Arriva in libreria, Troppe puttane! Troppo canottaggio ! Da Balzac a Proust, consigli ai giovani scrittori dai maestri della letteratura francese a cura di Filippo D’Angelo. Pubblichiamo l’introduzione.
Se si volesse riassumere in una sola frase il magistero degli autori antologizzati in queste pagine, poche parole potrebbero essere sufficienti: la letteratura è un’arte marziale.
Lontano dai luoghi comuni che vorrebbero il critico sodale e complice degli scrittori, nobilmente impegnato nelle dispute per il riconoscimento dei loro meriti; lontano dalla falsificazione umanistica di una società letteraria pacificata, l’immaginaria République des Lettres, i cui abitanti si troverebbero a collaborare per la salvaguardia dei valori e il progresso dello spirito; lontano dalla finzione accademica di un canone nel quale, superati ormai gli agonismi che li divisero in vita, gli autori riposerebbero gli uni accanto agli altri, come gli Ave Maria e i Pater Noster di un rosario da snocciolare nelle aule universitarie; insomma, lontano da ogni rassicurante e consolatoria visione di quel magma dai movimenti indecifrabili che è la res literaria, i grandi autori di uno dei periodi aurei della letteratura francese ci restituiscono con questi scritti l’immagine credibile di ciò che è uno scrittore e di ciò che è, o dovrebbe essere, un’opera.
L’opera letteraria è, o dovrebbe essere, un colpo sferrato contro il senso comune dei lettori, ma anche contro quella caricatura pomposa del senso comune che, troppo spesso, è rappresentata dall’opinione dei critici. Il vero scrittore è colui che, dibattendosi nella stretta dell’editoria e della critica, imponendosi all’indifferenza dei suoi consimili e dei lettori, e così costringendoli a raccogliere la sfida, riesce a sferrare quel colpo.
Se la letteratura è un’arte marziale, lo è con profusione di colpi. La sua marzialità si avvicina di più al lungo scontro fra Ettore e Achille, protratto dall’intervento di divinità rivali, che al duello fulmineo tra Davide e Golia, deciso dall’univoca volontà di un dio onnipotente. Alla metafora giudeo-cristiana del canone, la quale pretende di inchiodare il destino degli scrittori alla croce della loro ricezione accademica, occorrerebbe sostituire l’allegoria pagana di una teomachia, di una lotta eterna fra gli scrittori per il monopolio dell’immaginario. Con buona pace di chi vorrebbe canonizzarli, gli scrittori continuano a sfidarsi anche da morti, come i cattivi demiurgi di un mondo sul quale non sia ancora stata detta l’ultima parola.
L’insegnamento storico dei testi qui raccolti è proprio la dimostrazione di come ciò che viene pedissequamente chiamato «canone» altro non sia, nei casi migliori, che una consuetudine fra scrittori interessati alle questioni del loro lavoro; questioni, innanzitutto, di estetica e di artigianato letterari, ma anche di sussistenza materiale e di sopravvivenza psicologica.
Alcuni degli autori di questa antologia corrisposero fra loro; ciascuno ebbe la consapevolezza del valore di quelli a lui contemporanei o che lo avevano preceduto, un valore talvolta riconosciuto malgrado rilevanti differenze di poetica. Nessuno fece parte, per disinteresse o a seguito di una prevedibile bocciatura (quest’ultimo fu il caso di Balzac, Baudelaire e Zola), dell’istituzione che sino agli inizi del Novecento si prefiggeva di incarnare il canone della letteratura d’Oltralpe, l’Académie française, oggi ridotta a un ridicolo museo delle cere. Se esiste una Repubblica delle lettere, se ha senso parlare di un canone, ciò è vero solo in quanto rari individui, più o meno costretti all’isolamento dai lavori forzati della scrittura, riescono a trascendere i limiti della vanità e dell’invidia per riconoscere nel talento altrui la prefigurazione o il prolungamento del proprio, senza intese fasulle né pretestuose asperità. In altri termini, non esiste nessuna vera Repubblica delle lettere e, in luogo di canoni, sarebbe più opportuno parlare di filiazioni.
