Una periferia, una riserva indiana, la terra di nessuno piena di fantasmi, oppure una festa privata, a inviti. Per capire cosa e come leggiamo, dovremmo provare a chiederci qual è, nel nostro tempo, lo spazio del fumetto. Lo spazio in quanto oggetto culturale nel sistema dei media e delle arti e, insieme, lo spazio in quanto fonte di emozioni e di idee nell’orizzonte della nostra attenzione, nella vita di ogni lettore. Una panoramica a volo d’uccello sulle pubblicazioni del 2013 rischia di confermare soltanto le idee che abbiamo già, qualunque esse siano: la massa dei libri che si accumulano nella nicchia del fumetto – nicchia tra le nicchie, parola dominante e falsamente precisa – non sembra comunicare direzioni: un po’ è libertà, un po’ evanescenza. In generale, però, vediamo che quello che, dopo una scissione ormai accettata, chiamiamo fumetto popolare – in Italia principalmente Bonelli e derivati, poi i manga e i supereroi – è alla disperata ricerca di rifondare la propria autenticità e trovare una nuova ragione d’essere.
Premesso che questo fumetto di popolare ha ormai poco più che la formula disincarnata e, in costante erosione, i numeri, il problema è la sua necessità: non quanto, ma il modo in cui si crede a quello che si scrive, disegna, legge, un problema di spaesamento. Lo spazio del fumetto popolare è sempre stato un campo di battaglia. Più volte i fumetti hanno avanzato guadagnando chilometri d’immaginario, tante altre hanno dovuto lottare, e a volte soccombere, contro l’accusa di rovinare i giovani, istupidire le menti e/o attentare ai valori civili. Il rischio che corrono sul campo in cui si trovano oggi a combattere è invece quello di non trovare la buca (nicchia) giusta e di rimanerci sepolti, di essere un danno collaterale. Ma in questo articolo parleremo soprattutto dell’altro fumetto, quello “non-popolare”, che nell’epoca delle riviste si indicava con la discutibile espressione “d’autore” e che adesso va sotto il nome di graphic novel o romanzo grafico.
Il fumetto addomesticato
La definizione ha una lunga storia, ma la sua egemonia, in Italia, data meno di dieci anni. Il nome ha nobilitato il fumetto – che in fondo, dovunque nel mondo, è una cosa che nessuno ha mai saputo bene come chiamare, lo si indica per approssimazioni – e gli ha aperto nuovi territori di diffusione: parliamo di enclavi di lettori, non di praterie, ma certamente di lettori attenti. Sarebbe comunque un errore ridurre il romanzo grafico a mera categoria merceologica, così come sarebbe sbagliato considerarlo semplicemente come un fumetto adulto e liberato dai vincoli sopportati in cento anni di Storia. Prima considerazione: è ovvio che ogni forma, in quanto tale abbia i suoi confini e le sue regole, soltanto il non riconoscerle può essere, al limite, dannoso. Seconda: l’assestamento del graphic novel coincide con il progresso della sua accettazione sociale, potremmo dire, con il suo addomesticamento. Cerchiamo di accogliere il concetto di fumetto addomesticato nella maniera più neutra possibile e (quasi) priva d’intenzione polemica. Pensiamo, dunque, al fumetto che decide di farsi addomesticare dal sistema della cultura per essere riconosciuto e amato nelle sue qualità, distinto dal magma dei media di massa, perché convinto del proprio valore… ecco, pensiamo alla volpe del Piccolo Principe. Questo processo di addomesticamento, resistibile ma carico di conseguenze positive, è certo più antico del graphic novel e ogni nazione l’ha vissuto in modo diverso. Ma assumiamo ora che – al netto di pregiudizi atavici ma sempre meno giustificabili e giustificati – la cultura è il fumetto sono adesso amici, almeno quanto possono esserlo un principe e una volpe.
