allungare il passo. Io quasi correvo. Quando fummo in vista della nostra colonna rispose: io ormai sono vecchio. E poi quasi stizzito: Tu sei un ragazzo. Devi vivere.”
Le condizioni ai limiti della sopravvivenza in cui devono combattere contrastano con le lettere gentili che gli arrivano dalla ragazzina di Venezia, che raccontano di onde sulla laguna e libri romantici, e da casa, con notizie di sciate in altipiano e patate da raccogliere. Un mondo lontanissimo.
Le lettere d’amore sono destinate a finire. Al suo migliore amico, Rino, il 28 gennaio 1941, confessa: “Ha i capelli d’oro, gli occhi di mare profondo, la voce d’usignolo, semplice e bella come una stella alpina bagnata di rugiada. È Clary, la veneziana. Mi ha scritto qualche volta e qualche volta ci ho scritto. E sì a dirla francamente sono cotto!” Ma un giorno l’idillio si spezza. Rigoni riceve una lettera dello zio monsignore della ragazzina, un’autorità a Venezia, che gli intima di non scriverle più, adducendo gravi problemi di salute della ragazza.
Mario è disperato, pensa anche a morire sul campo di battaglia. In un racconto del 2007, Aspettando la posta, parlando del suo amico Raul che va a combattere con foga e incoscienza dopo aver ricevuto una lettera di addio dalla morosa, Rigoni scriverà che si deve stare attenti a cosa si scrive a chi è al fronte.
Negli anni del dopoguerra Rigoni ritroverà Clary. Lui ha formato una famiglia con Anna, la compagna della sua vita; lei, dopo un matrimonio infelice convive con il pittore Armando Pizzinato, un artista molto stimato da Rigoni. Nella copertina di Quota Albania vorrebbe inserire proprio un bel ritratto di lei realizzato da Pizzinato, ma alla fine viene scelta una foto di guerra. La ragazzina abita ancora oggi a Venezia, in un’antica casa affacciata su un canale e un Campo, ricorda ancora con affetto quei giorni: “Pensa che solo trent’anni dopo, leggendo Quota Albania, scoprii perché all’improvviso avesse smesso di scrivermi”.
Nel mese scorso è riemerso un inedito di Rigoni legato a Quota Albania: sapevo della sua esistenza e lo cercavo da anni. Quando, nel 2011, l’allora presidente dell’Einaudi Roberto Cerati mi mise a disposizione l’archivio della corrispondenza di Rigoni con l’Einaudi, avevo trovato una lettera, del 26 ottobre del 1981, con la quale lo scrittore inviava una prefazione a Quota Albania, in vista di una ristampa nelle edizioni per le scuole medie. Si trattava della bella collana che per tanti anni ha ristampato libri di Levi, Calvino, Sciascia, e altri autori del Novecento curati dagli stessi autori, che ne scrivevano la prefazione e le note.
Nella lettera, Rigoni scriveva: “cara Agnese (Incisa ndr), ti mando Quota Albania rivista nel testo e preparata per le scuole medie. Mi sembra un lavoro ben riuscito, e questo libro, anche riletto a distanza di tempo, vedo che non è male. Io ci sono particolarmente affezionato perché è la mia giovinezza. (…) Qui oggi nevica, e con il vento dalla Furlanà, da est, le beccacce sono partite per i boschi del sud e il fuoco brucia nella stufa”.
Alla lettera non era però allegata la prefazione, che tentai di trovare muovendo mari e monti, ma senza esito. Solo quest’anno, quando il figlio Alberico ha terminato un primo inventario dell’archivio del padre, è finalmente riemersa.
Breve, ma sentita e coinvolgente la prefazione, esteso e accurato il lavoro sulle note. Scrive Rigoni: “È il racconto di quello che avvenne a un ragazzo, avevo diciannove anni allora, coinvolto nelle vicende spaventosamente grandi di quegli anni, e di come le affronta e le vive, con l’entusiasmo della giovinezza e il dolore e l’affanno di una durissima e amara realtà”.
Quota Albania, per i fatti e le esperienze che racchiude, rappresenta il momento del superamento della linea d’ombra, il passaggio dall’adolescenza alla maturità. Rigoni e tanti della sua generazione non hanno mai vissuto davvero la loro giovinezza: dopo la guerra sulle Alpi e quella in Albania gli toccherà il fronte russo e la ritirata del gennaio del 1943, poi i venti mesi di lager tedeschi per aver rifiutato di aderire alla Repubblica di Mussolini.
Il libro si chiude con la fine dei combattimenti sul fronte greco, l’illusione che la guerra sia finita; Rigoni si lava nell’acqua fredda di un fiume come a ripulirsi corpo e mente, dopo tante fatiche e dopo aver rischiato più volte di morire, esausto ma ancora vivo, ancora giovane: “Chiudo gli occhi e sotto le palpebre ruotano infiniti soli colorati. E mi lascio vivere”.
Alle vicende narrate in Quota Albania possono ben adattarsi le parole di Cesare Pavese sui marinai dei racconti di Joseph Conrad, autore molto amato da Rigoni: “I piccoli uomini che, febbricitanti e risoluti, tengono duro in questo racconto – gli umili e i sorridenti che, senza un gesto, s’immolerebbero ai compagni e non lo sanno – escono da una stirpe di coraggiosi, non di santi”.