In una prospettiva di filiazione, la forma dei consigli al giovane scrittore brilla come espressione fra le più autentiche del vissuto letterario. Lo scrittore, questa strana creatura scissa fra sterilità biologica e fecondità artistica, vittima trionfante di un narcisismo esacerbato, tende a riprodursi innanzitutto nella sfera estetica, attraverso le proprie opere (fra gli autori di questa antologia, l’unico a riconoscere un discendente fu l’omosessuale ebefilo Gide, il quale, per soddisfare il proprio desiderio di paternità, aveva concepito una figlia insieme a un’amica di vent’anni più giovane). L’aspirante letterato, destinatario dei suoi avvertimenti, può dunque divenire un sostituto filiale: l’erede elettivo cui trasmettere la propria esperienza. È forse questa la ragione per cui i consigli a scrittori in erba finiscono per configurarsi come una sorta di genere letterario, che affonderebbe le proprie radici nell’Epistola ai Pisoni di Orazio, troverebbe nelle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke il suo capolavoro etereo e avrebbe nelle pagine qui presentate alcune delle sue ramificazioni più vigorose.
L’esempio originario di scrittore a cui, in modo più o meno esplicito, fanno riferimento tutti gli autori francesi che tra Otto e Novecento indagano il lavoro letterario sotto l’angolatura del mestiere è Balzac, un testo del quale, non a caso, inaugura la nostra antologia. Catapultato in virtù del suo talento da una squallida mansarda ai salons più esclusivi di Parigi, quindi perennemente strozzato dai debiti, ma irremovibile da uno stile di vita principesco, capace di pubblicare anche cinque romanzi all’anno per sovvenire ai propri bisogni finanziari, ma senza troppo transigere sulle proprie aspirazioni letterarie, e riuscendo così a convertire la servitù materiale in libero arbitrio, l’autore della Comédie humaine è il nume tutelare di ogni scrittore che voglia affermarsi all’epoca del capitalismo industriale, quando il libro diviene uno tra gli innumerevoli generi di merci che infestano i paesaggi urbani. Nella vicenda esemplare di Balzac, la tirannide mercantile esercitata dalla moderna industria dell’editoria è trasformata in occasione di apoteosi artistica, di trionfale riuscita in un’impresa letteraria titanica.
Gli altri scrittori di questa antologia fecero tesoro dell’esperienza di Balzac, trovando in lui il modello di un apprendistato combattivo della letteratura, volto alla pratica tenace dell’arte così come al faticoso esercizio del mestiere, in un’alternanza tra sforzi immani di creazione e conflitti con editori, critici o autori rivali. Balzac era colui che di questi tormenti aveva sperimentato l’intero spettro, riuscendo inoltre a dipingerne, con Illusioni perdute, un rigogliosissimo affresco. Gli scrittori a lui successivi si nutrirono dei suoi disincanti e trassero slancio dal nuovo genere di ambizione realizzato nella sua opera: la conquista di un pubblico verso il quale si provano sentimenti ambivalenti, tra bisogno di riconoscimento e risentito disprezzo, come vuole la letteratura di un tempo in cui la qualità prima del libro è il suo valore di scambio. Un tempo tuttora in corso…
«L’orgia non è più la sorella dell’ispirazione. L’ispirazione è, nel modo più assoluto, la sorella del lavoro quotidiano», scrive Baudelaire nei Consigli ai giovani letterati, pubblicati quando Balzac è ancora in vita. Un secolo più tardi Gide gli farà eco nei Consigli al giovane scrittore:
Ogni opera d’arte è un problema risolto; un problema composto da una moltitudine di piccoli problemi correlativi ciascuno dei quali attende da te la sua soluzione particolare, ossia la parola giusta. Allo stesso modo, ciò che i romantici chiamano ispirazione si suddivide in un’infinità di piccoli sforzi.
La necessità improrogabile del lavoro quotidiano è il filo d’Arianna che unisce le vicissitudini letterarie tramandate dai nostri testi. Già Balzac, per mezzo di numerosi personaggi della Comédie humaine – fra cui Lucien de Rubempré, protagonista di Illusioni perdute – aveva mostrato come un talento incapace di vincere, giorno per giorno, le battaglie contro le difficoltà che, nella durata, si oppongono alla costruzione di un’opera ambiziosa sia non solo inutile, ma nocivo a chi lo possiede. Di temperamenti originali o brillanti il mondo è pieno. Lungi dall’essere garanzia di genio, l’originalità e la brillantezza, se non supportate da un esercizio infaticabile, rischiano di divenire il segno distintivo di una vocazione fallimentare. Come capì forse meglio di chiunque altri l’ex dilettante mondano Proust, il quale, alla fine della Recherche, confessa per voce del narratore di avere intrapreso il proprio capolavoro senza possedere il minimo mestiere letterario, l’ostacolo principale posto tra le potenzialità sconfinate di ogni vero talento e la realizzazione unica di un’opera letteraria è, per l’appunto, il dilettantismo: la tendenza ad accontentarsi di grezze intuizioni, senza indagare le leggi generali che si nascondono dietro a esse, pena l’incapacità di dare forma organica a qualsivoglia progetto di scrittura. Non diversamente dall’architetto che ambisca a vedere attuate le sue invenzioni compositive, l’aspirante scrittore dovrà dotarsi di una solida scienza delle costruzioni, se vuole porre solide fondamenta all’edificio della propria opera.
