“Perché il conflitto continua? É semplice: per una questione di potere. Se ai Talebani se ne concedesse una parte, se fossero coinvolti nel governo, i problemi finirebbero”. Un metro e settanta, capelli radi e ben pettinati, un abito bianco appena stirato, Wahidullah Danish è un giovane attivista e collaboratore del Civil Society Development Center di Jalalabad, una delle organizzazioni della società civile organizzata afghana, proliferate con l’arrivo dei soldi degli stranieri. Studi universitari alle spalle, attivo nella comunità, ha le idee chiare: il conflitto afghano è un problema innanzitutto politico. E la politica ha a che fare con il potere: chi ce l’ha lo difende, chi non ce l’ha lo reclama. Altrove lo si fa nell’agone elettorale, nelle aule parlamentari, con il dibattito delle idee. Qui, anche con le armi, sostiene Danish. Affinché tacciano una volta per tutte, il negoziato è l’unica via. “La guerra ha provocato fin troppi morti. Soprattutto tra i civili e soprattutto qui”, nelle aree turbolente che attraversano il confine tra Afghanistan e Pakistan.
Per quanti come Danish vivono a Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, quel confine vale solo sulla carta. Nelle botteghe del bazar centrale di questa città caotica e tropicale, rivolta verso il subcontinente indiano, la valuta di Islamabad è più diffusa degli afghanì di Kabul; ogni giorno, fagotto sulla spalla, soldi nascosti e pakul in testa, sono circa 60.000 gli afghani che varcano il confine di Torkham; centinaia di migliaia i visti multipli rilasciati svogliatamente dai consolati pakistani in Afghanistan, ogni anno. Molti, hanno famiglie e storie personali al di qua e al di là della Durand Line, la linea di demarcazione tracciata a tavolino nel 1893 da Henry Mortimer Durand (1850-1924), il segretario degli Esteri nell’India britannica che negoziò i confini tra il Raj britannico, di cui faceva allora parte anche l’attuale Pakistan, e l’Afghanistan, allora governato dall’emiro Abdur Rahman Khan.
Per attraversare il confine e visitare parenti e amici, fare affari, tessere relazioni, molti arrivano da Kabul puntando al leggendario Khyber Pass, lungo una strada che scende per una serie di tornanti mozzafiato, si snoda come un serpente per poi aprirsi su pianure rigogliose con i buoi nei campi, i contadini al lavoro e i bambini a tuffarsi nel fiume. Su questa strada, nel novembre del 1842 un giovane ufficiale dell’esercito dell’India britannica, John Nicholson, trovò i resti di buona parte dei sedicimila soldati che qualche mese prima, nella ritirata da Kabul degli inglesi, erano stati attaccati dai membri delle tribù locali. Armati di fucili di precisione a canna lunga, i jezail, e di spade ricurve, le talwar, gli afghani ne fecero sopravvivere solo uno, di quei sedicimila, narra la leggenda raccontata anche da Kypling.
Su questa stessa strada la Nato e gli americani oggi si giocano molto. È da qui che dovranno ritirare (e già stanno ritirando) truppe, mezzi, container. Trasportarli via aerea costa di più. Verranno trasferiti per l’80% su strada. Seguendo due direttrici: da Hairatan, poco sopra la città settentrionale di Mazar-e-Sharif, in Uzbekistan e poi verso l’Europa orientale, lungo la rotta nord. Dal passo di Torkham verso il porto di Karachi, sulla rotta sud. Quest’ultima costa tre volte di meno, ma è molto più insicura: per difendere il passaggio dei mezzi dagli attacchi dei gruppi anti-governativi, gli Stati Uniti si affidano a una costosissima rete di ditte di sicurezza. Un mucchio di soldi, dollari sonanti, che finiscono per rafforzare direttamente o indirettamente i Talebani e i loro sodali. Il ritiro dovrà essere completato entro la fine del 2014. Per quella data, le truppe straniere (quasi tutte) se ne saranno andate. Resteranno i Talebani. Più forti e ricchi di prima. Anche grazie ai soldi di chi è venuto qui per sconfiggerli. Senza riuscirci.
