Prima di partire per la Spagna, André Malraux, già, confusamente, membro dell’“Association des écrivains et artistes révolutionnaires”, braccio intellettuale dei comunisti di Francia (ci stavano, sullo stesso desco, Aragon, Breton, Gide, Giono, Nizan…), si mise in testa “di ritrovare la capitale della regina di Saba”, donna leggendaria, che “entra nella Bibbia, vi arriva dall’ignoto, con il suo elefante incoronato di piume di struzzo, i suoi cavalieri verdi sui cavalli pomellati, la sua guardia di nani, le sue flotte di legno turchino, i suoi bauli coperti di pelli di drago”. In Malraux, voglio dire, l’incongruente è congiunto al concreto, tra mito e fatto, antico e attuale (pensate alla meraviglia del “Musée Imaginaire”) non c’è distanza, tra azione e racconto neppure. Sognava di essere T.E. Lawrence, ma gli mancava l’autentica polluzione nichilista, quella che annienta l’individuo, in uno stillicidio di afflizioni, sognava Aden, come un Rimbaud a contrario, che urla e ama nascondersi con la narcisa indecenza di un attore navigato. In Spagna, in effetti, Malraux brigò, allestì una brigata aerea, si fece sentire; non sapeva guidare un aereo, sparava male, ma sulla guerra civile nella landa del Chisciotte, scrisse uno dei libri più alti – ma non il suo più bello –, La speranza, edito da Gallimard nel 1937, un successo clamoroso. Il romanzo, pubblicato nel 1956 da Mondadori, nella traduzione di Giuseppe Ravegnani, ristampata per un tot, torna con marchio Bompiani nella versione di Giovanni Pacchiano, già traduttore, tra gli altri, di Huysmans, Maupassant, Julien Green, Benjamin Crémieux, critico e studioso eccellente. La nuova edizione della Speranza ci impone, editorialmente, due cose: pubblicare come si deve le Antimemorie di Malraux, l’autobiografia di un uomo che aveva il culto di sé, dell’eterno e della morte, e Il caos e la notte di Henry de Montherlant, romanzo ‘spagnolo’ a distanza di due decenni dai fatti bellici, che giace, dimenticato, nella versione di Giuseppe Mormino, per Bompiani, era il 1965. Nelle stesse pagine delle Antimemorie, Malraux racconta la visita nella Norimberga ancora ustionata dalla presenza di Hitler, reclama il suo personale rapporto con la Sfinge, “una chimera, e le mutilazioni che ne fanno un teschio colossale aumentano ancora la sua irrealtà… Ogni arte sacra si oppone alla morte, perché non è una decorazione della propria civiltà, ma l’esprime secondo il suo valore supremo”. Torna spesso alla Sfinge, Malraux, a quella semisepolta dalla sabbia, che emerge con l’enigmatica potenza di un assalto, non quella sfigurata dalle cartoline turistiche. In effetti, pensava Malraux, non viviamo che tra gli artigli della Sfinge. (d.b.)
La speranza è uno dei tasselli che compongono l’agiografia narrativa di Malraux. Parto chiedendoti qualcosa sulla peculiarità del suo linguaggio: epico, lirico, schietto, da esteta armato, da ideologo. Qual è il ‘ritmo’ di Malraux e ciò che di lui ti affascina (o ti repelle), come scrittore?
