La 93ª edizione dei Premi Oscar ha l’ingrato compito di celebrare un’annata cinematografica flagellata dalla pandemia, ma lo spostamento a data indefinita delle uscite di molti film attesi ha creato nuove opportunità per chi forse non avrebbe trovato spazio in un anno normale. Per la prima volta, ci sono due donne candidate alla miglior regia. Per la prima volta, compete un film che ha un protagonista sordocieco (Feeling Through tra i cortometraggi). Soprattutto, per la prima volta è candidato un team di soli produttori neri: Shaka King (anche regista), Charles D. King e Ryan Coogler per Judas and the Black Messiah. È un traguardo inseguito da decenni: già da tempo vengono apprezzate e premiate storie sui neri, poi storie raccontate dai neri, adesso anche storie che i neri scelgono autonomamente come realizzare. Questo lento percorso è stato accelerato da quanto accadde la mattina del 15 gennaio 2015, quando furono annunciate le candidature agli Oscar di quell’anno e balzò agli occhi l’assenza di attori non bianchi: April Reign ideò l’hashtag #OscarsSoWhite il cui impatto culturale fu dirompente, anche se con effetti pratici né immediati né definitivi. Sui social media e non solo, si sviluppò un vivace dibattito sull’omologazione del più celebre premio cinematografico del mondo, incapace di dare visibilità e rappresentanza ai neri come neppure alle altre etnie minoritarie, alle donne, ai portatori di disabilità. Dopo lo sconcerto per i 40 attori bianchi candidati nel 2015 e 2016, accadde il citato trionfo inatteso di Moonlight nel 2017 e il record di 19 neri premiati in svariate categorie nel 2019, per poi tornare alle vecchie polemiche nell’edizione 2020, con pochi neri candidati ma anche la sorprendente vittoria del coreano Parasite, unico tra i candidati a miglior film a non avere un cast preminentemente bianco. L’ultima annata invece ha offerto una notevole quantità di opere a tema black che difficilmente potevano essere ignorate in blocco. Se a risaltare tra tutti, almeno agli Oscar, è stato Judas and the Black Messiah, è stato anche per la strategia distributiva: negli Stati Uniti è uscito a febbraio, puntando su una campagna promozionale più breve ed efficace di tanti altri concorrenti. La combinazione dell’onda lunga di #OscarsSoWhite, della pandemia che ha sparigliato le carte tra le case di produzione, della finestra di eleggibilità agli Oscar allungata fino a inizio 2021, ha probabilmente dato al film di Shaka King la giusta spinta per le sei candidature ottenute, tra cui quella per miglior film.
Le biografie sono uno dei generi prediletti dai giurati degli Oscar. Judas and the Black Messiah però sfugge ai meccanismi agiografici propri dei film tratti da storie vere concepiti a tavolino per vincere i premi: è un thriller a sfondo politico che già dal titolo fa venire in mente il tradimento di Giuda nei confronti del suo Messia. Che era nero e si chiamava Fred Hampton, capo della sezione di Chicago del partito delle Pantere Nere sul finire degli anni ’60 nonché vice a livello nazionale. Chiunque abbia già visto Il Processo ai Chicago 7, in cui è una presenza secondaria, conosce a grandi linee anche il suo destino; Aaron Sorkin però si è concesso delle licenze artistiche, cambiando le date e la descrizione di alcuni fatti allo scopo di rendere più spettacolare la linea narrativa di cui è protagonista Bobby Seale, leader delle Pantere Nere e ottavo imputato al processo. La sceneggiatura del film di King, pur adottando la struttura tesa di un crime movie e praticando alcune semplificazioni necessarie in un film corale già brulicante di personaggi, prova a far luce sulla vita di Fred Hampton in maniera accurata, sfruttando le testimonianze e i ricordi di chi lo ha conosciuto, in particolare la sua compagna Deborah Johnson (che si fa chiamare Akua Njeri da quando ha rinunciato a quello che gli attivisti neri considerano il loro “nome da schiavi”).
