Se ne va un monumento dell’american song, Burt Bacharach. Novantaquattro anni vissuti in modo leggendario, scrivendo canzoni memorabili (The look of love, Raindrops keep fallin’ on my head, Walk on bye, I say a little prayer, Close to you, I’ll never fall in love again, eccetera, eccetera), continuando, finché ha potuto, a portare in giro la sua preziosa gioielleria musicale con ostinata perseveranza e immensa grazia. Una vita felice, fatta di talento, successi e riconoscimenti, segnata da un grande dolore, il terribile suicidio di sua figlia Nikki, autistica, da quattro matrimoni (con Paula Stewart, Angie Dickinson, Carole Bayer Sager e Jane Hansen). Una carriera cominciata giovanissimo all’ombra della divina Marlene Dietrich, che si prese una cotta per il suo bel giovane pianista:«Era molto possessiva e protettiva. Diciamo che non desiderava che io sposassi altre donne. Ma eravamo soprattutto amici» ci ha raccontato una volta, aggiungendo, nella sua autobiografia (titolo: Anyone who had a heart), che a quel tempo Marlene, quando erano in tour, gli lavava calze e pantaloni. A dare l’avvio a una storia pazzesca è stato il primo folgorante successo, Magic Moments (lanciata allora da Perry Como: era il 1957) . Una vicenda lunghissima, che pur subendo l’influenza della musica brasiliana, in particolare di quell’altro genio di Antonio Carlos Jobim (conosciuto durante un tour in quel paese con Marlene) ha resistito al prepotente avvento della nuova musica rock in nome della canzone pop più classica. Fra le sue centinaia di composizioni Bacharach ne aveva una favorita, ce lo ha raccontato una volta, è Alfie, splendida ballad scritta per l’omonimo film, che non mancava di cantare in ogni concerto con la sua vocina arrochita.