Occorrerà distinguere fra l’uso del linguaggio, lo stile della narrazione, e quella che il De Sanctis (un grandissimo di cui troppo spesso ci si dimentica) chiamava “la situazione”. Perché Malraux non punta certo le sue carte sulla lingua in sé e per sé: che è un francese della media borghesia colta, peraltro non fastidiosamente convenzionale, ma applicato anche nei dialoghi, dandoci l’impressione di una certa improbabilità, a pressoché tutti i personaggi, a qualsiasi ceto sociale e nazione appartengano. Con l’eccezione di Leclerc, il mercenario francese che guida uno dei “pellicani” (gli aerei della Squadriglia Malraux) e che si prende paura scappando mentre è attaccato dai caccia nemici. Poco dopo, una scena memorabile vedrà Leclerc sbronzo cercare di giustificarsi, sentendosi accusato di essere un codardo e perdendo le staffe (il che lo rende simpatico, perché mai nessuno degli altri combattenti, durante il romanzo, perde il controllo linguistico), e sbottando con frasi come: “Non ci rompere le palle”, “Ne ho i coglioni pieni di mitragliatrici da luna park”, “Ho le palle piene, io”, “Ti piscio addosso. Capisci? Ti piscio addosso.” E di nuovo: “Io ti piscio addosso”, “Ti piscio addosso”. Finché Magnin, il comandante della squadriglia e alter-ego dell’uomo Malraux, il pivot del libro, lo esonera da qualsiasi incarico e lo sbatte fuori. Certo, linguisticamente parlando, se vogliamo rimanere nel campo del post-naturalismo (e La speranza è, a suo modo, un romanzo postnaturalista, non recependo nulla del linguaggio dei suoi amici-nemici surrealisti), cinquant’anni prima, lo Huysmans di A vau-l’eau e di En rade era, con la sua langue verte, anni luce più avanti. Ma, l’ho detto, di sicuro non è sulla lingua che Malraux si gioca la qualità del romanzo. La cui grande forza sta, a prima vista ma anche a rilettura, nelle variazioni tonali dello stile, che, se non sono 33 come nel celebre pezzo beethoveniano per pianoforte, appaiono peraltro numerose. A partire dalle tonalità secche e concitate del sorprendente inizio dell’opera, tutto dialogico, dove la storia è affidata ai botta e risposta delle telefonate, amiche o ostili, della e alla centrale telefonica della Estación del Norte (repubblicana), mentre i franchisti hanno già occupato parte del Paese. Al ritmo più piano della narrazione impersonale, come se l’occhio dell’autore registrasse dal di fuori gli eventi, se quotidiani e visti non nei momenti di crisi. All’accelerazione e alle spezzature del ritmo narrativo durante il drammatico assedio dell’Alcázar o durante i bombardamenti di Madrid. Ai frequentissimi dialoghi di contrasto politico fra i personaggi, dove la mia simpatia di lettore va agli anarchici, e non certo ai comunisti filosovietici imbeccati come scolaretti ottusi dai rappresentanti mandati espressamente da Stalin e rapidi nell’impadronirsi di un loro potere speciale (mentre ambivalente pare la posizione dello stesso Magnin-Malraux, che con l’emotività sta dalla parte degli anarchici rivoluzionari, ma con la razionalità di uomo dai piedi ben piantati per terra non può dar torto ai ministeriali e ai filosovietici nella loro volontà – risultata poi inutile – di inquadrare secondo gerarchie rigide i vari gruppi di militanti, Squadriglia Malraux compresa. Ciò che avverrà e che preluderà allo scioglimento della squadriglia stessa). La mia impressione, poi, è che al fondo di questi dialoghi e confronti serrati, a volte sfibranti, stia, sotto altra specie, e mi sembra che la critica non abbia mai avanzato questa interpretazione, il ricordo delle continue e veementi discussioni fra Naphta e Settembrini nella Montagna incantata, pubblicata per la prima volta in francese da Fayard nel 1931 e perciò con ogni probabilità letta da Malraux (un titolo così bello, e chissà perché qualcuno ormai per scrupolo filologico lo cita come La montagna magica, con quella brutta allitterazione della m). E peraltro il vero, grandioso punto di forza del romanzo sta negli squarci epico-lirici cui tu accennavi nella domanda, non riportabili qui data la loro quantità. Basti dire che essi sono legati soprattutto al rapporto con la natura (bellissima una delle scene finali dell’aereo repubblicano caduto fra le montagne, nella neve, con un cadavere e diversi feriti, portati a valle dai paesani su improvvisate barelle in una sorta di dolorosa processione) o di fronte alla morte. Si veda l’altra, magnifica, pièce de rèsistence, data dalla prigionia e dall’esecuzione per fucilazione per opera dei franchisti dell’eroico ufficiale Hernández (è riuscito a mettere in salvo tutti i suoi soldati prima di essere catturato), interiorizzata secondo il commovente punto di vista del personaggio. È forse il punto più alto del romanzo. O le malinconiche musiche di pianoforte che escono dalle finestre delle case, e che evocano una profonda verità dello spirito più vera di qualsiasi altro insight sull’esistere. Ecco, mi viene da dire che Malraux punta soprattutto sull’alternanza fra scene forti o fortissime e scene di vita, pur nella guerra, se così si può dire, quotidiane: tanti quadri che sfilano in diastole e sistole comunicando al lettore un senso di continua apprensione: è il destino sopra la testa dei nostri eroi, come sopra quella, ahimé, di ogni umano.
