Nel 1972, sulla “Nouvelle Revue Française”, Emil Cioran detta alcune considerazioni Sur l’inutilité des révolutions. Il testo si articola sul numero 233 (Mai, 1972) e 234 (Juin, 1972) della rivista: ci è stato segnalato come inedito in Italia. Gli esperti sapranno giostrare l’oroscopo bibliografico: Cioran pubblica L’inconveniente di essere nati nel 1973; il 17 maggio del 1972 scrive a Mircea Eliade: “Ultimamente ho avuto problemi di salute. La vecchiaia è arrivata, non c’è niente da fare. In particolare, ho passato due settimane nelle angosce dell’incertezza, in seguito a una rettoscopia che aveva suscitato certe ipotesi da parte del medico, fortunatamente infondate. A dirla tutta, la mia decisione era già presa: non tirarla tanto per le lunghe, finirla al più presto. Ciò che mi ha fatto piacere, in tutto questo, è constatare che si può avere in animo di rompere con la «vita», senza tanto sgomento e senza alcuna amarezza” (in: E.M. Cioran-Mircea Eliade, Una segreta complicità. Lettere 1933-1983, Adelphi, 2019). Come si sa, Cioran muore nel 1995. Può essere utile incrociare i pensieri di Cioran sulla rivoluzione con quanto scrive, quell’anno, sui Quaderni (in Italia, Adelphi, 2001). Ammucchiamo alcuni pensieri: “La volontà di distruzione è l’espressione dinamica della tristezza”; “Essere vuol dire fabbricare passato”; “Soltanto l’illusione è inesauribile”. I pensieri costruiscono labirinti, cani scatenati nel caos; si pensa per ammazzarsi. In un brandello epigrafico, Cioran designa il suo destino: “Essere il profeta della fine. Vorrei essere un profeta disprezzato e dimenticato, di cui si ricordasse solo l’ultimo uomo”. Qui si traducono i primi paragrafi della prima puntata di Sur l’inutilité des révolutions (altri verranno, a far meglio); quel numero della “NRF” dedica un servizio monografico – per contrasto, forse – a John Cowper Powys, di cui si pubblica un saggio sul “Piacere della letteratura”. Esistiamo nell’urlo, per esplicitare la caduta in rovinoso schianto; se la Storia è un teatro, ormai ne siamo le comparse, l’ombra di una sagoma in cartone. Forse viviamo nell’era filantropica prevista da Cioran: quella degli uomini esauriti, schiavi del proprio individualismo spurio. La storia non esiste più, è il dominio del visivo, un oblio senza obolo, privo di nirvana, da divano. (D. Terrevague)

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Annientare dona una sensazione di potere, lusinga di ciò che è oscuro, originaria in noi. Non è costruendo ma polverizzando che indoviniamo le segrete soddisfazioni di un dio. Da qui l’attrazione verso il distruggere, le illusioni che suscita negli entusiasti di tutte le età.

È nel gorgo dell’euforia che i francesi hanno costruito un sistema sociale, senza tenere in conto i dati pratici. La parola “rivoluzione” ha su di loro l’effetto di un afrodisiaco. Privi di un’immaginazione metafisica, dimostrano una notevole inventiva quando si tratta di ripensare la società; lì nulla li ferma dallo scatenarsi, è il delirio del ragionamento, perdono ogni buon senso, vagano fino al fondo delle loro divagazioni. Finché devono considerare un altro tipo di ordine o di disordine, si sentono rinnovati, innovativi, nel proprio elemento. L’idea dell’uguaglianza li getta in trance, ed è intorno a quel concetto che hanno rivoltato le proprie ossessioni. Non esistendo follia più nobile, vi consacrano senza rimorsi tutte le loro speranze e la loro retorica.

Che la Trappa sia nata in Francia piuttosto che in Italia o in Spagna, non è un caso. Gli spagnoli e gli italiani parlano senza sosta, va da sé, ma non si ascoltano parlare; i francesi, invece, assaporano l’eloquenza, non dimenticano mai che stanno parlando, ne sono pienamente coscienti. Soltanto loro hanno potuto pensare il silenzio come una prova, un’ascesi.

Ciò che mi irrita della grande Rivoluzione è che è tutta una messa in scena, i suoi protagonisti si muovono come attori nati, la ghigliottina non è che una decorazione. La storia della Francia, nel suo insieme, sembra una storia creata a comando, una storia per gioco, tutto è perfetto dal punto di vista teatrale. È una rappresentazione, una serie di gesti grandiosi, di eventi che vanno ammirati più che sofferti, lo spettacolo di dieci secoli. Da qui l’impressione di frivolezza che dà perfino il Terrore, visto da lontano.

Ciò che rende sospetta la distruzione è la sua facilità. Il primo venuto può eccellere. Ma se distruggere è facile, distruggersi lo è meno. Superiorità dei caduti sull’agitatore o sull’anarchico.   La proprietà dei regimi agonizzanti è consentire il confuso coagulo di fedi e di dottrine, e di dare al tempo stesso l’illusione che l’ora della scelta sarà infinitamente procrastinata. È da questo e unicamente da questo che deriva il fascino dei periodi pre-rivoluzionari.

Se le nazioni diventassero abuliche nello stesso momento, non ci sarebbero più conflitti, guerre, imperi. Purtroppo, ci sono i giovani, e i giovani sono l’ostacolo decisivo all’utopia dei filantropi: fare in modo che tutti gli uomini giungano allo stesso grado di stanchezza o di esaurimento.

Tutte le rivoluzioni presuppongono una lunga tradizione di impertinenza.

Ogni generazione vive nell’assoluto e si comporta come se avesse raggiunto la cima, se non la fine, della storia.

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