Un bagliore improvviso illuminò per un istante quella notte di marzo. L’ammiraglio Nelson cadde rovinosamente dal suo piedistallo, proprio come l’uovo del romanzo di Lewis Carroll. L’esplosione lo ridusse in mille pezzi, spezzando in due la colonna di granito che lo reggeva da un secolo e mezzo. Provai una sensazione strana, una gioia liberatoria, quasi puerile. Era rimasto lì per tutto quel tempo, nel cuore della nostra città, a sfidarci con la sua protervia coloniale. A commemorare i trionfi navali di chi ci aveva reso schiavi per secoli. A ricordarci che la libertà per la quale avevamo lottato restava soltanto un sogno. Proprio lì, di fronte al luogo sacro che aveva tenuto a battesimo la nostra nazione. Dove cinquant’anni fa Patrick Pearse aveva letto la dichiarazione d’indipendenza prima di finire davanti al plotone d’esecuzione, insieme a Connolly e a tutti gli altri.
Quella settimana di combattimenti, nei giorni di Pasqua del 1916, aveva raso al suolo la città, uccidendo uomini, donne e bambini, riducendo in polvere interi edifici. Ma lui, Horatio Nelson, era rimasto in piedi, come un beffardo segno del destino, il simbolo della nostra sottomissione all’invasore.
Il boato di quella notte si sentì in tutta la città e cristallizzò la scena per una frazione di secondo. Poi un’immensa nube grigia di polvere, macerie e detriti si levò su O’Connell Street facendo riemergere la mia memoria come il relitto di un naufragio, riportandola indietro di mezzo secolo. Non rimase ferito nessuno, stavolta, perché avevamo calcolato tutto alla perfezione. L’operazione Humpty Dumpty aveva avuto successo e io potevo finalmente chiudere i conti con il mio passato. Quand’ero giovane avevo sempre cercato di causare il massimo danno al nemico. Avevamo attaccato obiettivi militari, infrastrutture, fabbriche e attività commerciali sul suolo inglese.
Ma adesso che si trattava di distruggere un simbolo imperiale nel cuore di Dublino, non dovevano esserci vittime civili. Non me lo sarei mai perdonato. Non maneggiavo più esplosivi da tanti anni ma ricordavo esattamente come si faceva. L’ordigno che avevo assemblato conteneva un po’ di gelignite – roba moderna – mescolata al sempreverde ammonal, la miscela di nitrato d’ammonio, polvere di carbone e polvere d’alluminio che veniva usata durante la Prima guerra mondiale. I ragazzi l’avevano nascosto in un angolo delle scale d’accesso alla colonna, agganciato a un dispositivo a orologeria tra i più silenziosi in circolazione.
Non ricordo più da quanto tempo cercavamo di sbarazzarci di quel dannato pilastro di granito. Ci avevamo provato in tutti i modi: petizioni, raccolte di firme, dibattiti in parlamento. Il governo fingeva di affrontare il problema ma in realtà cercava soltanto di mascherare la sua consueta ignavia. Eppure erano ormai passati tanti anni da quando l’amministrazione cittadina si era pronunciata inequivocabilmente a favore della sua rimozione.
Avevano detto che era vergognoso che un eroe inglese, l’adultero Nelson, continuasse ad avere un posto di prestigio nel cuore della capitale dell’Irlanda, che pure non aveva ancora una statua dedicata a Theobald Wolfe Tone o a Brian Boru. Però nessuno sembrava avere il potere di rimuoverla, soprattutto di sostenere i costi dell’operazione. C’era chi la considerava parte della nostra storia e del patrimonio architettonico cittadino, molti si erano persino affezionati alla scritta “The Pillar” sul frontale dei tram che si fermavano sotto la colonna. E così era sempre rimasta in piedi, a far bella mostra di sé, mentre gli altri simboli dell’Impero britannico venivano rimossi, uno dopo l’altro. Prima la statua equestre di Giorgio II dal parco di St. Stephen’s, poi quello della regina Vittoria dalla Leinster House. Infine quella di Giorgio III dal cortile del municipio.