Che è poi la “situazione”: per il De Sanctis la prospettiva in cui si capisce la “cosa” non come in sé, ma viva “nello spazio e nel tempo che formano la sua atmosfera, pigliando modo e colore da questo o quel secolo, da questa o da quella società”. E tale criterio si attaglia meravigliosamente alla Speranza, che va considerata e valutata anche nel contesto più ampio (europeo, non solo spagnolo) cui il romanzo si riferisce, nella sua aura che in realtà è anche il frutto di un insieme più complesso di stimoli e influssi ed eventi. Né va dimenticato il senso da attribuire agli ossessivi puntini di sospensione di cui l’autore costella i dialoghi. Dove va scartato un intento letterario qualsiasi, ma, piuttosto, è da considerare una sorta di riflesso fisiologico di malessere individuale che peraltro diviene simbolo di un malessere di tutto un mondo: non per nulla Malraux soffriva della sindrome di Tourette, per cui, specialmente nei momenti di ansia, il suo viso era attraversato da continui tic: lo stesso atteggiamento ticcoso trasferito, come una sorta di riflesso automatico, nei dialoghi. È “l’absence de littérature” di cui parlerà” Montherlant (dirò più avanti). Per soddisfare del tutto la tua domanda: non c’è nulla che mi repelle nel Malraux della Speranza, nemmeno la sua ambivalenza politica che in quegli anni così confusi e così dominati dall’incombente presenza dell’URSS, cui molti intellettuali francesi cedettero, vedendolo come un baluardo contro il nazismo, può essere magari giustificabile. Certo, fu ben più profeta e schietto Gide, che si allontanò dall’orrendo totalitarismo sovietico dopo il suo viaggio nell’Urss, con Ritorno dall’URSS (1936) e Postille al mio ritorno dall’URSS (1937). Di Malraux uomo, piuttosto, non mi delizia il suo immenso narcisismo, e la faccenda poco pulita della giovanile spedizione “archeologica” in Cambogia, con il proposito, realizzato, di staccare a colpi di piccone bassorilievi dai templi sepolti nella giungla, e di rivenderli a caro prezzo a Parigi. Scoperto e condannato a tre anni di prigione, si salvò unicamente grazie ad autorevoli pressioni provenienti dalla Francia. Ma se dovessimo, in letteratura, perennemente giudicare i grandi scrittori dagli uomini che ci stanno dietro, troppo spesso ne resteremmo delusi.
Cos’è questa Espoir a cui allude il titolo del libro? Come si installa il libro di Malraux rispetto ai tanti romanzi sulla guerra di Spagna (penso a George Orwell, a Hemingway, a Montherlant, ad esempio)?
In realtà il tema della speranza, il suggestivo titolo del romanzo, percorre tutto il libro e si riserva l’intestazione della terza e ultima parte: ovvio che chi combatte una guerra speri di vincerla, anche se qui la speranza si rivelerà poi infondata. Ma dobbiamo distinguere, nel romanzo, una riflessione individuale di un personaggio, e un’idea generale che si induce, attraverso gli avvenimenti, e che va riferita al narratore. Veniamo al primo punto. L’ingegnere Jaime, che fa parte della Squadriglia Malraux, si trova su un aereo da combattimento che tornando al campo base capotta, e ne scende cieco. È figlio di un grande storico dell’arte e mercante di quadri, Alvear, uomo molto anziano che vive appartato a Madrid. Un altro membro della squadriglia, Giovanni Scali, italiano e studioso di storia dell’arte, viene inviato a casa di Alvear per convincerlo a lasciare la città, perché è troppo forte il pericolo che arrivino i marocchini, spietati anche nei confronti dei civili, e nel caso forse ancor più crudeli, perché è notorio che il figlio di Alvear ha partecipato alla lotta nelle file dei repubblicani. Nel