Fare i conti con i barbuti islamisti
A dodici anni dall’avvio dell’operazione militare voluta dagli Stati Uniti, i Talebani restano un attore fondamentale del panorama politico, economico e militare afghano. Per Antonio Giustozzi, tra i massimi esperti di Afghanistan, incontrato molte volte a Kabul, rappresentano “l’unico, vero partito politico di opposizione”. Gli afghani sanno che con i Talebani bisognerà fare i conti. Ecco perché il negoziato è visto come l’unica opzione plausibile, dopo il fallimento conclamato di quella militare. A Qader Rahimi, responsabile per l’area occidentale della Commissione indipendente per i diritti umani, l’idea dell’occupazione militare è sempre sembrata insensata: “le armi non risolvono i problemi, li creano soltanto. Non ho mai lasciato questo paese, neanche nei periodi più terribili, e in trent’anni non ho mai visto risolvere un problema con le armi”. Inchiodato in un abito gessato con cravatta colorata, baffi sottili e atteggiamento compito, per Rahimi il negoziato è ormai indispensabile. Come lui la pensano in molti. Soltanto una minoranza crede che la soluzione politica sia un cedimento ai gruppi antigovernativi. Tutti si augurano un processo di pace. Il difficile, però, è come realizzarlo. “Finora nessuno sembra averne valutato le implicazioni. Se io ora la picchiassi e poi le dicessi, ‘bene, ora vogliamo diventare amici?’, cosa risponderebbe?”, chiede retoricamente Rahimi nel suo ufficio di Herat.
Più a est, a Bamiyan, capoluogo dell’omonima provincia centrale a prevalenza hazara, una posizione simile è quella di Habiba Sarabi, la governatrice, l’unica a ricoprire questo ruolo in tutto il paese. Mi accoglie in una palazzina bassa dai colori pastello, nella parte alta e nuova di questa cittadina resa famosa per i suoi Buddha: “Le armi non sono l’unica soluzione. Alla fine di ogni guerra ci deve essere la pace, che si ottiene solo con un negoziato. Ma va realizzato seguendo una strategia appropriata, perché il modo in cui si costruisce è essenziale”: possono derivarne esiti fruttuosi quanto disastrosi. I metodi adottati finora dal governo afghano sono considerati nel migliore dei casi inappropriati, nel peggiore controproducenti. Quel che manca, dice Sarabi, è la trasparenza e la chiarezza su chi debba parlare con chi, e soprattutto per quale scopo. Su questo, nessuno sembra ancora avere le idee chiare.
Nel marzo 2012 il think tank International Crisis Group ha pubblicato il rapporto Talking about Talks: Toward a Political Settlement in Afghanistan. Gli autori criticano l’approccio da “mercato-bazar” adottato dalla comunità internazionale. Il “pasticciaccio brutto del Qatar” sembra confermare le loro valutazioni sulla confusione negoziale. Dopo quasi due anni di tentativi abortiti, incontri segreti, discussioni tra sherpa, lo scorso giugno è stato inaugurato in pompa magna l’ufficio politico dei Talebani a Doha. Fortemente voluto dagli americani, dai tedeschi e dalla monarchia qatariota, è stato presentato dai Talebani come sede dell’Emirato islamico d’Afghanistan, una sorta di governo in esilio con tanto di bandiera sventolante dei “turbanti neri”. La cosa ha fatto infuriare Karzai, che ha congelato le attività dell’Alto consiglio di pace, l’organo da lui istituito nel settembre 2010 proprio per dialogare con i Talebani.
Politico intelligente, Karzai ha deciso di interrompere anche i negoziati sull’accordo bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti, l’alleato recalcitrante, con cui da anni c’è un rapporto apertamente conflittuale. Da quell’accordo dipende il futuro della presenza americana in Afghanistan e nella regione. Quanti e quali soldati, con quali compiti, sotto quale status. Gli americani chiedono una firma in gran fretta. Karzai tergiversa, alla maniera locale, per guadagnare terreno: dice di voler aspettare i risultati della Loya Jirga (il gran consiglio nazionale) e nel frattempo apre ulteriormente i canali con i paesi non-Nato dell’area (in primis Cina e India). Rispetto a giugno, oggi i toni sono più distesi, ma rimangono le diverse prospettive di Washington e Kabul sui termini dell’accordo di sicurezza. E rimane incerto come procedere nel negoziato con i Talebani. E per fare cosa.
I Talebani di nuovo al potere?