Da un po’ di tempo quelli come me – non solo i veterani della guerra d’indipendenza ma gran parte della mia generazione – avevano un motivo in più per odiare l’ammiraglio Nelson appollaiato su quel pilastro di granito. Non lo consideravamo più soltanto il simbolo di secoli di dominio inglese sul nostro paese. Era diventato anche l’emblema della nostra ipocrisia. Del doppio giochismo di uno stato che cercava di nascondere la sua cattiva coscienza dietro quegli ideali traditi, usando la memoria di chi aveva sacrificato la propria vita per regalare la libertà ai nostri figli.
Sapevo bene che questo sarebbe stato per me un anno doloroso. Più si avvicinavano le celebrazioni del cinquantenario della rivolta di Pasqua, più mi convincevo che avrei dovuto tenermene alla larga in tutti i modi. Non c’era niente da celebrare, nessun motivo per rallegrarsi, soprattutto non c’era niente di cui Pearse e tutti gli altri sarebbero andati fieri. Ne ero sicuro. Non era quello lo Stato per cui avevo lottato con tutte le mie forze, sacrificando la mia gioventù. Quel sogno di uguaglianza e prosperità che avevamo inseguito lottando per anni, e per il quale molti di noi erano morti, era qualcosa di completamente diverso da questa specie di staterello che finge di essere indipendente ma non è altro che una succursale degli interessi economici inglesi.
Questo era il motivo per cui ero uscito dal giro da più di vent’anni. Avevo smesso di frequentare i circoli politici e i gruppi di veterani, mi ero allontanato dalle persone con le quali avevo condiviso quel passato. Ormai scansavo anche le poche notizie che i giornali dedicavano all’esercito repubblicano. Da un po’ di tempo avevo deciso persino di starmene alla larga dal centro di Dublino. Temevo d’incontrare per strada qualcuno di loro. I fantasmi del mio passato. I ladri del nostro futuro. A volte immaginavo di voltare l’angolo della strada e di trovarmi di fronte proprio lui, il grand’uomo che giocava a fare il padre della patria e invece da anni faceva di tutto per demolire quel sogno. Sono certo che mi riconoscerebbe ancora, lui, il grande De Valera, il simbolo della nostra presunta libertà. Di un’indipendenza nella quale dobbiamo fingere di specchiarci con un autocompiacimento che ci impedisce di guardare in faccia la realtà. E sono altrettanto certo che se me lo trovassi davanti non riuscirei a restare zitto, né me la caverei con un timido cenno di saluto.
La mia fama all’interno del movimento repubblicano si era diffusa in tutta l’isola ben prima che cominciassero le sue fortune politiche, ma io sono sempre stato allergico ai compromessi e ho capito subito che la politica non faceva per me. Io sono solo un soldato. O meglio, sono stato un soldato, uno dei migliori che questo paese abbia avuto negli ultimi tempi. Durante la campagna di sabotaggi del 1939 mi ero guadagnato il soprannome di “martello di Londra” perché avevo partecipato a oltre cinquanta attacchi contro obiettivi militari o strategici nella capitale inglese.
I termini dell’ultimatum che avevamo lanciato al governo britannico erano tanto chiari quanto velleitari: se non avesse ritirato le proprie truppe dal nostro territorio, e se il re non avesse abdicato rinunciando una volta per tutte alle sue prerogative nei confronti dell’Irlanda, avremmo dichiarato guerra agli inglesi. E così facemmo, portando la guerra a casa loro con una campagna di attacchi dinamitardi che durò quindici mesi. Ma contrariamente a quello che pensano molti, far esplodere bombe non mi ha mai dato alcuna soddisfazione. A muovermi non era il risentimento o il desiderio di vendetta ma solo la disperata convinzione che non ci era rimasto altro da fare, che se volevamo costringere gli inglesi ad andarsene dal nostro paese non esistevano alternative. Non li odiavo come popolo, ma disprezzavo con tutte le mie forze i loro governanti, la loro classe dirigente, le loro banche.