lungo e suggestivo colloquio fra Scali (la cui figura richiama nella realtà il nostro Nicola Chiaromonte), Alvear, trasognato, gli parla della speranza: “C’è nell’uomo una speranza terribile e profonda… Chi è stato condannato ingiustamente, che ha incontrato troppo da vicino l’imbecillità, o l’ingratitudine, o la viltà, è meglio che rimandi la sua scommessa… Tra gli altri ruoli, la rivoluzione recita quello che un tempo era interpretato dalla vita eterna, il che ci spiega molto delle sue caratteristiche. Se ognuno applicasse a se stesso un terzo dello sforzo che fa oggi per influire sulla forma del governo, diventerebbe possibile vivere in Spagna”. A questa malinconica riflessione insieme esistenziale e politica si affianca poi, chiuse le ultime pagine del romanzo, un senso più generale, che restituisce alla speranza tutto il suo carattere (lirico e ricco di pathos) di pulsione illusionale, riguardando un futuro impossibile da anticipare, sia per l’individuo, tanto più in tempo di guerra, sia per la rivoluzione sociale: il punto d’arrivo, a cui alcuni personaggi della Speranza paiono aspirare. Malraux pubblicò il romanzo nel novembre 1937, quando le sorti dello scontro fra nazionalisti e franchisti non erano state ancora decise e quando lui era già dal gennaio dello stesso anno tornato in Francia (ritornò ancora negli stessi anni della guerra in Spagna, ma per ragioni pratiche e per realizzare il suo film, Espoir-Sierra de Teruel (cerca il dvd, c’è e merita), girato fra l’agosto 1938 e il gennaio 1939. Colpiscono di più, invece, due segnali basilari contenuti nella frase finale della Speranza e in quella dei Conquistatori, forse il romanzo più importante di Malraux, il primo romanzo “politico” della Francia anni Trenta, nonché, a detta dello stesso autore, romanzo espressionista, dunque stilisticamente più avanti della Speranza, e profetico nel comprendere il ruolo della Cina in un futuro non così lontano. Uno (riprendo le parole del mio vecchio e valoroso amico Goffredo Fofi), “dei grandi libri per capire il Novecento”. Rispettivamente: “Io cerco nei suoi occhi la gioia che ho creduto vedervi; ma non v’è nulla di simile, nient’altro che una dura e pur fraterna gravità” (I conquistatori). E: “Manuel avvertiva per la prima volta la voce di chi è più grave del sangue degli uomini, più inquietante della loro presenza sulla terra: la possibilità infinita del loro destino, e si sentiva dentro questa presenza, mescolata al rumore dei ruscelli e al passo dei prigionieri, costante e profonda come il battito del suo cuore” (La speranza). Eccoli, assieme alla fatica di vivere, anche contro la nostra volontà (“gravità”-“grave”, e con un allarmante accrescimento, dalla gravità dello sguardo del singolo a quella del destino, ben più potente del desiderio dell’uomo), i due temi essenziali ma ossimorici: la fratellanza, motivo benissimo presente nel romanzo sulla guerra di Spagna, assieme al desiderio e al conforto del calore degli altri, alla loro benché difficile, perché legata al dramma delle armi, vicinanza emotiva e concreta, alla solidarietà, alla condivisione del pericolo, ma turbato, nella sensibilità si vorrebbe dire di ogni uomo (ma non è così), dal suo rovescio, l’oscura feroce assurda imprevedibilità del destino, che ci richiama alla tragica concretezza della solitudine del nostro essere per la morte, al di là di ogni affetto, amicizia, ideale comune che ci riguardi. Sicché “O speranze, speranze; ameni inganni,” potremmo applicare il verso del Leopardi, benché in altro contesto esistenziale e sociopolitico, anche al pensiero del libro di Malraux.
