Mantenendo inalterato un certo fascino da opera paradigmatica e cruciale, Novecento di Bernardo Bertolucci si lascia ancora ammirare, a 40 anni dall’uscita, soprattutto come un modello d’ipertrofia autorale, espressione  di quello sguardo esemplarmente radicale e inquieto che, ai tempi della fruttuosa negoziazione etica ed estetica consumatasi sull’asse Europa-Hollywood, la macchina cinema ha voluto e saputo permettersi. Oggi che appare esemplare il suo sofferto e utile interrogarsi sulle contraddizioni dei meccanismi spettacolari del linguaggio cinematografico (al di là di ogni interpretazione “politica” che ha avuto il torto di circostanziarne la magnifica ambiguità), questo capolavoro stratificato e difforme, stralunato e inquietante, sembra aver definitivamente trasformato tutti i propri difetti in pregi. Tanto per cominciare, lo si può leggere come una trasparente metafora del tempo ritrovato del suo autore allora trentacinquenne, pronto a fare i conti con le proprie angosce di stile al crocevia del trionfale scandalo di Ultimo tango a Parigi, che si mescola (psico)analiticamente al tempo così lontano, così vicino della Storia: i 45 anni dell’Italia dal fascismo alla liberazione raccontati come una crudele, incantata favola shakespeariana immersa nel ciclo delle stagioni naturali.

Con questo suo kolossal leggero e aspro, così poco ingombrante e macchinoso, Bertolucci prova a trasfigurare criticamente i motivi della propria autobiografia culturale: Novecento è il suo Teatrino privato (il grande che si fa piccolo per rappresentare il mondo) dove egli può emulare il fare anima di Jean Renoir, ed è pure la Stanza da letto del poema paterno nella cui rêverie può sprofondare per condividerne risonanze, riferimenti, richiami. Il cinema rimane per lui il medium primario attraverso il quale è possibile elaborare la memoria e i piaceri delle proprie passioni estetiche; ed è l’unico scenario di ogni rappresentazione possibile, dove si anima la verticalità eversiva di modi e oggetti letterari, teatrali, musicali, pittorici che si vogliono mettere concettualmente in discussione, per affermarne o liquidarne il senso. In Novecento questa lucida quanto sentimentale intenzionalità moderatamente sovversiva si esprime, da un lato, attraverso un netto rifiuto di ogni convenzionalità spettacolare a dispetto delle esigenze dettate dal cospicuo budget produttivo (un anno di lavorazione, divi internazionali, équipe tecnica altamente specializzata); e dall’altro lato, attraverso la rinuncia a una certa enfasi locutoria propria del “nuovo cinema” degli anni Sessanta (il cinema delle “bestie da stile” che era quello, intellettuale e straniato, della “retorica metalinguistica”), a favore della règle du jeu di un fare cinema empatico (all’americana) in grado di agganciare emotivamente lo spettatore con il piacere dell’artificio che si dichiara tale per mezzo di un’innocente esibizione della tecnica.

Così prende corpo la scommessa di «un film sulla cultura popolare, secondo Gramsci e nel senso di Pasolini» (secondo una definizione dello stesso Bertolucci): la storia parallela della famiglia borghese dei Berlinghieri proprietari terrieri e di quella contadina dei Dalcò, divisa tra l’estate dell’infanzia e adolescenza, l’autunno e l’inverno dell’ascesa e caduta del fascismo, e la primavera della rivoluzione promessa e poi negata; un’epopea della lotta di classe come motore dialettico delle cose e degli uomini, dove i personaggi rinunciano alla finzione per diventare pura espressione della Storia (alcuni di loro fin dai nomi: il “flagello” in camicia nera Attila o la maestrina combattente che porta il nome di Anita Garibaldi), dove ci si ritrova nel mondo delle idee e dell’ideologia utilizzando come viatico i modelli e le pratiche di tutte le arti. È il melodramma, cifra espressiva di tutto il cinema di Bertolucci, a farsi una delle principali dimensioni fondative del récit di Novecento: sono i paesaggi musicali di Prima della rivoluzione e di Strategia del ragno a dare misura lirica al gioco sacrale e metaforico della rappresentazione (insistito è qui il richiamo a Giuseppe Verdi, a partire dall’annuncio della sua morte al crocevia dei due secoli, sino all’operistico finale della gigantesca bandiera rossa trasformata nella tenda del “processo al padrone”), connotando pure l’ironia profonda delle sue accensioni da Wor-Ton-Drama.

