Il tedesco Botho Strauss (1944) vive da anni con addosso l’etichetta di “mistico conservatore”. Dopo essere stato definito a lungo “scrittore di sinistra”, nel 1993 pubblicò su “Der Spiegel” Il canto del caprone, che subito venne accolto come un “manifesto della nuova destra”. Lo scrittore di Naumburg attaccò allora una certa sinistra intellettuale tedesca dominante nel sistema mediatico, giudicandola falsa e convenzionale, intrisa di una coscienza superficiale, imbevuta di presente e priva del senso del passato. Da allora Strauss ha “preso le distanze” dal mondo, vivendo solitario in un casale dello Uckermark (ex-DDR), dove da eremita scrive i suoi libri. Alieno a qualsiasi forma di utopia, lo scrittore, considerato comunque unanimemente in Germania uno dei maggiori drammaturghi viventi, cerca piuttosto di riallacciarsi al tempo “lungo” e “immobile” e alla memoria, perché essa sola illumina il vincolo tra passato e presente. Critico verso i contemporanei che si abbandonano al dominio incontrastato del mainstream, Strauss considera i talk-show l’esempio più sgradevole della manipolazione televisiva, perché distruttori della dignità del rapporto interpersonale.

Dopo che Guanda ne propose alcuni testi a partire dagli anni Ottanta (libri da tempo fuori catalogo), a parte le eccezioni di Itaca (1996), portato in scena da Luca Ronconi nel 2007, e L’equilibrio (2000) c’è voluto Il Saggiatore per riproporre, a partire dal 2015, opere di Strauss al lettore italiano. Ed è sulle tre opere pubblicate dall’editore milanese, tutte tradotte dalla brava Agnese Grieco, che ci concentreremo.

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Frutto di un’elaborazione quarantennale, Origine (2015) raccoglie ciò che il padre, morto nel 1971, ha lasciato nella memoria dello scrittore: “La tua morte non l’ho fatta mia […] Lentamente ho cominciato poi a penetrare, a crescere, nella tua morte e in questo vasto senso della perdita. È diventato l’anello di bronzo che racchiude la mia coscienza”. Il ricordo degli abiti distinti, delle buone maniere, della disciplina, dell’amore per il lavoro di perito farmaceutico, per la letteratura. È il padre Eduard, anche se dotato di un solo occhio (l’altro l’aveva perso durante la Grande Guerra, per questo fini con l’odiare i militari) ad aver fatto di Botho un lettore. Un quaderno, questo di Strauss, che rievoca fatti, eventi, condivisi nella “patria”, la piccola città di Ems. E non si tratta, per Strauss, di sola nostalgia per una perdita. Mosso alla ricerca delle parole utili per narrare, evocare un passato, è la consistenza del suo presente ad essere in gioco: “L’ampliamento di un orizzonte non di rado consiste nell’aprirsi di una persona a ciò che è stato. Solo sul piano del ricordo ci si può ancora espandere, arricchire, si può crescere”. Evocando il passato condiviso, lo scrittore cerca anche di dare forma a ciò che non ha visto, ai pezzi di vita del padre cui da figlio non ha potuto prendere parte. Il grido del giovane Eduard, per esempio, “quando il proiettile dell’arma da fuoco trapassò la fronte del soldato venticinquenne”. Sempre deciso a non celare nulla del passato della sua nazione, Strauss qui, come in altri scritti, non s’esime dal difendere la generazione del padre dagli “sputasentenze”, dall’“ironia dei cabarettisti”, da coloro cioè che hanno imputato a quegli uomini, prima entusiasti per la guerra e poi pacifisti, l’assenza di una “coscienza morale”: “Il destino plasma sempre una visione delle cose più profonda di quella che gli intelligenti, che non hanno mai sperimentato la forza del destino, possano accampare”.