Molteplici sono le strategie, le abitudini, i comportamenti atti a fronteggiare le difficoltà del lavoro letterario; uno soltanto è il modo per venirne a capo: la totale abnegazione. Un’abnegazione che andrebbe accettata di buon grado, perché il sacrificio di vita vissuta che essa richiede è in realtà il più grande beneficio che dalla vita stessa si possa trarre. «La vita è una cosa talmente orrenda che il solo mezzo per sopportarla è evitarla. E la si evita vivendo nell’Arte, nella ricerca incessante del Vero reso attraverso il Bello», scrive Flaubert a una sua corrispondente, Marie-Sophie Leroyer de Chantepie. Un poco meno amaro e pessimista, il Proust del Tempo ritrovato farà coincidere vita e letteratura in una frase che gli altri autori della nostra antologia non avrebbero esitato a sottoscrivere: «La vera vita, la vita infine scoperta e illuminata, la sola vita che di conseguenza sia pienamente vissuta, è la letteratura».
Questo primato dell’opera sulla vita non necessariamente implica l’accettazione di un’esistenza priva di significativi eventi esterni. Gli scrittori qui riuniti furono testimoni partecipi dei grandi rivolgimenti della loro epoca, a seconda dei casi: la rivoluzione borghese del 1830, i moti del 1848, la guerra franco-prussiana, la Comune, il caso Dreyfus, la prima guerra mondiale… Vivendo o regolarmente soggiornando nella città che, a giusto titolo, è stata definita la capitale del diciannovesimo secolo, ma che lo fu anche di quello successivo al suo inizio, ebbero inoltre occasioni di incontri con alcune tra le personalità più eminenti del loro tempo. Alcuni – Balzac, Flaubert, Gide e Maupassant – viaggiarono molto, a lungo e lontano, trovando ispirazione creativa nei paesi visitati. Si tratta, per farla breve, di scrittori che ebbero vite pienamente vissute, sebbene in un senso diverso da quello della formulazione proustiana: vite cariche di esperienze e trascorse in prossimità immediata dei più importanti avvenimenti e personaggi storici. Ciononostante, per loro così come per ogni altro scrittore degno di questo nome, il significato ultimo della vita e il senso primo della realtà risiedono nella possibilità di darne una rappresentazione letteraria. È in fondo questa la principale lezione contenuta nei nostri testi. Per chi davvero avesse l’ambizione di scrivere, i parametri con i quali abitualmente si misura il valore di un individuo e di un’esistenza restano subordinati all’esito che quell’individuo e quell’esistenza sapranno produrre in un’opera.
Per un paradosso la cui ambivalenza illumina il significato di un secolo intero di letteratura, tale distacco nei confronti di ogni idea o prassi di vita esterna allo scrivere si accompagna a una vocazione risolutamente, ancorché tormentosamente, realista. Se Balzac, Flaubert, Maupassant e Zola costituiscono la tetrade di ogni ricostruzione storiografica del realismo ottocentesco, l’opera di Baudelaire, Gide o Proust è pervasa da una sottile, perenne inquietudine mimetica, la quale, malgrado la diffidenza di questi autori rispetto a ogni nozione non soggettiva di realtà, finisce per inglobare nell’universo parallelo delle lettere illuminanti squarci di ciò che, perlomeno secondo il senso comune, non può definirsi altrimenti che realtà. Solo per fare alcuni esempi: l’evocazione di un’assordante folla metropolitana, popolata da straccioni e prostitute, nelle poesie in versi o in prosa di Baudelaire; la promiscuità tra classi, erotiche ancor prima che sociali, nella cattedrale narrativa di Proust; il colonialismo sessuale, riflesso deformante di quello politico e militare, nelle confessioni di Gide.
