Lontano da qualsiasi illustrazione lineare, l’autore francese firma un mash-up in versi, immagini e suoni intorno a una coppia ‘interrotta’ e inframezzata da idee politiche, artistiche e filosofiche.
Regia di Jean-Luc Godard. Con Kamel Abdeli, Héloise Godet, Zoé Bruneau, Richard Chevallier, Jessica Erickson.

Una donna sposata, un uomo celibe, un cane che parla e sogna come in un romanzo di Jack London, un gentiluomo inglese, un bateau, i libri schiusi, le stagioni che passano, le parole che non hanno più voce, la campagna, la città, il cinema in televisione, la natura, la finzione, la metafora, un film che finisce, un altro che comincia.

Questo e più di questo è soggetto, trama e materia di Adieu au langage di Jean-Luc Godard. Esiste una linea che unisce questi piani e ne stabilisce il criterio? Se proviamo a unire i pezzi del puzzle, misurando le parole con le immagini, emergono due storie possibili: quella di una coppia che si separa perché lei ama un altro e quella di un cane errante tra campi, stagioni e città. Il cane incontra gli amanti e finisce a guaire sui loro amplessi o a dormire su loro divano. Successivamente un secondo film si avvia, uguale e diverso al precedente, congedandosi su un cane cha abbaia e un bambino che piange, dopo aver dissertato sul crollo del dollaro, la verità della matematica, la morte di un merlo, la pittura di Nicolas De Staël, un passaggio di Claude Monet, un libro di Jacques Ellul, l’istanza di uguaglianza della donna all’uomo accomodato a defecare su una tazza-trono. Se al contrario superassimo le coordinate narrative, concentrandoci sul titolo, che come il ‘la’ in musica è la nota di referenza di un film, diremmo finalmente addio al linguaggio comune in direzione di un’esperienza estetica e sensoriale dove ogni interpretazione è pensabile.

Lontano da qualsiasi illustrazione lineare, l’autore francese, firma un mash-up in versi, immagini e suoni intorno a una coppia ‘interrotta’ e inframezzata da idee, politiche, artistiche e filosofiche, organizzate sotto l’iscrizione di “Natura” e di “Metafora”. Il cinema di Godard, criptico e affrancato dalla drammaturgia tradizionale, è composto ancora una volta da una somma di frammenti letterari, una lettura irriducibilmente politica del mondo, una recitazione intima, immagini ‘rubate’ ai film, ai quadri, ai giornali, alla televisione, agli archivi storici. Un cinema-saggio aperto, instabile e indiscutibilmente ‘avanzato’, che formula idee e teorie destinate ad affermarsi pienamente nel tempo a venire. Ieri come oggi, Godard incarna la modernità, indagando senza posa e da libero artigiano (che resta autore) le possibilità creative offerte dalle mutazioni medialogiche. Adieu au langage lo conferma allora sperimentatore e ricercatore indefesso, che lascia deflagrare il rilievo intimista di una coppia dentro il rilievo del 3D. Per Godard la terza dimensione diventa un secondo obiettivo che alla maniera di un camaleonte gli permette di mettere a fuoco due occhi e di osservare due oggetti simultaneamente. Visioni stereoscopiche, percezioni dissociate, dissolvenze incrociate al quadrato, migliorano la sua comprensione dell’oggetto, incurante della nostra incomprensione.
Autore di un cinema scientifico e poetico insieme, Godard ingaggia alla maniera di Nicolas De Staël, convitato di riguardo in Adieu au langage, un corpo a corpo con la ‘tela’ che trova un nuovo modo di mettere in crisi l’immagine, che perturba lo spettatore e rende impossibile qualificarlo o quantificarlo con le ‘stelle’. Ottantaquattro anni il prossimo dicembre, Jean-Luc Godard non esaurisce l’ambizione scopica dietro agli occhiali, seguitando a vivere il cinema, ad amarlo, a sognarlo, a pensarlo. A pensare al suo addio al mondo, meditando sull’approssimarsi della morte: “Voi siete pieni di voglia di vivere. Io sono qui per dirvi no. Per morire”.

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