Ognuno di noi nasce con una predisposizione, riesce in qualcosa meglio di altri. Per un inspiegabile scherzo del destino, la mia abilità era quella di saper assemblare esplosivi. Avevo imparato a farlo da giovane, durante la guerra d’indipendenza, e col tempo ero diventato un esperto. Non c’era nessun altro, in tutta l’Irlanda, capace di fabbricare bombe con la precisione, la rapidità e l’efficacia con la quale sapevo farlo io. Non sono mai andato fiero di quel primato, anche prima di finire in carcere per mano dei miei ex compagni. Negli anni ’20 gli inglesi erano riusciti a metterci gli uni contro gli altri, a esasperarci al punto da spingerci a massacrarci tra di noi.
Non volevo ammetterlo neanche a me stesso, ma invecchiando mi ero convinto che non ne valeva proprio la pena di fare tutto quel casino. Non per costruire uno stato come quello in cui viviamo oggi. Un paese economicamente succube di chi ci ha resi schiavi per secoli. Una terra divisa da un confine politico immaginario, creato artificialmente per conservare all’infinito gli odi e i rancori del passato, per farci vivere in uno stato di guerra civile permanente. Eppure molti, da queste parti, continuano a illudersi che sia un problema soltanto a Belfast, a Derry e nel resto del nord.
Fu il mio vecchio amico Kevin, pochi giorni prima di Natale, a parlarmi di quei ragazzi che volevano incontrarmi. Capii subito, dal modo in cui me lo disse, che si trattava di quelli della nuova guardia. Kevin lo sa benissimo, d’altra parte ci conosciamo da tanti anni, che non voglio saperne più niente. Ma di lui mi fidavo, perché non mi avrebbe mai proposto un incontro simile se non ci fosse stato un valido motivo per farlo. “Guarda che non vengono solo per stringere la mano a un eroe della guerra d’indipendenza”, precisò. “Hanno intenzione di chiederti una cosa che credo possa interessarti”. Ero incuriosito, inutile negarlo, ma se mi avessero chiesto di partecipare a una nuova campagna di attacchi al confine col nord, mi sarei alzato dal tavolo senza neanche finire di svuotare il bicchiere. Era un pensiero assurdo, ripensandoci. L’I.R.A. non aveva più un arsenale capace di ripetere azioni come quelle compiute una decina d’anni fa, e poi non c’era una sola ragione per cui avrebbero dovuto rivolgersi a un vecchio bombarolo come me.
Pioveva a dirotto la sera in cui li incontrai, al piano di sopra del Magnet, vicino alla stazione, e il locale era più affollato del solito. Da quando ero uscito di scena, quello era in un certo senso l’unico circolo politico che mi capitava ancora di frequentare. Il pub più repubblicano di Dublino, dove a mezzanotte la gente appoggiava i bicchieri sul tavolo e si alzava in piedi a cantare l’inno nazionale. Danny e John avranno avuto al massimo venticinque anni. Mi rimasero subito simpatici perché andarono subito al sodo, senza perdersi in chiacchiere inutili. E anche perché non avevano i capelli come i Beatles. Kevin si limitò a presentarmeli e poi si allontanò biascicando una scusa. “Domattina devo svegliarmi molto presto per andare a Wicklow”.
Sapeva cos’erano venuti a chiedermi e non voleva condizionare in alcun modo la mia decisione. Al primo giro di Guinness mi spiegarono che avevano deciso di festeggiare il cinquantesimo anniversario della Rivolta di Pasqua stappando la bottiglia giusta. “È giunto il momento di far cadere l’ammiraglio”, disse John, guardandomi fisso negli occhi. Fu come un colpo al cuore. Concordai che non c’era occasione migliore per buttare giù una volta per tutte il maledetto Nelson Pillar. Poi Danny prese la parola. “La Brigata di Dublino è molto diversa da quella che conoscevi tu. Adesso è ridotta ai minimi termini, come tutto l’esercito repubblicano. Anche al nord. Non abbiamo armi, né uomini e non possiamo permetterci azioni in grande stile”. Capii subito dove voleva arrivare. Per compiere un’operazione del genere senza rischiare danni alle persone avevano bisogno dell’aiuto di uno come me, esperto nella fabbricazione e nell’assemblaggio di ordigni ad alto potenziale. Rimasi in silenzio per un po’, osservando la gente seduta nel locale. Buttai giù l’ultimo sorso di birra. Infine guardai Danny e gli dissi che accettavo, ma volevo avere carta bianca su tutto. “Mi servono almeno due mesi di tempo da adesso. All’inizio di marzo, Humpty Dumpty cadrà”. Mi guardarono perplessi. “L’operazione si chiamerà così, come l’uovo di Alice nel Paese delle meraviglie, e l’ammiraglio farà la sua stessa fine”. Sarebbe stata la mia ultima operazione, la prima su suolo irlandese e in un certo senso anche la più difficile. Strinsi la mano ai due ragazzi e uscii dal Magnet. Finalmente aveva smesso di piovere.