Anche Wahidullah Danish, il nostro attivista di Jalalabad, ammette che la questione è delicata: “Il governo deve sforzarsi di ottenere la pace, certo. Se questo vuol dire condividere il potere con i Talebani, valutare le loro richieste, deve essere disposto a farlo. Ma senza contraddire le nostre leggi. Il problema è sapere quali diritti chiedono i Talebani. Sono gli stessi che chiedo io e la maggior parte degli afghani?”. Formulata in un altro modo, la domanda recita così: il negoziato deve puntare a un futuro governo di “ampia coalizione”, che includa anche i barbuti islamisti? I seguaci del mullah Omar potrebbero perfino tornare al potere, si pensa qui, se questo servisse a porre fine al conflitto. Ma a precise condizioni. “Non avrei problemi ad accettare degli esponenti talebani al governo, se riconoscessero apertamente la legittimità e la validità del quadro legale afghano, la Costituzione”, spiega Yor Mohammad Bakhiri, docente all’università privata Ibn Sina di Mazar-e-Sharif, la città che secondo i piani del governo e della comunità internazionale dovrà diventare un nuovo hub dei commerci e dei trasporti in Asia centrale.
Un discorso simile vale anche per l’energica coordinatrice del Civil Society and Human Rights Network per l’area occidentale, Aziza Khairandish, incontrata a Herat: “Nel governo e nel parlamento già ora c’è gente con una mentalità retrograda ed estremista, penso ai rappresentanti del partito Hezb-e-Islami. I Talebani sono tanto diversi? Se decidono di rispettare la Costituzione e i diritti delle donne non ci saranno problemi”. Ma su questo la chiarezza è indispensabile: “se così non sarà, è inaccettabile che entrino a far parte di un futuro governo o che ci sia un’amnistia che condoni i loro reati”. È la posizione del governo-Karzai. I Talebani possono rientrare nel sistema politico, perfino partecipare alle elezioni presidenziali del prossimo 5 aprile, se soddisfano alcuni criteri, inderogabili: riconoscere l’autorità del governo e la legittimità dell’attuale architettura istituzionale; rinunciare alla lotta armata e ai legami con gli attori esterni; dichiarare il rispetto della Costituzione.
Difficile che i Talebani accettino, dicono in molti. E nel caso accettassero, difficile che mantengano le promesse. Dei Talebani non ci si fida più. Sono soprattutto le donne a non fidarsi. Temono che i loro diritti (i pochi conquistati in questi anni) possano essere sacrificati per un accordo politico tra soli uomini. “In linea di principio sono d’accordo nel dialogo, ma mi chiedo che tipo di dialogo si possa avere con gente che uccide i civili in un modo così atroce. Neanche gli animali fanno cose simili”, obietta Lailuma Sediqi quando gli parlo di riconciliazione. Bassa e tarchiata, fatica a trattenere la rabbia e il sospetto per quelli che si dichiarano “custodi della legge coranica”. È una donna coraggiosa. Il fatto stesso di essere a capo del dipartimento per gli affari femminili a Farah, nella “calda” provincia sud-occidentale, la rende un obiettivo legittimo agli occhi dei turbanti neri. Se le sparassero alla schiena o le facessero saltare la macchina, non se ne sorprenderebbe nessuno.
Non rischia niente di simile Farzana Arsa. Alta e decisa, giovane giornalista della tv privata Metro e studentessa universitaria, abita nella ben più liberale Mazar-e-Sharif. Ma teme comunque un accordo. “I Talebani hanno fatto esplodere delle bombe anche il primo giorno di Eid, la festa islamica. Come possiamo fidarci? Sarebbe una perdita di tempo”. Se ci si sposta da Mazar-e-Sharif di 300 km verso ovest, con quattro ore di macchina e la progressiva immersione nel feudo del generale Dostum, si arriva a Maimana, a due passi dal Turkmenistan. Anche qui c’è chi la pensa come Farzana Arsa. Bilgees Attaye dirige la Developing and Education Organization for Women, ed è preoccupata. “Non c’è alcuna garanzia che una volta ‘presi a bordo’ i Talebani non ripetano ciò che già hanno fatto in passato. Meglio non rischiare”. Ancora più categorica è Enjila Surkhabi, che per la stessa organizzazione segue le attività di genere: “anche se i Talebani dovessero giurare mille volte di interrompere le attività militari, non dovremmo fidarci. Come potremmo, se compiono attentati suicidi contro i civili?”.
Tiriamo le somme: gli afghani dicono che la soluzione militare non funziona; auspicano un processo di pace ma criticano quello portato avanti dalla comunità internazionale e dal governo Karzai. E aggiungono almeno altre due cose importanti.
