Se casa tua stesse bruciando e potessi salvare un solo libro, quale sceglieresti? Prima o poi ogni amante dei libri si sente rivolgere una domanda del genere, e l’unica risposta adeguata sarebbe: quello più vicino alla porta. Ma nel giugno 1940 Walter Benjamin dovette rispondere seriamente a questo quesito, perché ebbe la disgrazia di trovarsi in una situazione simile. L’incendio lo avevano appiccato i nazisti e stava divampando in mezza Europa. Quando le fiamme lambirono il suo monolocale parigino di rue Dombasle, Benjamin scappò in treno verso il sud della Francia ancora libero e la prima tappa del suo calvario fu a Lourdes.

Con sé portava poche cose. Doveva viaggiare leggero, prevedeva l’attraversamento dei Pirenei a piedi. Lì, in una pensione con vista sulle montagne, aspettò invano per due mesi i documenti necessari all’espatrio e scrisse diverse lettere agli amici più cari. L’ultima la spedì il 18 luglio a Gretel Karplus, che lo aspettava al sicuro a New York, dove Benjamin avrebbe dovuto raggiungerla grazie a un salvacondotto procuratogli dal marito Theodor Adorno. A lei scrisse: «J’ai emporté un seul livre: les Mémoires du cardinal de Retz. Ainsi, seul dans ma chambre, je fais appel au Grand Siecle». Solo in una stanza d’albergo, in compagnia di un buon libro, esiliandosi nel passato, la sintesi della sua vita, la cultura intesa come rifugio, talismano, testamento, il linguaggio e il retaggio degli spiriti eletti.

Quel libro andò perduto, come tutto ciò che Benjamin portava con sé inclusi i suoi poveri resti, che pochi anni dopo finirono in una fossa comune a Portbou. Ma che c’entrava lui con Jean-François Paul de Gondi, il cardinale di Retz che si oppose a Mazzarino e fu poi sconfitto e imprigionato a Vicennes, dove scrisse le sue memorie? Forse perché pensava di somigliargli, perché si riconosceva nell’«indolenza che lo sorresse in gloria per molti anni, e nell’oscurità della sua vita errabonda e appartata», come scrisse ad Hannah Arendt? Oppure è perché presagiva un destino comune, dato che il cardinale fu inumato nella basilica di Saint-Denis e sulla sua lapide, per volere di Luigi XIV, non venne scritto alcun nome? Sia come sia, quel che è certo è che l’ultima lettura di un grande scrittore conserva sempre un certo fascino, e a volte, in assenza di contraddittorio, queste ultime letture addirittura si moltiplicano, come le reliquie dei santi.

È il caso dell’ultimo libro letto da Alberto Moravia, la fatidica notte del 26 settembre 1990. Per Dario Voltolini fu il proprio esordio, Una intuizione metropolitana, che Moravia stava leggendo in vista di un’intervista col giornalista Antonio Audino. La convinzione di Voltolini si basa sul fatto che Audino era stato incaricato dalla rivista “Fortune” di ideare la rubrica letteraria dell’edizione italiana, e per questo si era inventato che in ogni numero del periodico ci sarebbe stata una pagina in cui un grande nome della letteratura italiana veniva intervistato sul libro di un esordiente, di cui si faceva garante.

Quest’ultimo, in parallelo, avrebbe scritto un pezzo sul grande nome che lo sponsorizzava. Moravia acconsentì e presero appuntamento telefonico per il giorno dopo, ma nella notte morì. Audino poi comunicò a Voltolini la disgrazia e riferì che Moravia fu ritrovato riverso con un libro arancione in mano, appunto il colore di copertina della sua opera prima. Ma quell’onore moraviano è conteso da Renzo Paris, che sostiene tutt’altra ipotesi, cioè che l’autore de Gli Indifferenti cadde davanti allo specchio del bagno mentre sulla sua scrivania giaceva il suo Album di famiglia, appena edito da Guanda. E questo perché Enzo Siciliano gli aveva assicurato, a casa di Laura Betti, che Moravia voleva fargli una sorpresa recensendolo per il “Corriere della Sera”.

