Riprendiamo, per salutare Rubin “Hurricane” Carter, morto a 76 dopo una lunga battaglia contro un tumore, questo pezzo già uscito su minima&moralia e pubblicato originariamente su Rolling Stone.
“Lo so che siete venuti tutti a vedere me. Bob Dylan non è così famoso”. Sul palco del Madison Square Garden il campione del mondo cercava di affermare la propria superiorità sul cantante mingherlino che tra poco avrebbe chiuso la prima parte del suo tour più leggendario.
Nati a otto mesi di distanza l’uno dall’altro, Bob Dylan e Muhammad Ali avevano in comune un cambio di nome e l’eroica determinazione nel non volere restare inglobati dalla cultura dominante e idolatrante. Eppure quella sera, al Madison Square Garden, erano venuti tutti a idolatrarli.
La chiamarono “The Night of the Hurricane”, la notte dell’uragano. Tappa newyorkese della Rolling Thunder Review, lunghissimo tour-carovana intrapreso da Dylan nel 1975 insieme a illustri colleghi (Bob Neuwirth, Ramblin’ Jack Elliott, Joan Baez, T-Bone Burnett tra i tanti), sarebbe stata una serata di beneficienza per Rubin ‘Hurricane’ Carter, l’ex pugile dei pesi medi che nell’66 insieme a John Artis era stato ingiustamente accusato di triplice omicidio e condannato all’ergastolo. La serata iniziò con un drink gettato in faccia a un deputato democratico, culminò con una diretta telefonica dal carcere con Carter e rischiò di finire con la notizia della grazia concessa. La grazia poi quella notte non arrivò, ma molto altro accadde.
Nel suo Diario del Rolling Thunder (Cooper 2005), Sam Shepard dedica a quel concerto un capitolo intero. A illustrarlo una foto con Dylan e Ali, entrambi goffi, quasi impacciati, è poco chiaro se dall’obiettivo del fotografo o dalla reciproca presenza. Ali ha un braccio intorno alla spalla di Dylan e Dylan ha una mano che sbuca sulla spalla di Ali. Sorridono ma non troppo. Uno è magrissimo, l’altro è un gigante. Shepard di quel tour seguì ogni data, scritturato da Dylan in persona, non in amicizia (prima del tour i due si conoscevano soltanto di nome) ma per stima, perché scrivesse la sceneggiatura di un film. La sceneggiatura poi Shepard non la scrisse mai, ma di quella tournée ne fece uno straordinario diario.
Le pagine sull’8 dicembre le comincia dal pomeriggio, in un Madison Square Garden enorme e semideserto. Sul palco è in corso il soundcheck. I musicisti sono lì, e lui è il pubblico. Scrive: “È molto strano conoscere queste persone e poi osservarle dal punto di vista del pubblico”. E poi, del Garden intorno: “È un’architettura sospesa stupefacente. Né bella, né esteticamente apprezzabile, ma non puoi fare a meno di chiederti come abbiano potuto inventarsi un progetto per questo soffitto gigantesco che pare sospeso a mezz’aria. Nessuna colonna o sostegno in vista, solo fili che convergono in un punto centrale e che misteriosamente tengono tutto in piedi. Poterlo osservare con solo poche persone all’interno amplifica la sua enormità. Continuo a spostarmi in luoghi diversi della sala e a restare seduto per qualche minuto, tanto per vedere com’è”.
Poi inizia a individuare gruppi di persone divise per colori. Ci sono i blu, che sono i poliziotti, lì a bere caffè e chiacchierare, i piedi sugli schienali dei sedili davanti, noncuranti di quanto accade intorno. Ci sono i marroni, che sono gli uscieri, e fanno le stesse cose dei poliziotti ma in più hanno le torce. Ci sono i bianchi, che sono i tecnici. E fanno i tecnici. Più avanti, aggirandosi nel backstage, Shepard dirà: “È solo un edificio; poi arriva un intero mondo, lo occupa e se ne va”.
Il mondo che occupò il Madison Square Garden quella sera era un mondo misto. C’era, in gessato e facce torve, la comunità nera che seguiva la boxe ed era lì per Muhammad Ali e per Rubin Carter. E c’erano i fan di Dylan, probabilmente i più numerosi. C’erano poi gli avventori, gli spettatori occasionali, quelli che si trovavano lì per ragioni altre e disparate. C’era il padre di Allen Ginsberg, per esempio. Dirà Ginsberg a Shepard incontrandolo in camerino: “Là fuori c’è mio padre. Ha ottanta anni e non è mai stato a un concerto rock”. Shepard gli chiederà se a quell’età non sia pericoloso stare lì in mezzo. E Ginsberg, bello nelle sue risposte come nelle poesie: “Naa, mio padre è un poeta”.