La chiave regionale e la chiave interna
La prima: se si punta lo sguardo solo sugli attori afghani, sul governo e sui gruppi antigovernativi, si rischia di perdere di vista la natura regionale – non nazionale – del conflitto. Secondo questa lettura, sarebbe in corso un nuovo “grande gioco”, simile a quello dell’Ottocento tra l’Impero russo e la Corona britannica per il controllo dell’Asia centrale. Il terreno della partita, l’Afghanistan. La causa, la collocazione strategica del paese. Le conseguenze, la destabilizzazione, gli interessi conflittuali, il tentativo di attori diversi di favorire i propri interessi. Sul banco degli imputati, il primo nome è sempre lo stesso: il Pakistan, il paese dei puri. “Per ottenere la pace non c’è bisogno di aprire un ufficio politico dei Talebani in Qatar: basta parlare con i loro referenti in Pakistan”, sostiene con decisione Idrees Zaman, brillante direttore del centro di ricerca di Kabul Cooperation for Peace and Unity, che coniuga attività di analisi a progetti di inclusione sociale. “I Talebani non decidono da sé. Questo è il punto”, ribadisce idealmente Ahmad Qureishi, chief reporter per la provincia di Herat dell’agenzia giornalistica Pajhwok, quella consultata dai corrispondenti stranieri. Per lui, “sono i servizi segreti pakistani che gli impediscono di accettare un piano di pace”. Ma i sospetti investono anche le truppe occidentali: “Tra tutti i grandi giocatori della partita, nessuno gioca onestamente. La comunità internazionale non fa pressioni sul Pakistan, il Pakistan fa il doppio gioco, il governo Karzai include anche esponenti dell’opposizione dell’Hezb-e-Islami, il partito di Hekmatyar che ha un’ala politica e un’ala militare. In molti hanno interesse a proseguire la guerra”, spiega meglio Raz Mohammad Dalili, direttore dell’organizzazione non governativa Sanayee Development. Da anni è abituato a sentir parlare di piani di reintegro e riconciliazione, a veder consegnare armi e munizioni, ad assistere a cerimonie infinitamente lunghe riprese dalle telecamere. Ormai crede che sia tuta una farsa, e che il processo di pace “assomigli a certe soap-opera indiane”.
Per Ali Erfan, direttore di Radio Bamiyan, “la Nato avrebbe la forza necessaria per sconfiggere i Talebani. Non lo fa perché in questo modo può controllare l’Asia centrale”. Se gli americani volessero la pace, la potrebbero ottenere. Questo pensa Ali Erfan e questo pensano in molti. Tra loro c’è Baz Mohammad Abid, giornalista di Radio Mashaal, una costola di Radio Free Europe che trasmette nell’area di confine tra Afghanistan e Pakistan. Mashaal è un ometto piccolo e mingherlino, con la pelle scura e un ciuffetto di capelli sempre di traverso. Autore di reportage radiofonici sulla cultura popolare e letteraria delle aree pashtun su entrambi i lati della Durand Line, crede che agli americani non convenga la pace. “Vogliono rimanere qui e contrastare l’espansione economica e politica cinese”, mi dice nell’accogliente sede di Mediothek, un’associazione che promuove il pluralismo dei media e i percorsi di pace, dove ogni venerdì, qui a Jalalabad, si riuniscono i poeti locali a recitare in pubblico i loro versi. Sher Alam Amlawal, docente di scienze politiche all’università privata “Aryana” di Jalalabad, è un notabile della città. Tutti lo conoscono e lo rispettano. Pensa che “se gli Stati Uniti ritenessero utile un accordo con il mullah Omar, lo farebbero oggi stesso. Ristabilirebbero perfino un Emirato islamico!”. Per ottenere una pace di lungo periodo, pensa il professor Amlawal, che mentre parla sgranocchia mandorle e beve tè rosso, “c’è bisogno che gli americani negozino direttamente con i pakistani”. Karzai non sarebbe d’accordo. Ma per gli afghani dopotutto questo conta poco. Quel che conta è ritornare a vivere in pace.
Tutti la vogliono (tranne quelli che lucrano sulla guerra). Ma tutti hanno poca fiducia di ottenerla in tempi brevi. “Perlomeno nei prossimi mesi, non mi faccio illusioni. Quel che posso verosimilmente aspettarmi è un cessate il fuoco”, sostiene per esempio Aziz Rafiee, il direttore dell’Afghan Civil Society Forum Organization, uno dei network più importanti e rispettati della “nuova” società civile. Rafiee è il volto noto della società civile. Il personaggio con cui parlano i diplomatici e gli expat, gli espatriati delle Ong internazionali. Quello che viene intervistato dalle tv, sa parlare agli studenti universitari e viene invitato all’estero. Immaginiamo pure che i negoziati portino risultati inaspettati, ipotizza. “Rimarrebbero comunque diversi nodi irrisolti”. Perché una pace politica, frutto di negoziati diplomatici, è una condizione necessaria ma non sufficiente per stabilizzare il paese. Ed è questa la seconda questione che con più frequenza sollevano gli afghani: il paese paga gli effetti di trent’anni di guerra, durante i quali le comunità, i gruppi etnici, i singoli villaggi si sono combattuti aspramente. Ecco perché “quel che è veramente importante è la pace sociale, la ricostruzione della fabbrica sociale del paese, il recupero della nostra identità condivisa”, spiega Aziz Rafiee. “Oggi non ci si fida più gli uni degli altri. Se non sapremo recuperare la fiducia reciproca, ogni accordo politico sarà un semplice pezzo di carta”.
