Curato con grande precisione filologica da Dario Borso, la raccolta di scritti politici di Elvio Fachinelli Al cuore delle cose è un insieme prezioso di scritti dello psicoanalista di Luserna, che ha la grande importanza di mettere insieme per la prima volta testi apparsi su riviste e quotidiani, la cui gran parte era divenuta, oggi, praticamente introvabile.
I saggi sono stati scritti tra il 1967 e il 1989, anno della morte di Fachinelli, ed è allora naturale intuire l’importanza di tale raccolta per addentrarsi nel pensiero di un dei più importanti psicoanalisti italiani, tanto importante da essere indicato, non a caso, da Lacan come suo miglior erede (investitura che, a titolo di cronaca, Fachinelli rifiutò). Il sottotitolo Scritti politici non deve però trarre in inganno: non si tratta di articoli che avevano un ruolo comprimario rispetto alla sua produzione psicoanalitica, ma si tratta invece, come sottolinea Borso nella sua prefazione, di testi importanti per indagare l’analisi più difficile di Fachinelli, quella condotta su un paziente imprevedibile e molto complesso, l’Italia.
Lo sforzo gnoseologico dello psicoanalista di Luserna che si respira nel gran numero di articoli riportati ne è testimonianza lampante. Si tratta di interventi anche lunghi, di veloci articoli o di veri e propri saggi, che hanno la caratteristica di essere sempre legati all’attualità e alle vicende che Fachinelli ha sempre conosciuto da vicino, apparsi per la maggior parte sulla rivista da lui fondata (con Luisa Muraro e Lea Melandri) L’erba voglio, sui Quaderni Piacentini e su L’espresso.
Il titolo semplice e diretto dato a questa raccolta, racconta il suo significato più autentico e profondo, nonché la natura di tutta la vicenda di Fachinelli: un’analisi che mai si è fermata all’apparenza o si è adagiata nella comodità, quanto piuttosto un’interrogazione perpetua che si smarcasse anche dal panorama speculativo a lui contemporaneo perché, come scrive Borso nella prefazione, Fachinelli «di Musatti, ergo di Freud, adottò lo sguardo obliquo, lo scarto del cavallo che spiazzato sa spiazzare». Nei saggi di Fachinelli si parla di tutti, senza distinzioni di classe o di genere: si incontrano così i ricchi e i poveri, gli intellettuali e gli operai ma soprattutto l’attenzione è verso le minoranze e verso i bambini, simbolo di quello sforzo pedagogico che ha sempre accompagnato la sua attività.
Non è infatti un caso né se il nome che più spesso si incontra tra le pagine è quello di don Lorenzo Milani, né se il testo che apre la raccolta è una recensione del libro scritto da don Milani e i suoi studenti Lettera a una professoressa, «il primo testo cinese del nostro paese» come lo definisce Fachinelli. Leggendo questa recensione, apparsa nel luglio 1967, quindi immediatamente dopo l’uscita del libro, e da noi cronologicamente lontana, sui Quaderni Piacentini, si trovano in nuce molte delle idee che guideranno le altre analisi raccolte nel libro. Innanzitutto quando Fachinelli si concentra sul punto di vista da cui muove l’analisi della società, quello del «ragazzo contadino, e anche operaio, bocciato a scuola»: lo sguardo di Fachinelli ha sempre avuto questo carattere, quello, come detto, di andare al cuore delle cose partendo dal basso e mai, a differenza anche di profeti moderni, di appiccicare etichette che mai completano definizioni ed analisi.
Inoltre, prendendo ad esempio Gianni e Pierino del libro di Don Milani, e quindi il bambino in difficoltà e quello privilegiato, Fachinelli fa un’analisi estremamente precisa che illustra anche i processi culturali contemporanei: «La Cultura dunque, come Scuola e Istituzione, possiede una funzione di schermo morale in una doppia direzione, tale da mascherare il processo di selezione reale cui pure partecipa: Gianni vive come colpa la sua eliminazione, Pierino come qualità, come dote, la sua promozione».
Non è difficile intendere l’errore intrinseco nel processo di selezione dovuto a questo stato di cose, un errore che ancora oggi miete le sue incolpevoli vittime: l’escluso Gianni, che non può non considerare avvenuta la sua ferita, nutrirà sempre un «impacciato rispetto» verso la cultura dei Pierini che, nello stesso tempo, per rimuovere l’altro e quindi le deformità del loro valore, tenterà di fare come se l’altro non ci fosse e quindi di ergersi a Sacerdote e Mago della Cultura.
Se questi sono i processi della storia della cultura che ancora oggi incontriamo, tale storia si ripete quindi nella vita di ogni giorno e l’importanza di Lettera a una professoressa, suggerisce Fachinelli in anticipo rispetto a ben più censori lettori, è quella di essere un libro di base, per tutti, non solo per insegnanti e bambini, ma per ognuno di noi.