Ma si sa, i grandi autori possono essere multitasking, sono in grado di leggere e pensare a più libri contemporaneamente, ciò che è molto più univoco e prosaico invece è il nostro bisogno di trovare un nesso fra quell’ultima lettura e la fine del lettore, come se in qualche modo il libro la vaticinasse o la spiegasse. Non fa un certo effetto, per esempio, leggere, sul catalogo di una mostra americana su Marc Rothko del 1998, che l’ultimo libro letto dal grande artista suicida era La tentazione di esistere di Emil Cioran, prestatogli dall’amico Brian O’Doherty? Come si fa a non collegare il suo stato d’animo degli ultimi tempi, dal ricovero per l’aneurisma aortico dell’aprile 1968, alla separazione dalla moglie Mell del gennaio seguente, alla vita reclusa nel suo grande studio dell’Upper East Side, fino agli ultimi lavori tutti giocati sui toni del nero, del grigio e del marrone, con la condizione di autoesilio dalla vita del rumeno e il suo nichilismo radicale?

D’altronde, non era proprio Cioran, l’alfiere del “pensare contro se stessi”, ad avvertire che «quando qualcuno s’interessa ai miei libri io so che è “fregato”, che in lui qualcosa si è rotto»? Certo, l’ultimo libro letto da un suicida non può essere casuale o frutto di cortesie fra colleghi, soprattutto quando il suicidio è lungamente meditato e preparato come nel caso di Sandor Marai. E qui abbiamo una fonte è di prima mano, il suo diario (L’ultimo dono, Adelphi), nel quale lo scrittore ungherese annotò ogni pensiero che lo angustiava in quei giorni di grande solitudine. L’inizio della fine è la scomparsa della moglie Lola, morta di cancro al principio dell’86, insieme alla quale Marai aveva vissuto più di sessant’anni.

Quattordici mesi dopo è la volta di Janos, il figlio adottivo, poi la sorella Kató, i fratelli Gábor e Géza e gli amici più cari, finché resta totalmente solo. L’intensità del dolore che traspare da quelle pagine è quasi insostenibile, così com’è terribile seguire la pacata determinazione con cui prepara la sua dipartita. Al principio annota le statistiche sui sucidi a San Diego, diciottomila fra l’80 e l’86, oltre la metà con più di 65 anni e usando un’arma, poi prende il porto d’armi e s’iscrive a un corso per adoperarle. Sa che la sua “non è più vita, ma soltanto i preparativi per la partenza”. Riconosce che non sopporta più “lo strazio delle giornate”, ma al tempo stesso continua a non essere ancora pronto per la morte. Il giorno dei morti va in riva all’oceano in taxi, per far visita alla tomba di Lola. Come sua moglie e suo figlio, anche lui chiederà che le sue ceneri siano disperse in mare.

Eppure, in tutta questa desolazione, fatta di inappetenza, silenzi interminabili e brevi passeggiate, l’amore per la lettura non viene meno. Marai ci vede pochissimo ma legge tutte le notti prima di addormentarsi. Dapprima i diari della moglie, poi i grandi classici, Sofocle, il Don Chisciotte, e sempre, anche solo qualche pagina, di Gyula Krúdy, il suo maestro. Cerca il conforto dell’aria di casa, la Budapest che non vede da mezzo secolo, ma non ritrova mai ciò che cerca, e si aggira nostalgico e amareggiato in quell’estraneità familiare. Krúdy non gli somiglia. Era un gentiluomo bohèmien che amava la mondanità e il gioco d’azzardo, ma era anche un ritrattista formidabile, capace di catturare lo spirito del tempo con pochi tratti di penna, come lui.

E l’ultima lettura di Marai è l’elogio dello scrivere oscuro, che non cerca l’applauso e neppure un destinatario. È una pagina di Krudy, il ritratto del barone Frigyes Podmaniczky, «che scriveva romanzi per il proprio cassetto», perché un gentiluomo sa che «non vale la pena scrivere se non per il proprio cassetto».

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