È la scuola del doppio binario, che si insegna anche nei manuali di peace-building: al processo politico-negoziale va affiancato un più lungo, faticoso e complicato processo di ricostruzione dei legami sociali tra le varie comunità. Come farlo, ancora una volta lo spiega bene Qader Rahimi, della Commissione indipendente per i diritti umani di Herat. “Ci sono due meccanismi per favorire la pace. C’è il meccanismo del dialogo politico, quello promosso dal governo, dalle istituzioni. E c’è il meccanismo del dialogo sociale, promosso dalla gente, dalle comunità. I conflitti sociali, tra comunità, possono essere risolti con le jirga, le shura, i consigli tradizionali”. Anziché di una riconciliazione portata avanti dal governo, che per molti afghani è illegittimo tanto quanto i Talebani, “ci sarebbe bisogno di una riconciliazione comunitaria, portata avanti dai leader tribali, dalla gente che fa parte delle comunità locali e che è veramente rispettata”, aggiunge Baz Mohammad Abid, abituato a vivere in un’area in cui l’assemblearismo delle jirga è ancora forte, anche se mutato e trasfigurato dalla guerra.
È al livello comunitario che guarda anche Naqibullah “Saqib”, il preside della Facoltà di scienze politiche alla Nangarhar University, inghiottito nella sua stanza buia ed enorme, con divani marroni pericolosi come sabbie mobili e fiori finti sui tavolini. “Dopo trent’anni di conflitto bisogna concentrare l’attenzione su percorsi praticabili dal basso, a livello comunitario. Se la gente vuole produrre cambiamenti veri e positivi, può farlo, a quel livello”. Ne sembra convinta anche Sima Samar, portavoce della Commissione indipendente per i diritti umani, icona a livello internazionale dell’Afghanistan più simile a noi. Quello che parla di diritti, democrazia e stato di diritto e sa scrivere in inglese. “Senza il sostegno e la fiducia della gente, nessuna leadership, per quanto capace, è in grado di ottenere la pace, che va costruita tra la gente”. È un percorso lento, che va fatto passo dopo passo, afferma Idrees Zaman, “così da evitare il rischio che i conflitti locali vengano politicizzati e strumentalizzati e diventino conflitti nazionali”.
Prevenire i conflitti comunitari, “significa ridurne gli effetti potenziali in chiave nazionale”, mi dice Asif Karimi. Ha 60 anni, ha vissuto cambi di regime, colpi di stato, scontri sanguinosi e bombardamenti a tappeto di Kabul. Oggi lavora per The Liaison Office, un’associazione che promuove il dialogo in alcune delle aree più difficili del paese, quelle dove ogni straniero puzza di proselitismo. Alla base del loro lavoro e di quello portato avanti da molti altri gruppi, qui in Afghanistan – in un paese attualmente occupato da quasi centomila soldati stranieri, tenuto sotto scacco da circa trentamila “Talebani” -, c’è l’idea che la pace sia responsabilità di tutti: “La pace è come un frutto, deve avere il tempo di maturare, non nasce dal nulla. È come un albero i cui rami rappresentano la giustizia, la sicurezza, la libertà. Il governo deve garantire la solidità dei rami. Ma siamo noi a dover assicurare che l’albero abbia sempre acqua fresca e non appassisca”. Così la pensa Taher Mufid, un rispettato leader religioso di Mazar-e-Sharif. Una “papalina” in testa, i piedi nudi anche d’inverno, l’abito semplice e lo sguardo dolce, un giorno mi ha ospitato a casa sua. Mi ha parlato della guerra e delle sue cause. Dell’Afghanistan e dei suoi difetti. Dell’Islam come religione di pace.
Questo reportage da Jalalabad è uscito sul numero di novembre della rivista Lo Straniero. (Foto di Giuliano Battiston)