Certo, non tutto il graphic novel è addomesticato e nessuno è addomesticato del tutto, sarebbe però utile studiare con attenzione quali sono le strategie, gli automatismi e i cliché maturati nel corso di questi anni di ascesa (perché ascesa è stata, sia dal punto di vista della quantità che della qualità). Di norma, il graphic novel si adatta e ubbidisce a una consolidata e condivisa idea di romanzo, quella ottocentesca arricchita delle conquiste del modernismo e del postmodernismo: il sistema culturale ha la capacità di trasformare le rivoluzioni in restyling. Il respiro, in effetti, è più spesso quello del racconto medio o lungo, ma la parola romanzo – meglio se nell’inglese novel, nonostante ci siano sfumature di significato differenti – ha un potere evocativo e commerciale decisamente maggiore. Il graphic novel, non meno della narrativa o del cinema contemporanei, si appoggia su meccanismi d’identificazione consolidati, seduce il lettore con la commozione, rassicurandolo della propria immagine affettiva, sociale, culturale o politica. Lo gratifica con una narrazione che rimane univoca anche nell’eventuale accumulo di punti di vista e con un disegno che mescola il linguaggio del fumetto con note, e culturalmente più rassicuranti, tradizioni artistiche. Lo gratifica accogliendone le ansie generazionali e dicendogli: “ti capisco, non sei solo”. Insomma, il graphic novel gratifica, senza bisogno di farti sentire Flash Gordon, ma con ogni mezzo necessario, con le immagini e con le parole e con tutto quello che c’è in mezzo. Questo non è un male in sé, e guai a cedere a una visione ascetica o peggio punitiva dei fumetti. Si legge, si guarda e si ascolta per stare bene, solo che poi non dovremmo fidarci troppo di quelle opere che insistono nel farci sentire intelligenti o “buoni”, che sembrano concepite per giustificarsi e giustificarci. Ed è un fatto che, sempre più spesso, nei fumetti da libreria si può riconoscere l’armamentario delle tecniche di gratificazione applicato con dedizione quasi scientifica. Così si perdono delle possibilità: la volpe accovacciata davanti al fuoco ci tiene compagnia, va bene, ma potrebbe invece guidarci a scoprire i campi, i boschi, le grotte intorno.
Orrore e utopia nell’età dell’autoindulgenza
Il rischio maggiore che corre oggi il fumetto non è, dunque, scomparire, ma diventare innocuo. Con l’innocuità – il fantasma dell’innocenza che il fumetto non ha mai avuto – devono fare i conti anche i più creativi e capaci tra gli editori. Come Coconino Press, custode del romanzo grafico “canonico” e, inevitabilmente, non più l’avanguardia di un tempo, o Bao Publishing, la più facoltosa e dinamica delle case editrici attuali, che, tenendo la barra tra produzione seriale di qualità e graphic novel, aspira a incarnare il mainstream, nel senso ampio e propositivo del termine. Proprio a Bao appartiene il fenomeno editoriale di quest’anno, come del precedente e, presumibilmente, del prossimo. Mescolando ironia diaristica e satira di costume, Zerocalcare ha totalizzato in due anni cifre di vendita inimmaginabili per dei libri a fumetti, e ha saputo rispondere al bisogno di consolazione di migliaia di lettori. È un narratore abile, ha la fluidità del segno e sa usare i tempi comici, ma non sarebbe arrivato dov’è senza la sincerità priva di astuzie con cui riesce a raccontare se stesso e a rispecchiare il proprio tempo, quest’età dell’autoindulgenza in cui si sono accomodate le democrazie occidentali. Ma rispecchiare il proprio tempo è cosa diversa dall’interpretarlo, e il realismo dei fumetti di Zerocalcare è quello di una realtà subita ma di fatto accettata così com’è: la realtà rassicurante della casa, del quartiere, del centro sociale, della cerchia di amici, dei ricordi, dei giochi, dei videogiochi, dei film e dei cartoni animati (amati e condivisi), dei buoni e dei cattivi cristallizzati nei loro ruoli, delle cose che capitano a tutti noi a cui capitano quelle cose, delle cose che abbiamo pensato e provato tutti noi che quelle cose le abbiamo pensate e provate. Se la saggezza coincide con l’autoironia, l’immaginario serve a vestire il reale, a renderlo sopportabile e anche divertente. Non c’è pensiero politico, perché solo la comunità dei valori condivisi ha caratteri e concretezza, al di fuori ci sono sagome, potenzialmente malvagie e sostanzialmente incomprensibili. In Dodici, uscito a fine anno, l’autofiction sfuma nel racconto di genere, mentre l’ideologia della comunità assediata si esalta nella trasparenza metaforica del quartiere Rebibbia invaso dagli zombi. È una strada nuova, ma sembra arrivare nello stesso posto dell’altra, quella di un bisogno di consolazione sinceramente dichiarato e generosamente appagato. Anche, forse soprattutto, quando si affaccia l’ombra dell’angoscia vera, i libri di Zerocalcare sanno tirare su il morale. E poi, arriva sempre il momento che uno ha bisogno di avere al suo fianco un armadillo immaginario, no?