Dagli altoparlanti nel frattempo veniva annunciato: “Prendete la più grande sala da concerto dell’intero pianeta! Prendete il più grande cantante dai tempi di Edith Piaf! Il più incredibile fenomeno di poeta-muscista che il mondo abbia mai visto, e metteteli insieme davanti al pubblico dal vivo più numeroso ed entusiasta che ci sia su questo lato del Rio Grande! E ora gente, ecco un vero spettacolo”. Il vero spettacolo, nelle parole di Shepard, sarebbe stato “un concerto di beneficenza per un condannato nero voluto da un cantante bianco con il sostegno della comunità nera”. Da tempo Ali aveva cercato di attirare l’attenzione dei media su Carter, ma c’era voluto Dylan per arrivare al Garden. Ed è ancora Shepard, riconoscendo la giusta importanza che hanno certi luoghi, a dire: “Se vuoi che il mondo se ne accorga, portalo a New York. Anzi – meglio – portalo al Garden!”
Arrivato sul palco, Muhammad Ali riuscì a zittire immediatamente il pubblico e disse: “Sapete, quando mi hanno chiesto di venire qui stasera mi sono chiesto chi fosse questo Bob Dylan. Poi arrivo qui e mi rendo conto che tutta questa gente ha speso dei soldi e penso che questo Bob Dylan deve essere uno in gamba. Credevo di essere l’unico in grado di riempire questo posto. E voi ragazze siete tutte qui per vedere Bob Dylan?” Le ragazze strillarono sì, e Ali, zittendo nuovamente tutti, disse: “Va bene, va bene. Anche se, ammettetelo, non è carino come me. Adesso però voglio dirvi che è un piacere vedere tutta questa gente qui stasera, soprattutto perché si tratta di aiutare un nero che sta in prigione. Perché, questo lo sapete, ci vogliono le conoscenze giuste e il colore di pelle giusto per avere un trattamento giusto”.
Subito dopo, come con un diretto ben assestato, Ali riuscì a conquistare definitivamente la scena. Qualcuno gli portò un telefono e lui annunciò: “Mi hanno appena comunicato che c’è una telefonata speciale su una linea speciale che arriva direttamente dal New Jersey per ordine speciale del governatore. Al telefono abbiamo il signor Rubin ‘Hurricane’ Carter e ora sentirete la sua voce che parla con me”. La voce di Carter arrivò lontanissima (di fatto stava solo nel New Jersey) ma nitida e amplificata in modo che tutti potessero sentirla. Disse: “Me ne sto seduto qui in cella a pensare che è davvero un atto rivoluzionario quando così tante persone che stanno fuori si riuniscono per sostenere chi è in prigione”. Per rallegrare i toni Ali lo interruppe dicendo: “Senti Rubin, promettimi solo una cosa. Se esci non venire a sfidarmi per il titolo, ok?” E Carter, ignorandolo: “Seriamente, vi sto parlando dalle viscere più profonde del penitenziario del New Jersey”.
A quel punto il pubblico aspettava Dylan impaziente ma pendeva dalle labbra di Carter, che materializzandosi in forma di voce aveva più potere evocativo di chiunque fosse sul palco in quel momento. Carter stregò il pubblico, ma Ali impedì a Dylan di godersi il mood. Terminata la telefonata il pugile lasciò il palco a un politico, un candidato bianco che definì “il futuro Presidente degli Stati Uniti” e che in sole tre parole riuscì a rompere l’incantesimo. Il candidato andò via goffamente per come era arrivato e finalmente apparve Dylan.
Avanzò sul palco con la sua elegante noncuranza, senza che nessuno lo presentasse. E cantò. Cantò My Masterpiece in duetto con Neuwirth. E quello fu solo uno dei momenti migliori della serata. Scrisse ancora Shepard: “Ignorare la forza di questo spettacolo nemmeno a parlarne”.