Irish Press, 9 marzo 1966:
La colonna di Nelson, al centro di O’Connell Street, è stata fatta esplodere alle 1.30 di stamani. Il boato assordante si è sentito in tutta la città e la statua dell’ammiraglio britannico è saltata in aria in mezzo a centinaia di tonnellate di granito. La colonna è stata spezzata in due dall’esplosione.
Non avevo letto i giornali neanche il giorno dopo. Come per un riflesso condizionato, ero salito sul primo autobus diretto a Rathfarnham per andare alla scuola. Era chiusa da più di trent’anni. Ormai anche Margaret, la sorella maggiore di Patrick Pearse, si era trasferita altrove. Non c’era niente di più rilassante che camminare tra le querce secolari del parco che circondava la scuola. Quella quiete mi consentiva di rivedere il mondo con gli occhi del ragazzo che ero stato. Di sgombrare la mente da ogni pensiero ripercorrendo quegli anni straordinari. Tutto ebbe inizio lì, per quelli della mia generazione. Anche per chi non aveva avuto la fortuna di frequentare una scuola come quella di St. Enda, anche per chi non aveva incontrato maestri come Pearse, come Con Colbert e Thomas MacDonagh.
La strada che scompare in un viottolo non asfaltato, la piccola salita tra due file di alberi dai quali s’intravedono le montagne. Infine, la scuola. L’edificio, come avevo scoperto molti anni dopo averlo lasciato, un tempo si chiamava The Hermitage. Grigio, imponente, severo nella sua architettura georgiana del XVIII secolo, era avvolto da un’aura di mito che derivava dalla storia quasi leggendaria di questo luogo. Ricordo che fu Pearse in persona a raccontarcela, poco dopo il mio arrivo qui. All’inizio dell’Ottocento era stato il teatro della struggente storia d’amore tra Sarah Curran e uno dei più grandi eroi e martiri d’Irlanda, Robert Emmet. La ragazza abitava con la sua famiglia in un edificio vicino, denominato The Priory, ma suo padre osteggiava la relazione con quel giovane nazionalista che all’epoca faceva già parte degli United Irishmen. Theobald Wolfe Tone, il fondatore del movimento, voleva unire tutto il popolo irlandese abbattendo le barriere tra cattolici e protestanti in materia di diritti civili. “Se l’odiosa distinzione fra protestanti, presbiteriani e cattolici fosse abolita – aveva scritto nel 1791 – e i tre gruppi si fondessero insieme, sotto il comune e sacro nome d’Irlandese, in cosa potrebbe differire l’interesse di un cattolico rispetto a quello del suo fratello protestante che siede sul seggio vicino al suo, che esercita la medesima funzione ed è legato dagli stessi vincoli?”
