Ricordiamo Gianmaria Testa, cantautore dal percorso umano e artistico “differente”, scomparso prematuramente con un’intervista realizzata nel 2007. Gianmaria Testa è una delle figure più interessanti della canzone d’autore contemporanea: dopo un esordio “francese”, sta finalmente avendo il successo che merita anche da noi. Di poche settimane fa è l’assegnazione della Targa Tenco come miglior disco a «Da questa parte del mare». Ora viene ristampato «Lampo», il suo terzo disco, che risale al 1999, in una bella edizione con i testi tradotti in inglese, francese, tedesco. «La traduzione dei testi è uno dei motivi della ristampa – spiega Gian Maria Testa, che abbiamo incontrato a Roma – L’altro è che questo disco in Italia è stato distribuito poco e male. Eppure c’erano molte richieste: qualcuno l’ha comprato all’estero, qualcun altro l’ha scaricato da internet. Ora Harmonia Mundi ha deciso di ripubblicare anche questo, come ha fatto con i primi due, in formato libro-disco».
In «Lampo» indaghi la dinamica del tempo. Di tempo dal 1999 ne è passato: cosa resta?
Avrei voluto ricantarle, queste canzoni. Perché fare un disco significa fare una fotografia di quel momento lì. Poi le canzoni evolvono. Queste, poi, le ho spesso cantate in concerto. Le ragioni che hanno portato alla loro scrittura si allontanano, quella che poteva essere una rabbia magari è diventato un ricordo malinconico. Allora la canti in modo un po’ diverso. Comunque sia, prima di ogni disco dico ai musicisti che dobbiamo poterci sedere in un bar, alla fine del lavoro, bere un bicchiere e dirci che tra vent’anni non avremo vergogna di quello che abbiamo fatto. Con «Lampo» è successo. Quelle canzoni raccontavano la loro piccola verità tutt’ora valida, nonostante il depositarsi degli anni.
Il successo è arrivato tardi. Il primo disco a 36 anni…
Ho fatto il ferroviere, il capostazione a Cuneo, fino al primo aprile di quest’anno. L’ho fatto per 25 anni. Anche quando già mi andava bene non ho voluto smettere. Ora ho dovuto, perché è un lavoro che richiede una certa resistenza. Ho fatto il primo disco a 36 anni perché fino ad allora non avevo ricevuto proposte serie: in Italia mi si chiedeva sempre di cambiare qualcosa, volevano “confezionare un prodotto”. Poi dalla Francia arrivò la proposta della Label Bleu, che mi ha lasciato piena libertà. Con loro sono stato chiaro: io ho una famiglia e un lavoro, e non intendo stravolgere la mia esistenza. Loro hanno accettato e gli ha portato bene, perché è stato il disco più venduto della Label Bleu.
Per la prima volta al Premio Tenco hanno vinto cinque artisti di etichette indipendenti. È un segnale?
È un fatto molto importante. Per il premio ero contento come un bambino, perché lo seguo da quando ero ragazzo e ha sempre rispecchiato i miei gusti. Ero molto contento ma anche in imbarazzo: perché io mi chiamo volentieri fuori dalla mondanità di questo mestiere, sono solo uno che fa canzoni. Per quanto riguarda le etichette indipendenti, penso che non sia casuale. Le major hanno perso la loro forza, gli è stata tolta dall’andare avanti delle cose. Io, ad esempio, non riesco ad essere contrario al “file sharing”: non potrei mai dire a uno che si scarica il mio disco che lo sta rubando. Se ti scarichi un disco e ti piace probabilmente dopo lo compri, se puoi permettertelo. Se non puoi permettertelo, è giusto che lo ascolti comunque.
Perché la Francia scopre prima i nostri cantautori?
Non so risponderti. Io all’estero non ho un pubblico di italo-qualcosa, cioè di migranti: quelli sentono di più Toto Cotugno, cercano l’Italia che hanno lasciato. Non sono aggiornati. Ma nell’area francofona esiste un gusto per quella che viene definita «une voix à l’italienne»: nel loro immaginario ci sono due voci all’italiana, il bel canto e la voce ruvida. Un tipo di canto che non c’è nel loro panorama musicale, e forse per questo la amano. Ma succede anche altrove, a Vienna o in Germania.