Quanto agli altri romanzi sulla guerra di Spagna, Omaggio alla Catalogna, di George Orwell, ha la straordinaria vivezza di una vicenda raccontata dall’autore in prima persona, e combattuta di persona (pare invece che Malraux, che era soprattutto un organizzatore e un ottimo procacciatore di denaro per la squadriglia, e che per contro non sapeva pilotare un aereo, si sia limitato a svolgere qualche volta il compito di bombardiere, ma la notizia è tutt’altro che certa). Lo scrittore inglese partì per Barcellona il 15 dicembre 1936, e si arruolò subito nel P.O.U.M., partito marxista e antistalinista, attivo specialmente nella capitale catalana, ma il 20 maggio 1937 in uno scontro coi franchisti sul fronte aragonese un cecchino lo ferì alla gola; sicché, dopo un’avventurosa serie di ricoveri ospedalieri, tornato a Barcellona e informato di un suo certo e imminente arresto da parte della polizia in qualità di iscritto al P.O.U.M.¸ appena soppresso, riuscì a scappare assieme alla moglie in Francia. Rileggendo il libro dopo anni, oggi mi appare un affascinante rapsodico resoconto autobiografico, con chiare prese di posizione politica, più che un romanzo. Di Hemingway mi limito a dirti che adoro Addio alle armi e i 49 racconti (uno di essi, Colline come elefanti bianchi, è, della letteratura americana del Novecento, il racconto che preferisco in assoluto, insieme a Il ballo, del suo amico e rivale Francis Scott Fitzgerald, a lui peraltro molto superiore). L’Hemingway di Per chi suona la campana è un romanzo finto e artificioso: la sua vena di scrittore si era ormai esaurita. Ho cercato di rintracciare nel disordine della mia non piccola biblioteca I grandi cimiteri sotto la luna, di George Bernanos, all’epoca del conflitto su posizioni filofranchiste, ma non l’ho trovato. Indicativo tuttavia il fatto che del romanzo io non ricordi una sola riga. Diverso il discorso per Le Chaos et la nuit di Henry de Montherlant. Pubblicato nel 1963 e dedicato alla patetica figura di Celestino Marcilla, un anziano anarchico spagnolo che aveva combattuto coi repubblicani durante la guerra civile e ora è esule a Parigi assieme alla figlia Pascualita. Nel 1959 l’uomo decide di tornare a tutti i costi in Spagna. Morirà suicida poco prima che la polizia arrivi ad arrestarlo. Arduo confrontare questo grande romanzo coi romanzi che ho citato più sopra perché separato da 20 anni di storia. Si potrebbe dirne come di un “Temps d’un retour”, il tentativo di ritrovare una vita vera e interrotta. Ma in realtà il tema che pare più congeniale a Montherlant è anche qui quello della figura del loser, del perdente, come già negli Scapoli, altro suo romanzo di sublime riuscita, o come per le giovani donne vanamente e dolorosamente innamorate di Pierre Costals, il protagonista, di Les jeunes filles: di cui Adelphi ha pubblicato qualche anno fa, inspiegabilmente, solo il primo dei quattro volumi. Occorrerà però ricordare, a proposito della stima di Montherlant nei confronti della Speranza, almeno una nota del suo L’équinoxe de septembre, e due passi dei Carnets. Nella prima troviamo: “Dans ce livre admirable et si mal apprecié, L’Espoir – dans ce livre qui, parmi tous les livres parus depuis vingt ans, est celui qu’on voudrait le plus avoir veçu et avoir écrit, – Malraux dit que, pour deux de ses personnages, ‘le courage aussi était une patrie’”. Mentre nel Carnet XXXIV compaiono addirittura due pagine di consenso ed elogio. Ne riporto per brevità solo un paio: “L’absence de littérature. En cela fait songer souvent Tolstoi […]. Répugnance pour la pédale. Pour la phraséologie: presque pas de proclamations de fois (et plût au Ciel que toute notre littérature antifasciste eût pareil horreur de la rhétorique!”. E: “En Malraux se réconcilient l’intelligence et l’action, fait des plus rares.” Mica poco per un altro narciso come Montherlant.
Che idea della guerra, della guerra civile spagnola, quindi della vita traspare dal romanzo?
Malraux era un nichilista, per cui è difficile attribuirgli un’idea personale sulla guerra in generale, o le ragioni profonde per cui partecipa, se pur per brevissimo tempo, alla guerra di Spagna, se non un condivisibile atteggiamento di ripulsa nei confronti del franchismo e un desiderio di protagonismo che non gli venne mai meno. È importante come ci faccia capire che la guerra di Spagna non è solo una guerra civile, ma la prefigurazione di una guerra mondiale. Utile inoltre citare le variegate opinioni sulla guerra dei diversi personaggi. I mercenari e i volontari vivono la guerra come “aura romanzesca”. Scali si accorge che la guerra “è anche una faccenda fisiologica”. Manuel, tecnico del suono negli studi cinematografici, con tessera del partito comunista, prende coscienza che la guerra “consiste nel fare l’impossibile perché dei pezzi di ferro entrino nella carne”. Per gli ufficiali regolari dell’esercito repubblicano e per i ministeriali (García, Vargas) la guerra è una guerra tecnica, è organizzazione, e non ha buon esito se c’è una crisi di comando. Per gli aviatori della Squadriglia Malraux, la guerra “è una faccenda romantica”, ma è anche orrore. Magnin, francese, socialista rivoluzionario, pensa che “gli uomini non si fanno ammazzare per la tecnica e per la disciplina”, ma hanno bisogno di un ideale. “Non siamo la rivoluzione. Ebbene, cerchiamo di esserlo”. Non c’è dunque un’idea unica della guerra né della vita, se non, come ho già detto, la percezione della oscura presenza del destino, imprevedibile come la morte del coraggioso capitano Mercery che, a Madrid, sale su una scala da pompiere per spegnere un incendio, ed è falciato dai caccia franchisti cui invano ha cercato di sparare.