La tragica fine di Theobald Wolfe Tone nel 1798 non era bastata per fermare i piani del gruppo indipendentista, che stava preparando una nuova rivolta contro il dominio inglese. I due erano costretti a incontrarsi di nascosto negli angoli più remoti del parco, sfruttando la frequente assenza del padre della ragazza, che era uno dei più influenti avvocati di Dublino. Ma la loro triste storia d’amore non era destinata a durare a lungo. L’insurrezione del 1803 fallì e costrinse Emmet a rifugiarsi nelle montagne intorno a Dublino per scampare alla vendetta inglese. La sua unica possibilità di salvezza era fuggire lontano, abbandonando l’Irlanda per sempre. Con la rete di contatti che aveva intessuto in Francia e negli Stati Uniti non gli sarebbe stato difficile trovare un rifugio sicuro in uno di quei paesi. Ma non era disposto a partire senza la sua amata e quella fu la debolezza che gli costò la vita. Scese dal suo nascondiglio in una notte piovosa di fine estate, spinto dall’irresistibile desiderio di riabbracciarla, dalla fondata speranza di convincerla a scappare al suo fianco. Quando tornò in città, nonostante tutte le sue precauzioni, l’oscurità non bastò a proteggerlo. Fu arrestato, condotto al castello di Dublino e subito messo in isolamento nella prigione di Kilmainham, con l’accusa di tradimento. Era il 25 agosto.
Pochi giorni più tardi, nella solitudine della sua cella, Emmet scrisse una lettera indirizzata a “Miss Sarah Curran, the Priory, Rathfarnham” e la consegnò a un secondino che gli aveva promesso di farla arrivare a destinazione. Non aveva altra scelta e fu costretto a fidarsi, ma purtroppo quell’uomo si rivelò un infame che lo tradì, consegnando la lettera alle autorità. Anche la ragazza rischiava adesso di essere ritenuta complice della cospirazione. Nel breve volgere di poche ore i soldati inglesi si presentarono a casa sua per una perquisizione approfondita – talmente violenta da risultare quasi un saccheggio – alla ricerca di prove contro di lei. A salvarla dall’accusa di complicità fu la prontezza di riflessi di sua sorella Amelia, che non appena vide i soldati avvicinarsi alla villa gettò nel camino le lettere che Emmet aveva scritto a Sarah negli ultimi mesi. Niente e nessuno avrebbe invece potuto salvare lo stesso Emmet che il 19 settembre, al termine di un processo farsa dall’esito scontato, venne condannato a morte. Il giorno dopo, il leader degli United Irishmen fu impiccato e poi decapitato nei pressi della chiesa di St. Catherine, in Thomas Street. Ma prima di morire pronunciò parole che erano destinate a rimanere scolpite per sempre nella liturgia patriottica del nazionalismo irlandese.
Fate in modo che nessuno scriva il mio epitaffio…lasciate che la mia memoria resti nell’oblio e la mia tomba priva di epigrafe finché altri uomini in altre epoche non potranno rendermi giustizia. Soltanto quando il mio paese prenderà il suo posto tra le nazioni della terra, allora, e non prima d’allora, potrete scrivere il mio epitaffio.
Aveva appena venticinque anni ma da quel momento in poi, la gloria del suo nome sarebbe divenuta immortale. E quel parco a Rathfarnham, dove si era consumata la breve ma indimenticabile storia d’amore con Sarah Curran che gli era costata la vita, sarebbe rimasto inscindibilmente legata a lui. Così, quando poco più di un secolo più tardi, Patrick Pearse decise di spostare la sua scuola dall’ormai angusta sede di Dublino in spazi più grandi, non ebbe timore d’indebitarsi pur di stabilirsi in un luogo dal passato fortemente simbolico. Un luogo dove lui avrebbe forgiato un’intera generazione di irlandesi liberi. Ci riuscì, ma soltanto al prezzo di fare la stessa fine di Emmet, cadendo di fronte a un plotone d’esecuzione inglese. The Hermitage aveva continuato a ospitare l’istituto maschile anche dopo il 1916, sopravvivendo alla tragica morte del suo fondatore. Ma niente sarebbe stato più come prima.
Anche adesso che sono passati cinquant’anni, il tempo pare non essersi mai fermato. L’unico rumore che spezza il silenzio surreale che mi circonda sono i miei passi che affondano sull’umido manto erboso del parco. Mi sembra ancora di sentire risuonare la voce del nostro maestro, di rivedere i miei compagni che morirono in quei giorni d’aprile del 1916. Dove, se non qui, sarei potuto venire oggi a celebrare degnamente la caduta di Nelson? Verrà il giorno in cui tutto il popolo irlandese avrà il desiderio di libertà. Sarà allora che vedremo sorgere la luna.