Ma la questione si rivela altrettanto complessa per ciò che riguarda i «campioni» del realismo. A proposito di Balzac, già Baudelaire, in un saggio del 1859 consacrato a Théophile Gautier, aveva esaltato la dimensione visionaria e demiurgica della Comédie humaine, opera che meno ambisce a rappresentare la realtà di quanto non voglia sostituirsi ad essa, come poi ribadirà Maupassant in uno scritto sull’evoluzione a lui contemporanea del genere romanzesco (L’évolution du roman au xixe siècle, 1889). Lo stesso Maupassant che, nelle pagine del testo qui antologizzato, il manifesto narrativo Le Roman, scrive che «se è un artista, il realista cercherà non tanto di mostrarci la fotografia banale della vita, quanto di darcene una visione più completa, più intensa, più probante della realtà stessa»; Maupassant, ancora, che ebbe per maestro Flaubert, il quale, descrivendo in una lettera a Hippolyte Taine i processi della sua creatività, non esita a dire:
L’immagine interiore è per me altrettanto vera della realtà oggettiva delle cose, e dopo pochissimo tempo ciò che la realtà mi ha fornito non si distingue più, per me, dagli abbellimenti o modificazioni che vi ho apportato.
Ma persino Zola, il cui nome resta crudelmente associato all’estetica positivista elaborata nel saggio Il romanzo sperimentale, e la cui produzione romanzesca racchiude invece tesori di visionarietà quali la morte miserabile e imperiale di Nana, allegoria di un’epoca intera, persino Zola afferma, in una lunga lettera con valenza programmatica scritta agli albori della sua carriera, la cosiddetta Lettera degli schermi, che «la realtà è impossibile in un’opera d’arte», e la menzogna l’immancabile compagna di strada del vero.
Qualsiasi idea di realismo ingenuo è dunque estranea all’estetica letteraria dei nostri autori, l’importanza dei quali, come quella di ogni grande autore di ogni altra epoca, non può essere commisurata a un valore di testimonianza storica e sociale sulla realtà del loro tempo. Nelle loro opere, se non sempre nelle loro riflessioni sulla letteratura, è tangibile il principio secondo cui supremo dovere dello scrittore è dare forma a qualcosa di più sottile e di più ambiguo, ai moventi reconditi del sentire, del pensare e dell’agire individuale. È d’altronde in questo chiaroscuro della creazione letteraria che, grazie al prodigio di un’immaginazione empatica, anche i più pessimisti tra gli scrittori possono trovare una promessa di felicità, come suggerisce Flaubert rivolgendosi ancora a Mademoiselle Leroyer de Chantepie, aspirante autrice incline alla melancolia:
L’umanità è così, non si tratta di cambiarla, ma di conoscerla. Pensate meno a voi. Unitevi con il pensiero ai vostri fratelli di tremila anni fa; appropriatevi di tutte le loro sofferenze, di tutti i loro sogni, e sentirete allargarsi a un tempo stesso il vostro cuore e la vostra intelligenza; una simpatia profonda e smisurata avvolgerà, come un manto, tutti i fantasmi e tutti gli esseri.
Ed è forse proprio questo l’altro, fondamentale insegnamento trasmesso dagli scritti della nostra antologia: una vocazione letteraria incapace di abbracciare il reale nella sua imprevedibile diversità – trascorsa o presente, circostante o lontana – è condannata a una malinconia senza riscatto, a uno sterile solipsismo.
Come afferma Proust nel Contro Sainte-Beuve, «gli scrittori che ammiriamo non possono servirci da guide, perché è in noi che abbiamo il senso del nostro orientamento». La congerie di riflessioni, valutazioni e ammonimenti raccolta nelle pagine che seguono andrebbe letta tenendo a mente questa frase del più ammirevole tra gli scrittori. Cercarvi rigidi insiemi di precetti non avrebbe senso: significherebbe snaturarne e svilirne l’ispirazione. Ciò che vi si può trovare è invece, come dicevo al principio di questo preambolo, una rappresentazione realistica del mestiere di scrittore, esplorato dalle più alte sfere del pensiero estetico fino alle bolge del vissuto quotidiano.
Se è vero, come ormai dovrebbe essere evidente per il lettore che si accinga a varcare la soglia di questo volume, che gli scrittori sono le sole persone a preoccuparsi sul serio della realtà, nessun insegnamento può essere più prezioso di quello che illustri la realtà stessa di tale preoccupazione.