Ed è su tale suggestione che s’intrecciano originalmente, all’interno di un impianto narrativo estremamente rigoroso, i motivi letterari da feuilleton (la struttura da saga familiare, certe simmetrie esemplari della trama, i mascheramenti e le agnizioni nelle relazioni tra i personaggi) con quelli che trasparentemente si rifanno agli schemi dell’epica lukàcsiana o a certe soluzioni del realismo americano (c’è soprattutto la lezione di Faulkner). Non mancano i riferimenti al romanzo di formazione (le esperienze sentimentali e sessuali di Alfredo e Olmo, nati in uno stesso giorno del 1900), mentre quelli che riguardano “il romanzo d’appendice” puntellano l’intera architettura della saga (si pensi, nel primo atto, alla scena patetica del suicidio nella stalla del vecchio Alfredo o a quella sordida in cui suo figlio Giovanni si fa attribuire l’eredità contraffacendo la voce del padre defunto; e, nel secondo atto, all’iperrealistico e grottesco crescendo delle efferatezze perpetrate dalla sordida coppia “pulp” composta da Attila e Regina). C’è poi l’appassionata trasfigurazione della memoria dell’occhio, il furto del linguaggio cinematografico dei maestri (gli autori con i quali entrare in conflitto senza mai negarne né il valore né le influenze) insieme all’affratellamento polemico con i coetanei della nouvelles vagues sull’altare di un immaginario condiviso.

 

 

E però non si nota alcun compiacimento citazionista nell’evocare l’epos simbolico di Dovzhenko o l’espressionismo utopico di John Ford o lo sguardo “morale” del mélo e del musical made in Usa, così come non sembra fondamentale, ai fini dell’interpretazione, rilevare quanto nel film appaia metabolizzata la lezione di Renoir insieme a quella viscontiana, o fino a quanto vengano assottigliate le affinità elettive con la teoria e la prassi di Godard e compagni. Per altri versi, un passo del saggio che lo storico del cinema Francesco Casetti ha dedicato a Bertolucci (La Nuova Italia, Firenze 1976) ci rammenta come Novecento abbia investito radicalmente sulla propria immediata comunicabilità, «diradando le citazioni “per intimi” ma senza rinunciare a trattare con i materiali che riguardano lo spettacolo», e questo «rimanendo sempre scopertamente cinema». Perché è proprio attraverso il cinema (dispositivo del Ventesimo secolo) che è possibile perpetuare i valori delle grandi forme di arte popolare (come quelle ottocentesche del teatro musicale e delle pratiche letterarie alle quali abbiamo accennato).

Contaminazione di stili e di dispositivi per un film profondamente moderno che, negandosi all’opacità dello specifico filmico, mantiene inalterata la propria forza visuale, e si concede il lusso di ammantarsi di tradizione. Il tempo di Novecento, ha scritto una volta il critico Enzo Ungari (che fu complice dell’impresa bertolucciana), «è il tempo del mondo visto dai vecchi e dai bambini». È una favola “nuova” che narra l’eterno ritorno di un’unica identità lacerata in due: il figlio del servo e quello del padrone che si danno reciprocamente “la battuta”, nell’affrontarsi crudelmente fino allo sfinimento, attraversando il territorio di un presente che procede à rebours come in una seduta psicoanalitica e dove la forma del futuro coincide inevitabilmente con quella del sogno. Non è un caso che un film come questo, intenzionato a collegare la realtà interiore con le dinamiche della Storia, sia costruito su un interminabile flashback utilizzato anche per mettere in risalto temi e figure del doppio: «È l’infanzia del Novecento a spiegare la festa del 25 aprile, così come l’infanzia di Olmo e Alfredo contiene già con i riti misteriosi e il fiato sospeso tipici di quella età, tutta l’evoluzione del servo e del padrone, e il segreto del loro rapporto» (ancora Ungari). Parallelamente a quella maschile, la sfera femminile dà consistenza a un percorso di metamorfosi e di sovrapposizioni simboliche: la borghese decadente Ada, che si finge cieca per sfuggire all’intollerabile realtà del fascismo, appare solo alla morte della popolana Anita, ammalatasi dopo il crollo della propria speranza rivoluzionaria.