Nella sua biografia Hurricane. Il miracoloso viaggio di Rubin Carter (66th and 2nd, 2010), James S. Hirsch scrive che “Carter non era un fan di Bob Dylan”. Ma che lo era Richard Solomon, giovane filmaker e amico di Carter che per aiutare la causa decise di girare un film su di lui. Poi decise di tirare dentro Dylan, e nella primavera del 1975 gli scrisse una lettera. Nella lettera non gli chiedeva di scrivere una canzone, lo informava soltanto dei fatti. Qualche settimana dopo Dylan lo chiamò chiedendogli: “Che vuoi?” Solomon rispose chiedendogli a sua volta se volesse incontrare Carter. Dylan chiese: “È pericoloso?” Poi disse forse e riagganciò. Solomon guardò la sua fidanzata dell’epoca e le disse: “Stai a vedere. Si interesserà al caso e ci scriverà sopra una canzone”. La ragazza chiese perché, e lui: “Perché è il suo lavoro”.
A quel punto Solomon mandò a Dylan l’autobiografia di Carter e a Carter i testi delle canzoni e i dischi di Dylan. L’incontro fu fissato per quell’estate. I due si ritrovarono una mattina nella biblioteca della prigione di Stato di Trenton, New Jersey. Si piacquero subito. Dei due fu soprattutto Carter a parlare. Raccontò a Dylan della propria infanzia, della provincia in cui era cresciuto, della boxe e della prigione. Dylan ascoltava attento e prendeva appunti. Prima di andare via gli disse: “Ho intenzione di tornare”.
La canzone la scrisse partendo dal testo e immaginando fosse la sceneggiatura di un film. La scrisse insieme al cantautore e regista teatrale Jacques Levi (che collaborò a quasi tutte le canzoni dell’album Desire) e la registrò il 24 ottobre al Columbia Studio 1 a Manhattan. Di Hurricane Allen Ginsberg disse: “Era il genere di canzone che i ribelli superstiti degli anni Sessanta stavano chiedendo a gran voce che scrivesse”. Carter lo trovò uno “splendido pezzo di musica” e si lamentò solo del fatto che non potesse ballarci sopra. Hurricane diventò il pezzo forte della Rolling Thunder Revue di Dylan, che finita la prima fase col concerto dell’8 dicembre, riprese e andò avanti per buona parte del 1976.
La Rolling Thunder Revue si esibì anche alla vigilia del live al Garden esclusivamente per Carter. L’ex pugile si trovava nella Clinton Correction Institution for Women di Clinton, New Jersey, trasferito lì per paura che la prigione di Trenton non reggesse l’impatto mediatico dell’evento dell’indomani. La struttura si chiamava Correction Institution for Women ma ospitava per un terzo uomini (cento dei trecento detenuti) e a guardarla dal di fuori sembrava più una fattoria. A percorrerla all’interno quasi non c’era traccia di sbarre. Il 7 dicembre, insieme a Dylan e al resto della band, c’era anche il guru della pubblicità George Lois che insieme a Solomon si occupava di promuovere la causa Carter. Lois si aggirava in cerca di una location dove Carter e Dylan potessero posare per lo scatto da diffondere ai media. Disperato per l’assenza di sbarre, intravide un’inferriata che pendeva dal soffitto. Lois chiese di abbassarla, convocò immediatamente Dylan e Ken Regan, il fotografo della tournée.
L’ex pugile venne posizionato dall’altra parte dell’inferriata, Dylan infilò le dita tra le sbarre per toccare quelle di Carter, e il fotografo scattò. La didascalia che su People poche settimane dopo accompagnò la foto diceva: “Attraverso le sbarre di una prigione del New Jersey, Rubin Hurricane Carter, dentro, e Bob Dylan, fuori”. Quello scatto era sì un’invenzione di Lois, ma adattò la realtà del carcere in cui si trovava Carter alla realtà della sua innocenza.
Ritorniamo così all’8 dicembre, al Madison Square Garden. Prima ancora delle parole di Ali, dicevamo, ad aprire le danze fu un bicchiere tirato in faccia a un deputato. Il deputato era John Conyers, democratico nero di Detroit, che al fianco di Carolyn Kelley era nell’ala nera della coalizione pro-Carter. Quella sera per caso alloggiava nell’albergo di Muhammad Ali e del suo staff. E lì s’imbatté in George Lois e Paul Sapounakis, proprietario del ristorante Blue Angel. Sapounakis era dell’ala bianca, quella di Lois e dell’Hurricane Trust Fund, e appena vide Conyers lo insultò. Lois intervenne in difesa dell’amico, e al “Voi bianchi vi credete proprio dei pezzi grossi” di Conyers rispose con un “Vaffanculo, tu, tua madre e tua sorella!” Conyers replicò dicendo: “Siete dei viscidi bastardi”. A quel punto Sapounakis gli tirò in faccia bicchiere, drink e ghiaccio. E se ne andò. Fu uno dei fuori scena migliori della serata, che tuttavia anche sul palco e nel backstage non mancò di surrealtà.