Poco più che ventenne, Hampton si dedicava anima e corpo alle attività del partito, educava i nuovi compagni, praticava una riuscita attività di proselitismo, cercava soluzioni concrete per risolvere i problemi economici e sociali che affliggevano in particolare la sua comunità; un attivismo efficace e coinvolgente che non andava giù a J. Edgar Hoover, capo dell’FBI che considerava le Pantere Nere una minaccia alla sicurezza nazionale. Le sequenze che riguardano direttamente le attività dell’FBI non possono essere altrettanto documentate, eppure risultano altamente credibili alla luce di quanto adesso sappiamo sulle attività illegali di controspionaggio praticate per decenni dall’agenzia governativa: furono loro a decidere di far sorvegliare Hampton da un infiltrato. Un delinquentello locale, William O’Neal, fu arrestato e poi, in cambio della libertà, invitato a entrare nel partito sotto copertura: un novello Giuda, spinto a diventare discepolo del giovane Messia Nero senza far capire le proprie reali intenzioni, per poi riferire agli agenti informazioni preziose di prima mano. Da qui in poi l’incontro tra i due personaggi si sviluppa come un thriller: O’Neal, inizialmente riluttante, assorbì le idee politiche del partito, fece carriera al suo interno, ne condivise la vita comunitaria integrandosi perfettamente; ammirava Hampton ma era tormentato dalla consapevolezza di essere una spia. Mentre Hampton si impegnava affinché tra la sua gente si sviluppasse una coscienza di classe, la vita di O’Neal era governata dall’agente bianco che lo aveva reclutato, Roy Mitchell. Forse convinti di essere padroni del proprio destino, i membri delle Pantere Nere erano inconsapevoli vittime di una messinscena prodotta dai bianchi.
Se Hampton non è diventato un nome celebre del movimento dei diritti civili è solo perché non avuto abbastanza tempo a disposizione. Guidando le Pantere Nere in una città multietnica ma ancora a prevalenza bianca, in un’epoca di tensioni razziali violentissime, emerse come leader politico carismatico e lungimirante. Le sue parole erano incendiarie ma la sua azione politica di stampo marxista voleva essere pragmatica ed efficace: individuato un nemico nel potere economico e politico dei bianchi, individuata la violenza delle forze dell’ordine come il braccio armato di quel potere da abbattere, cercò di riunire tutte le forze che si opponevano a quel sistema senza essere condizionato, nel suo reclutamento, dal colore della pelle o dalla provenienza geografica dei possibili alleati. L’intuizione della sua Coalizione Arcobaleno si basava sulla constatazione che per cambiare le cose, più che essere pronti alla lotta armata, bisogna essere una maggioranza; in un paese davvero democratico, per ottenere la maggioranza basta essere almeno uno più del proprio avversario. Questa sì, una vera rivoluzione possibile, che non richiedeva necessariamente uno scontro violento col nemico.
La sequenza della formazione dell’alleanza con la Young Patriots Organization, di cui facevano parte bianchi originari degli stati del sud, è un ottimo esempio dei compromessi su cui Hampton costruì intelligentemente la sua azione politica: forte delle sue proposte, non si fa intimorire dalle bandiere confederate in bella vista, pur percepite come retaggio dell’epoca della schiavitù da ogni nero. Così un’organizzazione di bianchi sudisti di estrema sinistra e un partito rivoluzionario socialista di neri trovarono una piattaforma comune nella lotta alla povertà, che a Chicago non aveva colore. Gli obiettivi comuni di tutti i movimenti coinvolti da Hampton nella sua coalizione multietnica, antirazzista e marxista erano lo sviluppo di un pronto soccorso sociale e la ferma opposizione alla violenza ingiustificata della polizia: le Pantere Nere giravano armate per autodifesa ma non si comportavano come una banda di criminali di strada. Hampton, condottiero di tutti i poveri ed emarginati e non più solo della minoranza nera, aveva un acume politico quasi più pericoloso del rischio di un’insurrezione armata che l’FBI avrebbe potuto gestire più facilmente; affrontarne l’eterogeneo talento oratorio invece era molto più scivoloso. Per interpretare Hampton, Daniel Kaluuya ha certamente attinto ai filmati d’archivio, soprattutto i molti discorsi ripresi nel documentario del 1971 The murder of Fred Hampton: quando serve sa modulare il volume della voce anche senza microfono, come pure coinvolgere la folla con energia. Cambia tono, cadenza, energia fisica, a seconda degli interlocutori, proprio come sanno fare i grandi oratori. Quando fa attività didattica spiegando le sue idee politiche, quando incontra le gang di neri che si oppongono al suo partito circondato dalle armi e dalla diffidenza come se partecipasse a un summit di guerra, quando arringa la folla degli affollati comizi che sono a metà tra un sermone e un concerto, esterna sempre le stesse idee ma si esprime in una modalità ogni volta differente, riuscendo a ottenere il massimo effetto possibile in ogni diversa situazione.