Spesso ai cantautori si chiede un “messaggio”. A sinistra, più che altrove, si fa questa associazione facile.
Non ho mai creduto alla propulsione politica delle canzoni, mentre credo molto al dovere dell’atteggiamento. Un atteggiamento politico significa dire i sì e i no necessari. Io vengo da una generazione che diceva “anche il privato è politico” e sono rimasto molto legato a quella concezione. Oltre alla politica, occorre avere un comportamento etico coerente. Un obbligo che sento è far saper al pubblico da che parte sto, così che si possa regolare. Ad esempio, dopo il mio ultimo disco sull’emigrazione ho ricevuto delle contestazioni: dopo un concerto a Treviso, un gruppo di persone è venuto da me e mi ha detto «belle le canzoni, ma non condividiamo nulla». Va bene anche quello, è un modo di discutere.
Quindi un musicista deve schierarsi?
Penso di sì. Questi sono tempi di grande confusione, non si può generarne altra. I ragazzi vivono una condizione difficile: noi, quando eravamo giovani, credevamo che il futuro sarebbe stato pieno di cose migliori; ci siamo sbagliati, certo, ma pensa ai ragazzi di oggi, che vedono il futuro come una dimensione peggiorativa del presente. Da ogni punto di vista: ambientale, sociale, politico… Non si può vivere serenamente il presente, se non ci sono prospettive per il futuro.
Il disco sull’emigrazione l’ho fatto proprio per i ragazzi, per ricordare a loro e a noi quello che eravamo solo qualche decennio fa: immigrati. Anche a casa nostra. A Torino si scriveva sulle case “Affittasi ma non ai meridionali”. È passata una sola generazione, e già abbiamo un partito xenofobo come la Lega, facciamo leggi speciali, abbiamo i Cpt.
Viviamo in un mondo al contrario: gli Usa, che sono la più grande nazione di emigranti – perché hanno sterminato la popolazione originaria – stanno facendo un muro per bloccare altri emigranti come loro. Credo che la storia ci renderà conto di questo atteggiamento, di questo disumanesimo.
Certo, so che non è facile, anche a me può dare fastidio che andando in macchina tentino sei volte di lavarmi il vetro, ma non mi fermo lì. Come non riesco ad aderire a questa richiesta di sicurezza. Ma davvero vi sentite assediati? Ma da cosa? Io non voglio sentire che la sicurezza deve essere una delle priorità della sinistra, ma scherziamo?
Tu, da cantautore, hai a che fare con la parola. Se negli anni della tua formazione la parola era il tempio del confronto, oggi sembra sia diventata il tempio della mistificazione. Com’è stato possibile?
La parola ha seguito il destino dei contratti. C’è stato un tempo in cui una stretta di mano valeva tutto. Ti racconto un episodio: mio padre comprava le uve Barbera da due fratelli poveri in canna che avevano solo una vigna. Noi il vino ce lo facevamo da soli. Uno dei fratelli si faceva 25 chilometri tra le colline per venire a contrattare con mio padre. Concluso l’affare si stringevano la mano. Un anno, Pinotto (il suo nome, cioè Giuseppe) tornò il giorno dopo e mio padre gli chiese: «Cos’è successo?, ci siamo visti ieri…». Lui rispose: «Mi sono sbagliato, ti ho chiesto una lira in più». Mio padre aveva accettato il prezzo perché pensava fosse il giusto, perché non si sarebbero mai traditi dopo una stretta di mano. Lo stesso valeva per Pinotto.
La superficialità con cui abbiamo tradito qualunque cosa ha tradito anche il potere della parola. Se guardo la tv e vedo, che so, Ballarò, spengo. Perché quelle chiacchiere, da qualunque parte provengono, non servono a nulla. Oggi si afferma e domani si rettifica. Da quanto tempo è così? Qualcosa di salvifico credo possa venire non tanto dalla canzone, ma dalla poesia. La canzone si è tradita mille volte, oggi si giustifica con una bella voce e dei capelli biondi… È un peccato, perché la canzone è davvero popolare, arriva subito. Ma d’altronde è normale; come diceva Troisi, il successo è un megafono: se sei stronzo, diventi mille volte più stronzo.