Con Campo di battaglia Gianni Amelio firma la sua diciannovesima regia per il cinema traendo libera ispirazione dal romanzo La sfida di Carlo Patriarca e mettendo in scena la prima guerra mondiale cercando legami con il contemporaneo, diviso tra il conflitto armato e l’avanzare della malattia – la Spagnola nel caso del film. Un’idea affascinante che Amelio non riesce a gestire, disperdendo il potenziale in una seconda metà caotica, e deprivando i suoi personaggi di una reale psicologia.
L’igiene del mondo
Durante la prima guerra mondiale, Stefano e Giulio sono due amici d’infanzia che lavorano come ufficiali medici nello stesso ospedale militare. Oltre che dall’amore per la stessa donna, i due si trovano divisi anche tra due opposte visioni del loro dovere di medico, quando uno di loro comincia a peggiorare in segreto le condizioni dei feriti più gravi affinché essi non possano essere mandati di nuovo al fronte, verso morte certa. [sinossi]

Ci sono due riprese in piano sequenza nella prima parte di Campo di battaglia che sembrano voler definire meglio di ogni altra speculazione retorica il senso intimo di quello che è il diciannovesimo film diretto da Gianni Amelio per l’uscita cinematografica. Nella prima dei soldati si muovono in uno spazio astratto, che è per l’appunto il campo di battaglia ma è anche un non-luogo dominato dalla morte, con i corpi dei soldati grottescamente impilati gli uni sugli altri a formare delle collinette di sangue e ossa, e con i loro commilitoni che derubano i cadaveri scippandogli oggetti che potrebbero ancora avere un valore per chi vive. Da uno di questi cumuli di vittime della guerra emerge improvvisamente, come le mani che negli horror prorompono verso lo schermo da sotto terra, l’arto di un soldato ancora vivo, che potrà raccontare la sua incredibile avventura ad altri feriti mentre viene trasportato verso l’ospedale militare, il secondo e altrettanto ferale campo di battaglia. Già, perché qui i soldati allettati vengono passati in rassegna – con Amelio che ricorre per la seconda volta alla ripresa in continuità – con cipiglio da capitano che sta preparando le truppe all’assetto di guerra da un uomo inflessibile come Giulio, responsabile dell’ospedale e convinto assertore del fatto che chiunque sia di nuovo in grado di tenere in mano un fucile debba essere immediatamente rispedito al fronte, pena la denuncia per diserzione. Amelio fa muovere la camera tra i letti e le brandine con la stessa fluidità che mostrava nella sequenza sopracitata, come a suggerire che non vi sia in tempo di guerra effettiva differenza tra chi è cadavere e chi, perfino se parzialmente mutilato, viene di nuovo spedito là dove volano i proiettili. Carne da macello. Su questa analogia, efficace per quanto semplice, sembra innestarsi il discorso principale del film, ancor più quando si capisce che il tenente Stefano, altro medico dell’ospedale militare, si muova illegalmente nella notte per garantire a coloro che stanno per essere dimessi – e dunque inviati nel luogo da cui è difficile ritornare – un malanno tale (provocato artificialmente) da costringerli una volta di più a letto, forse addirittura al congedo per infermità fisica.

La sfida ideologica tra Stefano e Giulio (che ignora il comportamento del collega e amico) è poi moltiplicata all’eccesso da altri dettagli: è stato proprio Giulio, figlio di famiglia importante, a salvare Stefano dall’invio sul campo di battaglia, grazie all’intercessione del padre; i due erano stati compagni di corso all’università, dove studiava anche Anna, l’infermiera – non si è laureata – che raggiunge a sua volta l’ospedale e rinnova un triangolo forse amoroso forse puramente geometrico, rappresentante le forze in campo. Amelio, che trae libera ispirazione dal romanzo La sfida di Carlo Patriarca sceneggiando poi il film insieme ad Alberto Taraglio (già fedele sodale del regista calabrese come testimoniano Così ridevano, La tenerezza, e Hammamet), è acuto nel suggerire un’attrazione latente e mai esplicitata tra i due uomini, ma si trova molto meno a suo agio quando deve gestire il personaggio femminile, sia per una certa fissità interpretativa di Federica Rosellini, sia perché la figura di Anna appare fin da subito sfocata, messa lì solo come esca per far arrivare a pelo d’acqua dilemmi e animosità che altrimenti non si sarebbero mostrate con grande facilità. Tramite Anna si può liquidare in una battuta la differenza di peso sociale dell’epoca tra maschile e femminile, e sempre utilizzando lei si può far deflagrare definitivamente le due antitetiche visioni della guerra dei maschi in scena. Tutto questo però opacizza il film, iniziando a svelare quelle debolezze narrative che progressivamente prendono il sopravvento. Perché Amelio, con ogni probabilità interessato a rintracciare in ciò che accadde poco più di un secolo fa le schegge di senso per leggere anche il contemporaneo – e dopotutto la guerra non è mai venuta meno nello scacchiere internazionale – aggiunge all’evento bellico anche la tragica epidemia d’influenza passata alla storia come “Spagnola”.

La guerra, la pandemia: un dittico che ad esempio si faceva largo anche nel bel L’arte della gioia che pochi mesi fa Valeria Golino ha desunto dalle pagine di Goliarda Sapienza. Eppure in Campo di battaglia l’irruzione nella seconda metà del virus si tramuta in un ostacolo, invece che in una possibilità. Se da un punto di vista metaforico il riferimento alla fiducia nella scienza appare pleonastico, o forse semplicemente troppo “facile”, narrativamente il film si muove in direzioni ben poco convincenti, e anche abbastanza confusionarie. Tutto ciò che con eleganza Amelio aveva trattenuto nella prima parte, trovando anche intuizioni non banali – gli infiniti dialetti parlati in ospedale, tanto tra soldati che hanno affrontato la morte ci si capisce in ogni caso –, perde in pregnanza, ma anche in senso narrativo: Stefano spostato a lavorare a stretto contatto con i soldati malati per trovare un siero risolutivo, Anna che non si rende conto (com’è possibile?) che denunciare un militare che sta fingendo alla malattia significa condannarlo a morte, un altro commilitone che si era fatto passare per pazzo che tratta Stefano – l’uomo che l’ha salvato dal ritorno al fronte – in modo sprezzante proponendogli un accordo economico, tutti elementi che rischiano di spostare Campo di battaglia dalle parti del ridicolo involontario, senza che i tre personaggi in scena oramai relegati a mere funzioni abbiano la forza di concentrare su di loro l’attenzione del pubblico. Ed è un peccato, perché l’idea di ribaltare la prospettiva futurista di guerra come igiene del mondo in un ideale “igiene del mondo come guerra” poteva ingenerare riflessioni potenti, qui solo occasionalmente suggerite.

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