A differenza di Olmo e Alfredo, il cui simbolico conflitto attraversa il film sino al finale dove appaiono ridotti a macchiette di vecchiezza impegnate in un litigio che culmina nella riproposizione dell’infantile gioco dello stendersi sulle rotaie al passaggio del treno (un tempo parallelamente e ora di traverso, come per un suicidio), le due protagoniste femminili subiscono una mutazione fantasmatica per via del loro destino che si compie fuori scena. Altri fantasmi che attraversano Novecento sono quelli, patologici, evocanti l’aberrazione prospettica di un erotismo ombroso e sofferto, una chiave tematica che, nel mettere in scena il connubio tra desiderio sessuale e desiderio politico (fin dalla sequenza della sfida a “inculare la terra” che vede confrontarsi da bambini il padrone e il contadino), provocò il piccolo scandalo censorio culminato nel breve sequestro del film a opera di un giudice di Salerno. E dunque, la trama delle relazioni private si sovrappone specularmente (spesso in modo traumatico) a quella della lotta di classe: il tutto sempre in funzione di una rappresentazione al contempo incantata (come nella sublimazione idillico-patetica del mondo contadino che il primo atto propone) e angosciata, mai armoniosa e sempre perturbante. Il sogno si trasforma in incubo (specialmente nella seconda parte) quando i personaggi “centrali”, svelando la loro bestiale e grottesca identità di maschere, lasciano il campo a una galleria di figure parallele e, nel finale, al protagonismo del coro dei contadini che si abbandona alla teatralità profusa del processo “maoista” dove la realtà si fa visione d’invisibile.

Quest’ultima prospettiva richiama quella della panoramica all’inizio del film, la scena della giovane contadina infervorata che indica l’orizzonte fuori lo schermo e racconta alle compagne la cronaca fiabesca della fuga dei “briganti neri” e di “Olmo sul suo cavallo bianco”: è questa una delle tante riproposizioni della circolarità di Novecento, dove Bertolucci si fa rielaboratore e manipolatore di forme e contenuti per affermare il primato del Mito sulla Storia. Diventa cifra formale e valore ideoestetico questa intenzionalità di legare espressivamente (con volontà pasoliniana) la condizione onirica a quella dello stato di veglia, così come il dramma poetico alla “realtà attraverso la realtà” (nell’utilizzare «i materiali umani, culturali, sociali, decisamente documentaristici, del mondo dei contadini emiliani», che lo stesso autore definisce il vero soggetto del film). E acquista spessore di gesto poetico e, al contempo, morale quel mettere dentro la stessa inquadratura il documentario e la finzione, come avviene nell’emblematica scena del funerale dei vecchi della Casa del popolo nella piazza di Guastalla: un dolly iniziale che vola dall’alto sul corteo dei settecento contadini per poi trasformarsi, una volta arrivato ad altezza d’uomo, in un lunghissimo e rituale carrello a mano. Il miracolo di questo cinematografico fiume in piena, salutato a suo tempo dalla nomenklatura engagé come simbolo di “compromesso storico” (politico, estetico, economico), sta tutto nell’armonica sregolatezza con la quale ci restituisce l’inquietudine che lo fonda e che, ieri come oggi, ce lo fa sembrare distante dal gusto della medietà corrente, e quindi classico nostro contemporaneo.

 

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