William O’Neal era l’opposto di Fred Hampton anche caratterialmente. Subito prima delle immagini d’epoca che introducono il contesto storico durante i titoli di testa, c’è il primo momento, cronologicamente successivo agli eventi del film, in cui lo vediamo impersonato da LaKeith Stenfield: la ricostruzione di un’intervista realmente concessa al programma Eyes on the Prize II, serie di documentari andati in onda su PBS nel 1990 considerati una delle più preziose testimonianze sul Movimento per i diritti civili degli afroamericani. Il video integrale dell’intervista registrata il 13 aprile 1989, digitalizzato e restaurato dalla Washington University Libraries, propone la versione data da O’Neal stesso sul suo ruolo nella vicenda di Hampton. A Stenfield non sarà sfuggito il momento in cui l’intervistatrice chiede a O’Neal di guardarla: l’uomo ha uno sguardo sfuggente rivolto troppo spesso verso il nulla, come se non avesse il coraggio di affrontare quella conversazione. Nell’interpretazione di Stenfield, l’infiltrato ha lo stesso tipo di atteggiamento: tiene lo sguardo basso, sorride a fatica, talvolta cerca di nascondere il disagio con reazioni esagerate. Entra nelle Pantere Nere credendo si tratti di una gang di criminali, poi accoglie le idee di Fred Hampton ma sapendo di essere già compromesso: tanto Hampton è sicuro di sé, delle sue opinioni e della maniera in cui portarle avanti, tanto O’Neal è tormentato dalla paura di essere scoperto, dal timore di non fare la cosa giusta, dalla consapevolezza sempre più evidente che le sue soffiate potrebbero avere conseguenze nefaste.
Se O’Neal è riuscito a mentire talmente bene da non farsi scoprire dalle Pantere Nere, è possibile sia stato capace di mentire anche durante l’intervista alla PBS. La sua versione dei fatti non è del tutto coincidente con quella che King ha deciso di raccontare: in parte si alleggerisce la coscienza, ma ricordare il suo operato gli provoca un evidente tormento, che Stenfield ha voluto rendere ancora più manifesto. Colpisce la sua ferma difesa dell’operato dell’FBI contrapposto, nella sua ricostruzione, ai crimini che lui attribuisce invece alla sola polizia di Chicago; un punto di vista autoassolutorio che il film rigetta in toto. O’Neal era vittima di una narrazione di cui ha fatto parte ma che non ha mai controllato, subendo invece la pressione psicologica dell’agente Mitchell a sua volta genuinamente convinto che Pantere Nere e Ku Klux Klan fossero due facce della stessa sporca medaglia. Accusare le Pantere Nere di qualcosa di grave, sebbene falso, era la giustificazione preventiva per le reazioni da mettere in atto: chi ha il potere di cambiare le premesse può anche dare in pasto all’opinione pubblica la risposta che preferisce. Ma Hampton era ben consapevole anche di questo problema. La clinica gratuita gestita dalle Pantere Nere venne intitolata a un ex membro del partito, del quale si voleva restituire un’immagine diversa rispetto a quella di pericoloso delinquente cucitagli addosso dalla polizia di Chicago che lo aveva ucciso. Associare il suo nome non più a un articolo di cronaca nera ma a un’istituzione votata al bene della comunità era un modo di cambiare a proprio favore la narrazione degli eventi; non accettare più di essere comparse in un copione scritto e diretto dai bianchi, ma raccontare finalmente la propria versione della storia senza più complessi di inferiorità. Proprio come hanno voluto fare i produttori di questo film.
Judas and the Black Messiah è un successo di critica e ha già un posto di rilevo nella storia degli Oscar, sebbene gli incassi nel mercato nordamericano siano limitati, come per tutti gli altri film distribuiti nei mesi scorsi; l’uscita in contemporanea sulla piattaforma HBO Max (in Italia è arrivato direttamente on demand il 9 aprile) rende però impossibile calcolare il numero reale di spettatori. Un’insperata affermazione agli Oscar potrebbe migliorare il destino commerciale del film, oltre a garantirne un prestigio duraturo, ma sembra che la strada per le crescenti ambizioni delle produzioni nere all’interno delle major hollywoodiane sia comunque tracciata. Per Ryan Coogler non è neppure più una novità. Prima di essere produttore di questo film, è stato regista dell’acclamato Black Panther, inteso chiaramente come il supereroe africano della Marvel e non il partito politico. Il grande merito di Coogler, come regista e poi come produttore, è aver trovato una chiave per raccontare storie con protagonisti neri che però fossero apprezzabili e viste da un pubblico ben più eterogeneo: un pubblico trasversale che si riconosca in temi universali, sebbene fortemente politicizzati, raccontati in maniera spettacolare. Un cinema prodotto da una minoranza, con l’ambizione esplicita e rivoluzionaria di coinvolgere una maggioranza. In fondo, è la stessa idea che Fred Hampton applicava alla politica.