Che ruolo ha Nicola Chiaromonte nel romanzo? Qual è stato, d’altronde, l’autentico ruolo di Malraux, al di là del romanzato, nella guerra di Spagna?
Non posso affermare che ci sia una coincidenza specolare fra la figura di Nicola Chiaromonte, intellettuale e critico italiano, e quella di Giovanni Scali, professore di storia dell’arte e ottimo studioso in Italia. Ma proprio l’italianità di Scali fa pensare con certezza a Chiaromonte, che aveva conosciuto Malraux a Parigi e che era arrivato in Spagna, a Barcellona, il 10 agosto 1936, viaggiando sullo stesso aereo di Malraux. Da un testo inedito recuperato in un ottimo articolo da Cesare Panizza si apprende che l’impatto con Barcellona fu felice: “C’était une journée chaude et lumineuse. L’agitation des rues qui obligeait les autos à s’ârreter tous les cent mètres, était toute guerrière. Guerrière, pas militaire. Jamais, en Espagne, je n’ai vu la guerre prendre un aspect strictement militaire: elle m’est toujours apparue mêlée au tumulte populaire, aux voix des femmes, aux jeux des enfants, au travail des paysans et des ouvriers”. Arruolato nella squadriglia di Malraux come bombardiere, Scali-Chiaromonte è costretto a rivedere in breve la sua illusione lirica. Si è accorto, mentre imperversano le offensive franchiste, che in realtà i politici (cfr. ancora Panizza) si sforzano di separare “la rivoluzione dalla guerra”. Con la costituzione delle Brigate Internazionali e l’imminente passaggio della Squadriglia Malraux nei ranghi dell’esercito, Chiaromonte ritorna in Francia all’inizio di novembre del 1936. La sua avventura è durata solo due mesi, eppure Malraux dedicherà a Scali una serie di pagine bellissime e problematiche che ci narrano l’incontro e il dialogo fra lo stesso Scali e il vecchio Alvear. Quanto all’autentico ruolo di Malraux, al di là del romanzato, nella guerra di Spagna, ho già detto che si trattava di un eccellente organizzatore, capace innanzitutto di procurare aeroplani, ma anche di raccogliere fondi per la squadriglia, persino attraverso un viaggio negli Stati Uniti. La pubblicazione, il 3 novembre 1937, della Speranza, oltre ad avere un enorme successo di pubblico, attirò ma senza esiti felici, l’attenzione internazionale sulla guerra di Spagna.
Della patente di ‘attualità’ di un romanzo poco c’importa, eppure: perché dovremo leggere oggi La speranza? Che forza ha ancora – se l’ha – Malraux?
Perché dovremmo leggere oggi La speranza? O bella! Perché è un grande appassionante romanzo. Malraux ha la forza di un classico e certe scene drammatiche hanno lo stesso impatto di quelle della tragedia greca. E perché in un’epoca di crisi profonda e temo irrimediabile come la nostra è più salutare leggere storie di eroi coraggiosi ma vinti, che facciano riflettere, invece che limitarsi a leggere banali storielle. I lettori ci sono: non è un caso che abbia riscosso un consenso internazionale lo strepitoso libro di Amanda Vaill, Hotel Forida. Amore e guerra a Madrid, pubblicato nel 2014 da Farrar, Straus & Giroux e nel 2016 in Italia da Einaudi. Una emozionante ricostruzione della guerra di Spagna vista attraverso i destini di sei personaggi, Hemingway e Martha Gellhorn, Robert Capa e Gerda Taro, Arturo Barea e Ilsa Kulcsar, ospitati appunto nell’Hotel Florida, sulla Gran Vía di Madrid, e coinvolti nella guerra.