Il fumetto meno innocuo dell’anno è invece Corpicino di Tuono Pettinato, che inizia con una citazione di Fritz Lang, “Ci sono solo due categorie di persone: i cattivi e i molto cattivi. Ma noi siamo giunti a un accordo e chiamiamo buoni i cattivi e cattivi i molto cattivi” e procede, con un certo accanimento, nel negare la possibilità di qualsiasi forma di innocenza. È la storia di un’infanticidio, della tempesta mediatica che ne segue e di un’indagine, più sul senso del male che alla ricerca di un colpevole, che finisce nella desolazione di una periferia in fiamme. Con il suo umorismo delicato, Tuono Pettinato porta il lettore all’inferno e poi ce lo lascia dentro. La trappola può essere mortale, perché all’origine della degradazione etica, Tuono sembra suggerire a tratti una radice ontologica, eppure la complessità della tessitura è tale da pretendere uno sforzo d’interpretazione più profondo. In questa sede basterà invece qualche considerazione generale. Dal segno comico e “tenero” trapela una ricchezza debordante di riferimenti estetici, ma non sono (più) propriamente citazioni e nemmeno una posa per nobilitare il mezzo: completamente assorbiti nello stile dell’autore, sono fatti definitivamente fumetto e nient’altro che momenti necessari del suo fluire. Tutti i “trucchi” narrativi – i climax, le seduzioni sentimentali, il nichilismo di maniera, i processi d’identificazione – vengono disattesi, rimontati, disinnescati e trasformati in qualcosa di nuovo che mette continuamente alla prova. Non è solo il fatto di sapere muovere, in contrappunto, la satira, lo sgomento e la commozione nello spazio di una pagina – saremmo allora nel campo della mera abilità – ma quello che qui ci interessa è il coraggio, l’approccio radicale a una materia sensibile, la volontà di tenere il lettore sveglio, di negargli conferme e dargli la possibilità di interrogarsi sulla realtà, a cominciare da se stesso. L’editore è GRRRzetic, che due anni fa aveva pubblicato Trama di Ratigher, compagno di gruppo di Tuono Pettinato: una storia sulla deriva incontrollata del desiderio che era, come Corpicino, il risultato di una consapevolezza unitamente formale e politica. GRRRzetic è una casa editrice molto piccola che si permette un grande margine di libertà, nella cura dei libri come nella linea editoriale, una specie d’incubatore del nuovo fumetto al confine col sottobosco dell’autoproduzione. Sullo stesso confine c’è ora Canicola, un tempo collettivo ora casa editrice, e più avanti, a vista, c’è sempre stata Coconino Press. Nonostante abbia perso la sua centralità, guardare nella direzione della casa editrice di Igort aiuta a farsi un’idea di cosa stia succedendo e a scoprire molti libri che vale la pena di leggere. Tra questi il nuovo Gipi, unastoria, che arriva dopo cinque anni e quella sorta di terminale dichiarazione di disagio umano e creativo che era LMVDM. Oppure la collana che celebra il trentennale di Valvoline, mentre il catalogo delle traduzioni riporta diversi bei libri, ma rispecchia anche i segnali di stasi della forma graphic novel di cui si scriveva sopra. Può essere utile sottolineare che il più interessante tra i libri tradotti quest’anno da Coconino, Golem Stories di Sammy Harkham, non è, nella maniera più programmatica e consapevole possibile, un romanzo grafico.
