- Philip Seymour Hoffman era il mio attore preferito. Uno per cui qualche ora fa i miei amici mi hanno mandato dei messaggi di timide condoglianze. Lo era diventato definitivamente quando vidi La famiglia Savage, un film del 2007 di Tamara Jenkins, che è la storia di un fratello e una sorella che non si sono mai filati troppo tra di loro e si ritrovano costretti a occuparsi da un momento all’altro del padre malato. Non era difficile immedesimarsi nel personaggio di Jon Savage per chi come me fa parte di una generazione iperformata culturalmente e handicappata dal punto di vista emotivo. La goffaggine nel trattare col padre, una virilità tutta scomposta, il fisico imbolsito di chi è diventato grassoccio dopo l’università e non dimagrirà mai più, il desiderio di sentirsi adulti e il non saper da dove cominciare: PSH dava un corpo a tutto questo; a una comunità di spettatori che vedeva in lui un attore che riusciva credibilmente a raccontare personalità complesse, iperemotive, disfunzionali, terribilmente sincere.
La prima volta che l’avevo visto al cinema era stato in Happiness probabilmente. Era il 1998 e Todd Solondz aveva immaginato un mondo in cui le relazioni sentimentali sarebbero state tutte dei casi interessanti dal punto di vista psichiatrico; a riguardarlo a quindici anni di distanza sicuramente oggi mi sembrerebbe un film seminale ma distante, provocatorio in un senso che oggi mi pare quasi scontato, ma l’interpretazione di PSH allora mi toccò come il trovarsi di fronte nudo qualcuno con cui non ha confidenza. A lui era toccato il ruolo di un maniaco sessuale, brutto, complessato, panciuto, una presenza angosciante in un film già iperdisturbante. Eppure PSH gli riusciva a dare un corpo, un corpo, dei movimenti credibili. La sua capacità di farci stare dalla sua parte, di volergli bene era per me sconvolgente: la sensazione di quando provi un affetto indicibile per un personaggio disgustoso.
Compresi La famiglia Savage e Happiness, faccio questo conto tristissimo e macabro, l’ho visto recitare in 21 film su 46 che ha girato. Probabilmente non l’ho mai cercato. È sempre stato PSH a trovarmi come se da una certa prospettiva stesse tentando di anticipare ogni volta un’esplorazione diversa di quello che era la rappresentazione sullo schermo della condizione umana, in quello strano periodo sospeso tra i due millenni.
Se uno ha presente Magnolia, sa in che modo di nuovo era impressionante vederlo sullo schermo con una recitazione tutta giocata sull’understatement: riusciva a farci commuovere per un infermiere a cui tocca occuparsi di uno stronzo (Jason Robards) in fin di vita e cercare di convincere il figlio (Tom Cruise) a incontrarlo per l’ultima volta prima di morire. In mezzo alle performance virtuosistiche di Cruise o di Robards, PSH ti arrivava al cuore perché ha un tono da amico del liceo che avevi dimenticato che ti richiama dopo qualche anno. Schietto, diretto, personale.
Pazzesco non protagonista in Magnolia, pazzesco non protagonista in Sydney, pazzesco non protagonista in Boogie Nights, pazzesco non protagonista in Ubriaco d’amore: Paul Thomas Anderson gli è riuscito a cucire addosso quattro personaggi estremi nella loro emotività estrema, esposta. Un buonissimo, un coattissimo, un fragilissimo, un cattivissimo. Se uno le riguarda di seguito queste quattro interpretazioni, rimane abbacinato. Un attore così connotato fisicamente – biondo, capelli lunghi, occhi sottili, pancia prominente – talmente capace di, come dire, non lasciare traccia di sé nei personaggi che intepreta, da sembrare – più che mimetico – posseduto. Non un trasformista, come ora c’è scritto nei necrologi, ma un creatore di personaggi: un genio che lo avvicina per certi versi a un autore più che a un interprete.
E uno rimane ancora più basito se confronta quello che gli viene richiesto da P.T.Anderson con quello che gli viene richiesto per esempio nel Grande Lebowski dei fratelli Coen o in Hollywod, Vermont di David Mamet. Di essere affettato, di essere artificioso, di diventare un caratterista. O se, ancora, vede cosa diventa nei dialoghi ipernaturalistici, hollywoodiani, della 25a ora di Spike Lee. È ancora più difficile non amarlo qui: quando dà corpo a personaggi marginali, spalle che tendono a sparire a confronto con gli istrionici Jeff Bridges o Edward Norton, personaggi comprimari per natura, perfetti nella loro capacità di restituirci l’imbarazzo, la timidezza, la medietà.
Così, pensavo che mi sarei affezionato a PSH come un attore da infinite candidature all’Oscar come non protagonista; Cameron Crowe l’aveva scelto del resto per interpretare un idolo del me venticinquenne, il critico musicale Lester Bangs, in Almost famous. Ma c’era dell’altro.
PSH era una specie di attore di culto fino a quando Bennett Miller nel 2005 lo scelse per Capote, dandogli la possibilità di un’intepretazione camaleontica, un lavoro sul corpo e sulla voce da manuale di recitazione, una di quelle cose che ti fanno vedere quando vuoi fare l’attore, credo.
Da Capote in poi è come se – ai miei occhi – in ogni film cercasse una sfida più complicata. Fai il figlio borghese, normale, di una coppia borghese che di fronte alla crisi economica decide di ammazzare i genitori, come in Onora il padre e la madre di Lumet. Fai il santo? criminale? asessuato? omosessuale? colto? cialtrone? capo di una setta simile a Scientology in quel capolavoro che è The Master di Paul Thomas Anderson, dove PSH mette i brividi per le sue capacità tecniche.
Ma non è soltanto questa bravura così coltivata da sembrare, come capita ai migliori talenti, quasi congenita. È anche qualcos’altro che mi ha reso PSH una specie di attore, più che feticcio, fraterno. È il fatto probabilmente di mostrare una maturità raggiunta, rotonda, in ogni scena che ha interpretato. La sua morte mi ha lasciato all’improvviso la stessa sensazione che provai quando seppi della morte di David Foster Wallace. È come se fosse morto qualcuno che non è mai stato giovane, nel senso di dilettante, amatoriale, imberbe. Come se PSH non si fosse data la possibilità di vivere un’era di sfrontatezza, di improvvisazione, di incertezza. Forse per questo, in modo molto banale forse, credo di averlo molto amato: mi sembrava rappresentasse un’incarnazione perfetta del sistema sentimentale della mia – la vogliamo chiamare così? – generazione: un mondo di iperconsapevoli, disincantati a vent’anni, ancora fragilissimi a quaranta.
Mi rimane la consolazione di poter vedere gli altri 25 suoi film che non ho visto, compreso un Synecdoche, New York di Charlie Kaufman, che finora non è stato distribuito in Italia. La clip della fine che ho visto e rivisto su youtube è una delle scene che più mi ha commosso in questi ultimi anni.
Credo mi commuoverà ancora di più da ora in poi. Si vede Philip Seymour Hoffman vecchio.
Ed è una per una sorta di egoismo che mi dispiace molto che sia morto. Come un fratello maggiore di cui ti fidi, avrei voluto capire dove mi avrebbe trascinato.