Tra i numeri più singolari quello di Joan Baez che con una parrucca bionda in testa e stivaletti bianchi ai piedi, saltò un paio di volte sul palco, concerto in corso, fingendosi una groupie e mettendosi a ballare. Entrambe le volte la sicurezza la trascinò via, lasciando il pubblico nel dubbio che fosse pura realtà e non una messa in scena. E poi ci fu Roberta Flack, apparente guest star della serata ma invitata a cantare all’ultimo momento per rimpiazzare una Aretha Franklin assente. Flack arrivò nel backstage come una furia con una bandana variopinta in testa e ricoperta di gioielli strillando ordini al suo entourage e sottolineando di essere la seconda scelta. Sul palco poi fu strepitosa.
In quanto a Rubin Carter, in seguito avrebbe ottenuto la libertà, ma sarebbero passati dieci anni (la ottenne nel 1985). Eppure quell’8 dicembre, dietro le quinte del memorabile concerto, iniziò a circolare voce che il governatore Byrne si apprestava a concedergli la grazia. Lo stesso Carter al telefono chiese a Dylan di dare la notizia, lì dal palco del Madison Square Garden. Dylan gli rispose: “Ok. Adesso sentirai un boato come non ne hai mai sentiti in vita tua”, poi scappò in camerino con gli occhi fuori dalle orbite e incontrando Shepard esclamò: “Rubin è stato prosciolto! Sarà fuori per Natale!” La notizia però non era esatta, e fortuna volle che Lois e Sapounakis gli chiesero di aspettare una conferma prima di divulgarla. Lois andò a cercare un telefono nei corridoi del Garden, chiamò l’ufficio del governatore, e apprese che non c’era nessuna grazia per Carter. Tornò di corsa verso il palco e proprio mentre Dylan stava salendo per dare la buona novella, gli urlò: “Non annunciare niente!” Così la gaffe fu evitata.
Il concerto non liberò Carter, quantomeno non nell’immediato. Eppure, insieme all’uscita di Hurricane (un mese dopo, nell’album Desire) riuscì a pieno nello scopo di amplificare la celebrità di Dylan e di attirare su Carter la sperata attenzione di media e mondo. La grazia non fu concessa ma qualche mese dopo, nel marzo del 1976, la Corte Suprema del New Jersey annullò all’unanimità le condanne di Carter e Artis. Ali pagò quasi interamente la cauzione a entrambi (rispettivamente ventimila e quindicimila dollari) e i due uscirono dal carcere tre giorni dopo. Così il San Francisco Examiner del 21 marzo 1976: “Dopo nove anni di carcere per un triplice omicidio che dicono di non aver commesso, il pugile di pesi medi Rubin ‘Hurricane’ Carter e John Artis sono stati rilasciati ieri su cauzione”. La libertà non durò a lungo: quello stesso anno ci fu un nuovo processo, e i due vennero nuovamente condannati all’ergastolo. Di lì all’85 di condanne all’ergastolo ne avrebbero avute tre.
La sera dell’8 dicembre il Garden fece il tutto esaurito cinque ore dopo l’apertura della biglietteria. I biglietti costavano 12,50 dollari e vennero rivenduti dai bagarini a 75 dollari. Gli spettatori erano più di trentacinquemila. Nella guest list, tra i tanti, c’erano Ed Koch, Coretta Scott King, Bill Bradley e Candice Bergen. Qualcuno fece anche i nomi di John Lennon, George Harrison, Ray Charles e Marvin Gaye, ma nessuno li vide. Era stato scelto il Garden per risanare il bilancio della tournée. Probabilmente ci riuscirono. Guadagnarono in tutto 217mila dollari di cui, pagati i conti degli alberghi e della promozione, ne rimasero 104mila.
Quell’8 dicembre fu l’apice del processo di trasformazione di Carter in icona culturale. Per Bob Dylan e Muhammad Ali sarebbe stata la loro unica condivisa apparizione in pubblico.