Ad aprile è uscito, attesissimo, L’intervista, di Manuele Fior, che seguiva il successo di 5000 chilometri al secondo. Se Corpicino è il coraggio di riconoscere, e poi guardare fisso, il male, L’intervista rappresenta il coraggio d’immaginare l’utopia, vale a dire un cambiamento vero, non il mero adattamento alla realtà che tanto spesso viene fatto passare per epica di resistenza o romanzo di formazione. Utopia muta come i triangoli extraterrestri che appaiono nel cielo del Friuli futuro, utopia ironica e malinconica, ma comunque utopia, e raccontata con un segno tanto sicuro da oscillare dal sintetico al fotografico, far vibrare ogni grigio di un’emozione diversa, tentare nuovi realismi. È stato accolto bene, come si usa, ma se ne sarebbe dovuto parlare di più e più a fondo, bisognerebbe sforzarsi di scrivere dei libri importanti, quando escono, e di capirci qualcosa. Forse il bianco e nero, per quanto espressivamente forse superiore, seduce meno delle meraviglie coloristiche del libro precedente, forse la voglia e la capacità di Fior di cambiare a ogni libro regole e intenti del suo raccontare risulta spiazzante. Eppure, anche nelle sue impasse e prendendosi i suoi rischi, è un libro che va nella direzione in cui dovrebbe andare il romanzo grafico: sempre diversa. Di norma accade il contrario, qualche mese prima, per fare un esempio, la stessa Coconino aveva pubblicato ABC di Ausonia, primo graphic novel canonico di uno sperimentatore grafico e narrativo con il gusto per lo spettacolo e la ricerca sul linguaggio. In ABC ci sono buone idee e tutta la capacità di organizzarle esattamente come ci si aspetta: la protagonista adolescente che attraversa la sua crisi di crescita, il necessario confronto con la morte, la brillante gestione dell’elemento fantastico, la descrizione affettiva della provincia, uno stile grafico rassicurante… detta così sembra che non ci sia niente di male, ed è appunto questo il problema. I protagonisti del romanzo grafico canonico, i buoni come i cattivi, seguono degli schemi, la loro realtà sembra la nostra, ma ne è piuttosto la replica condiscendente e immobile. Mi rendo conto che alcune di queste considerazioni potrebbero essere applicate anche, per dire, alla letteratura, ma il fumetto ha una storia più leggera e diversa. Nel mondo delle storie potrebbe portare idee e tattiche nuove, invadere lo spazio altrui, lo ha già fatto e dovrebbe continuare a farlo.
Per un fumetto selvatico
La vitalità portata dal graphic novel negli ultimi decenni è anche il frutto dell’aver innestato nella forma romanzo strutture ed elementi peculiari del fumetto. Consideriamo, ad esempio, Il grande male di David B., classico romanzo grafico ora disponibile in un unico volume, ma inizialmente pubblicato in sei albi di grande formato nell’arco di sette anni. La natura seriale, scandita nel tempo, ha influito profondamente sull’opera arricchendone la forma e i contenuti, incorporando in ogni capitolo le reazioni che familiari dell’autore, protagonisti della storia, avevano di fronte a quelli già pubblicati e la crescita dell’autore stesso. Oppure pensiamo a quanto siano tutti interni alla tradizione del fumetto i mezzi che Art Spiegelman ha usato per portare così a fondo il suo discorso sulla memoria e l’identità.
L’impressione è che ora, lo spazio di libertà del fumetto, il luogo dove possa sviluppare le sue potenzialità in maniera indefinitamente nuova, non possa più restare confinato, o peggio assimilato, all’interno del romanzo grafico. Alla crisi dell’editoria – fenomeno non reversibile che porterà a mutazioni profonde del sistema culturale – i fumetti rispondono con l’istintivo ricorso all’autoproduzione. Negli anni Duemila, Canicola e i Super Amici sono state le entità più feconde di risultati e conseguenze, ma è l’insieme che colpisce. La varietà, la cura, l’intelligenza progettuale e la libertà creativa sono cresciute negli anni, attraverso uno scambio che, grazie, alla rete, è divenuto ramificato e globale. Una nuova generazione pubblica le proprie cose in un singolare equilibrio di passione e distacco, è il sottobosco del fumetto selvatico, che continua inopinatamente a pullulare di vita. Qualche nome per orientarsi: Delebile e Teiera tra i collettivi, mentre tra gli autori già sbocciati, e non sono pochi, se ne possono citare almeno tre. Silvia Rocchi, dalla personalità talmente forte da imporre la propria poetica sulla linea di un progetto editoriale rigidamente definito come BeccoGiallo (editore di Ci sono notti che non accadono mai, 2012, e L’esistenza delle formiche, 2013); Nicolò Pellizzon, che libera il fantastico dalle parentesi tra cui lo aveva chiuso il postmoderno ricaricandolo di perturbante concretezza emotiva (Lezioni di anatomia, GRRRzetic, 2012); e infine il nitore spietato e denso dei racconti di Bianca Bagnarelli, January the First, dodici pagine sulla rivista lettone “Ku?!”, racconta più sul presente che intere collane di romanzi, grafici o meno. C’è dunque un fumetto agile, che compie le sue rapide e quasi invisibili escursioni fuori dalla nicchia inventando traiettorie che prima non esistevano. Dovremmo allora chiederci a chi si rivolge e a chi, effettivamente, arriva questo fumetto. Ai molto attenti, condizione necessaria nell’incontrollabile proliferazione delle immagini, delle storie e delle merci.