Altrettanto importanti, soprattutto per la sua capacità di leggere il fenomeno, sono le pagine dedicate alle rivoluzioni del 1968, che costituiscono un nucleo fondamentale sia all’interno del libro, che in tutte le riflessioni di Fachinelli. Nel lungo articolo Il desiderio dissidente, non a caso apparso sui Quaderni piacentini, rivista ancora oggi tutta da riscoprire per la sua importanza, l’analisi di Fachinelli si concentra soprattutto sui giovani contestatori, tentando di intendere da cosa sono mossi, e ignorando intelligentemente tutto il resto: rileggere oggi queste pagine rende evidente quanto il tempo stia dando ragione a questo peculiare tipo di lettura.
L’intuizione di Fachinelli che lo smarca dalle spesso sterili analisi del tempo (e questo articolo esce quasi in contemporanea rispetto alla lotta), è il tentativo di non assimilare la rivolta ad uno sforzo per liberarsi dalla repressione e dall’autoritarismo paterno, ma di leggere invece, attraverso una chiava lacaniana, e quindi sulla scorta della distinzione tra desiderio e bisogno, il desiderio che muove i gruppi di giovani, cioè la spinta a mantenersi in un continuo stato di desiderio, mai placato e soprattutto uguale per tutti, che porta ad eliminare la figura del leader e a porsi obiettivi sempre più ambiziosi: un desiderio di desiderio dissidente, sempre proseguendo con una terminologia lacaniana.
Ma a distanza di venti anni, in un’intervista del 1988, le conclusioni a cui arriva Fachinelli rileggendo il fenomeno sono amare, e soprattutto sono ben individuabili nelle dinamiche delle nostre società di oggi: il gruppo aperto senza leader non è riuscito ad imporsi su quello chiuso ed elitario e quindi, il processo di accomunamento della società si è di nuovo assopito, rinviando, questo il termine utilizzato da Fachinelli, la rivoluzione.
Questa lettura della società, non ancora metabolizzata perché poco letta e considerata, imperniata sulla definizione di desiderio dissidente torna più volte nel libro che è, lo si sarà inteso, come «un mosaico, o più ancora un puzzle», nelle riflessioni sulla cronaca, non snobisticamente ignorata, ma indagata perché nella sfera pubblica ha spazio «chi lacrima e chi sanguina» (nell’intervento Ritorno all’ordine Fachinelli scrive: «L’incubo è reale, questa volta, ed è qui la sua importanza collettiva»), sulla scuola (con i riferimenti per esempio alla sua pedagogia non autoritaria, estrinsecatasi ad esempio con la creazione del progetto dell’asilo autogestito in Porta Ticinese a Milano), sull’educazione, sulla produzione culturale (mirabili le pagine che Fachinelli dedica alla critica di L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi) o sulla figura degli intellettuali (straordinario e molto divertente il brevissimo intervento Da abolire, dedicato all’intellettuale, «Che l’intellettuale, nell’uso comune, sia il simbolo di comuni impotenze? Un punto di incrocio di speranze e delusioni? Un capro espiatorio? Propongo: per dieci anni nessuno usi più questa parola»), individuandone sempre elementi distintivi, siano essi positivi o negativi, e mai fermandosi all’apparenza delle cose.
La chiusura del volume è occupata da un testo abbastanza impenetrabile, scritto nell’anno della morte dell’autore, che si intitola curiosamente Don Abbondio, il vittorioso in cui Fachinelli procede ad un’arguta interpretazione del comportamento del curato, prendendo in considerazione anche La storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, mostrando così anche una lungimiranza critica non di poco conto. L’analisi del personaggio nella posizione di «vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro», l’indagine della natura delle sue paure e dei suoi comportamenti, viene utilizzata da Fachinelli per mettere in luce un carattere che torna ciclicamente anche nella vita quotidiana contemporanea.
Se infatti Don Abbondio, nei due episodi analizzati, cioè l’incontro con i bravi e la predica del cardinale Borromeo, mostra da un lato la sua paura (simbolizzata dalla sua celebre frase «disposto… disposto sempre all’ubbidienza») e dall’altro la lontananza verso una fede che non gli appartiene, e che gli fa avvertire quindi estranee le parole del cardinale, santo uomo, tali comportamenti, riassumibili nella prudenza, sono anche rintracciabili nella chiusura del romanzo e nelle ultime battute di Renzo, simbolo di una critica all’estremismo (ciò che Renzo dice di aver imparato di questa storia).
Ma la chiusura di Lucia sulla fiducia in Dio rappresenta l’eco delle parole del cardinale, nonché l’unica differenza rispetto alla vita di Don Abbondio. Ecco perché la morale negativa dell’opera di Manzoni non è sconfitta, ma solo attenuata dalla fede in Dio che, paradossalmente però, non può fare miracoli. E allora attenzione perché «se Don Abbondio è personaggio universale, non è però difficile rincontrarlo, vivo, presente, inattaccabile, insieme ai bravi e a diverse specie di conte zio, anche nella nostra comune vita quotidiana».