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Mikado (2019) è invece una raccolta di prose brevi risalente ad oltre dieci anni fa, il cui numero, quarantuno, corrisponde appunto a quello dei bastoncini a disposizione per una partita di mikado. E così come nel gioco i bastoncini valgono tot punti secondo il loro colore, altrettanto avviene qui per i singoli testi, nel senso che il valore delle prose varia molto. Ad alcune che rilucono come pietre preziose ben tagliate se ne alternano altre prive di lucentezza, dalla ragione oscura. Quanto ai temi cari a Strauss, ci sono tutti. Senza alcuna pretesa di trattazione, ma ci sono tutti. C’è lo smarrimento dell’io provocato da un imprevisto (uno scambio di persona, come in Mikado), ci sono storie di estraneità e solitudine, storie d’amore. Come quella tra un vecchio e una ragazza (“un improvviso vortice di polvere, una piccola creazione, un soffio”, anche se in un “polveroso e soffocante e del tutto oscurato mondo in una stanza”, così in I fronzoli), o quella del paraplegico, l’uomo “fatto solo di pelle, parole e immobilità”, l’uomo che “divenne l’amore”, il poeta, dalle cui labbra le ragazze di Carcassonne pendevano, perché “da lui ricevano parole che non dimenticavano più”, mentre dai loro amanti “nient’altro che un poco di seme corruttibile” (così in Joëfred). C’è poi lo Strauss che riflette sul valore della scrittura attraverso “il vecchio buono a nulla Cystobal” (nel bel racconto Amarodolcina), “sdraiato a letto e con la testa piena di gentaglia, personaggi che pretendevano di essere completati: più carne, più colore, più destino!” Infine c’è lo Strauss che non rinuncia alla critica di certi fenomeni sociali (laddove narra la “lotta per il potere” tra mannequin sul modo di sfilare e il conseguente emergere di “scuole filosofiche della passerella”, in Passerella), di certi uomini “senza un proprio parere”, che chiama “nevrotici del consenso” (in Padroni di casa tristi). O che affronta direttamente, senza giri di parole, il tema dell’accoglienza dello straniero, immaginando il monologo di un padre che si rivolge alle proprie figlie ricordando loro che “chi prova simpatia per lo straniero che vuole venire a casa nostra” debba riflettere “a fondo sull’intenzione con cui lo lascia entrare”, perché egli “anche se diverrà partecipe di tutto ciò che è nostro, lui in verità non devierà nemmeno di un capello dal suo essere straniero”. Dunque meglio chiedersi: “chi siamo noi allora?”. E la risposta di Strauss è “prima riconoscere, poi divenire, un passo alla volta, quello che noi possiamo essere solo in quanto diversi da lui”. Per questo, conclude, “dobbiamo fare tutto il possibile per difendere il suo essere straniero”.

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Pubblicato quest’anno, infine, Il perseverante è nella forma e nei temi (ma anche nel titolo) la prosecuzione di un percorso di scrittura confermato anche con un’altra opera, Vom Aufenthalt (Della permanenza, 2009), ancora inedita in Italia: prose brevi ed aforismi di un poeta-osservatore sradicato caduto fuori dal tempo. Fuori dal tempo, ma non estraneo al mondo. Anzi. Anche perché la dimensione temporale di Strauss è quella dell’attesa: “Mi alzo, comincia il giorno, sto in attesa. Chi non fa nulla non è un pigro. Elabora una massa di impressioni, lavora a ritmo continuo”. La sua è “passività” intesa come “condizione necessaria per l’alta prestazione di un Io che deve continuamente assicurarsi della propria posizione tra cielo e terra, storia e natura, tra adesso e attimo”.

Si è già detto della sua “presa di distanza” dal mondo. Distanza, ma non estraneità. Tutt’altro. E la conferma viene dalle riflessioni dedicate al digitale disseminate in questo libro: “Noi siamo legati, fino a nuovo ordine, alla metafora fondamentale della rete. Tuttavia dato che è così onnipresente attendiamo impazienti l’arrivo di una prossima metafora. La rete, o il network, in quanto emblema di un’epoca verrà mai di nuovo sostituita da un’altra?”.

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Il “nuovo ordine”, che evidentemente Strauss sente “stretto”, è quello dominato dall’“esemplare umano digitale”, rispetto al quale il “perseverante”, il poeta, è chiamato a risvegliare un “fondato rispetto per la tradizione”, che è rispetto anzitutto per il patrimonio linguistico. Un antimodernismo questo del tedesco non aprioristico, non legato ad un immotivato attaccamento al passato, ma sempre fondato, esercitato con lente d’ingrandimento e bisturi: “Uno dei più sconcertanti anacronismi dei nostri giorni può ben essere che la chimera della comunicazione digitale, per vie traverse, continui tuttavia ad usare soprattutto la lingua scritta, invece che servirsi esclusivamente di una tabella di emoticon e altre icone. Sì, addirittura che tale comunicazione porti di continuo via qualcosa alla grande e magnifica lingua tedesca, senza tuttavia amarla e difenderla”.

Quello che Strauss vede ergersi è un vero e proprio “muro del mediale” (che l’attuale crisi da corona-virus non può che alzare ulteriormente, si potrebbe aggiungere), il cui risultato è il formarsi diffuso tra gli umani di “un talento mediocre”, “con l’aiuto del quale si interpretano i ‘segni del tempo’ a partire dal tempo stesso, invece che sulla base delle stelle o del volo degli uccelli”. Un “talento mediale” che, secondo il poeta, “impedisce il contemplare e la contemplazione come assoluta azione estetica”. “Infatti”, si chiede ancora, “chi riuscirebbe mai a contemplare davvero quello che appare sullo schermo?”.

Come abbattere quel muro “che tu hai costruito dentro di te contro il mondo davvero sconvolgente”, come perforarlo almeno? Chiedendosi se non sia “azione degna”, per quel fine, usare “detonatori poetici”, Strauss confessa il proprio apprezzamento, la quasi dipendenza dalla scrittura di Cristina Campo (alias Vittoria Guerrini, 1923-1977): “Questa donna ci ha lasciato solo due libri smilzi, tuttavia ha inventato una forma di saggio poetico di un tono che, prima di lei, non si era mai percepito (Gli imperdonabili). La leggo ogni volta con un tale abbandono, come se mi riportasse con mano ferma e delicata sulla mia strada, poiché di nuovo me ne ero allontanato”.

 

*In copertina: Cate Blanchett mette in scena “Gross und Klein” di Botho Strauss, 2012

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