Come l’annientamento del popolo ebraico sia avvenuto a partire dal processo di animalizzazione è stato reso evidente – spiega De Angelis – innanzitutto dalla letteratura di matrice giudaica, che non solo ha presagito il “futuro genocidario”, ma ha anche mostrato come questo sia stato elaborato attraverso la disumanizzazione dell’ebreo. Il punto d’avvio è Shylock, l’ebreo usuraio del Mercante di Venezia di Shakespeare, con cui prende forma una serie di cliché antigiudaici. In particolare, Shylock si sente cane, avendo interiorizzato lo stereotipo di una delle ricorrenti ingiurie antisemite. Si assiste alla formazione di uno zoomorfismo destinato – dolorosamente – a persistere nel tempo. Ne dà testimonianza Heinrich Heine in una delle Melodie ebraiche incluse nel Romanzero (1851), dove il protagonista, il principe Israele, viene metamorfizzato in un cane, “il peloso orrido mostro”, che, pur ritornando uomo durante lo Shabbat, rimane “cane, con idee canine … per sei giorni, a ludibrio dei monelli”.
Quanto la sovrapposizione cane-ebreo sia pervasiva lo evidenzia Franz Kafka. Il racconto Indagini di un cane presuppone un’identità tra caninità ed ebrei. Le allusioni in tal senso sono molteplici: dal porre continue domande (che svela “la talmudica indole canina”) al “noi viviamo in un solo mucchio”, per giungere al “nessuna creatura …vive più dispersa di noi”. Da qui nasce anche lo scatto, ovvero la rivendicazione di sé: il popolo canino è superiore a tutti gli altri, essere ebrei diventa motivo di orgoglio. Come afferma l’ebreo Italo Svevo, l’ebreo è “l’uomo più umano che sia stato creato”.
Anche nel romanzo di Yoram Kaniuk, Adamo risorto, avviene la metamorfosi dell’ebreo in cane. Il cabarettista Adam, in campo di concentramento, riesce a salvarsi la vita diventando il cane del comandante Klein. A comando deve abbaiare, uggiolare, scodinzolare e andare in giro al guinzaglio. Condivide la stessa ciotola con Rex, il cane “ariano di razza”. Ha perso la sua dignità, ma, scrive Kaniuk, “chi è stato un cane può sviluppare una sensibilità ignota all’uomo”.
La metamorfosi in cani nel lager è una gelida prassi. Primo Levi fa notare che mangiare senza cucchiaio impone caninamente di lappare la ciotola e che il verbo mangiare è fressen (il divorare proprio degli animali), non essen (l’atto umano del mangiare). Nel lager si portano i prigionieri a un livello animalesco per dimostrare quanto si era sempre pensato su di loro. L’ebreo, diventando la caricatura di se stesso, è trasformato in animale nocivo per renderne consequenziale lo sterminio.
Frequente è lo zoomorfismo degli ebrei quali topi e ratti spregevoli. Albert Cohen, in Solal, afferma: “Popolo eletto, davvero! Eletto in che cosa, povera accozzaglia di topi impauriti!”. Il popolo dei topi viene descritto come “irrequieto, quasi sempre in movimento, in avanti e indietro per ragioni spesso non chiare”. Art Spiegelman con Maus (1986-1991), “ha segnato la storia della ricezione della Shoah”, narrando “la storia della deportazione della sua famiglia con surrogati animali, dei topi per l’appunto, interiormente umani, ma con forma animale”. Del resto Hitler, in Mein Kampf, paragona gli ebrei a “schiere di topi che si dilaniano sanguinosamente”. La propaganda nazista finisce addirittura per attaccare Topolino, ritenuto “portatore dei più spregevoli e miserabili ideali giudaici”. Ma l’opera in cui il parallelismo è costantemente perseguito è il documentario Der ewige Jude (L’ebreo errante, 1940) di Fritz Hippler, in cui gli ebrei finiscono con “l’occupare la stessa posizione dei topi tra l’umanità”. Con insistente frequenza, le immagini dei tipi razziali ebraici sono alternate a “orde di topi, che davano l’idea della loro proliferazione incontrollata”.
L’altra immagine animale ricorrente in letteratura è quella dello scarafaggio, dell’insetto infestante, del parassita. Come ha notato per primo George Steiner, Kafka nella Metamorfosi per indicare cosa sia diventato Gregor Samsa fa ricorso al termine Ungeziefer, “parassita”, con cui abitualmente venivano apostrofati gli ebrei. De Angelis mette in evidenza quanto questa immagine abbia colpito l’immaginario ebraico. Bruno Schulz nelle Botteghe color cannella, nel racconto Gli scarafaggi, descrive la metamorfosi del padre commesso viaggiatore in uno scarafaggio. Il film Ombre e nebbia di Woody Allen (1992) riprende “i topoi parassitologici dell’antisemitismo”. Anche Amos Oz in Fima parla di uno scarafaggio. Primo Levi nella Ricerca delle radici inserisce un testo, La misura di tutte le cose, dedicato a una vernice che resiste all’attacco delle blatte. Nella “proposta di metodo” si spiega che la sperimentazione della vernice prevede l’uso di “dieci scarafaggi in buona salute”e la valutazione della loro capacità di sopravvivenza. Sempre Levi ricorda che nei lager si usava lo stesso gas comunemente adottato per disinfestare le stive delle navi e i locali invasi da cimici e da pidocchi. In uno dei film più noti e diffusi della propaganda nazista, Süss l’ebreo, quando viene abolito il bando che li esclude da Stoccarda, l’arrivo in massa degli ebrei in città viene definito “l’invasione delle cavallette”.
La progressiva riduzione dell’ebreo a untermensch corre parallela, nell’ambito di una concezione che si diffuse nella seconda metà dell’Ottocento, alla “preoccupazione per l’esistenza di una minaccia, di un pericolo biologico”. In definitiva, conclude De Angelis, la razza ebraica viene vista come “una malattia subdola”. Il percorso diventa allora di tipo sanitario: a fronte del contagio si mette in atto la quarantena nei ghetti, in attesa di dar corso alla cura finale.
Jan Mohnhaupt parte dal presupposto che “un’ideologia che misura il valore della vita sulla base della sua ‘utilità’ nel proprio ecosistema non distingue tra ‘uomo’ e ‘animale’, quanto invece tra ‘vita utile’ e vita ‘senza valore’ indegna di essere vissuta”. In quest’ottica si spiegano le apparenti contraddizioni del regime nazista: perché trasformare gli ebrei in cani e poi riempirsi la casa di pets? Perché proibire agli ebrei di avere animali da compagnia? Perché gettare uno sguardo freddo e disgustato sugli uomini bestia che è legittimo cancellare e poi tutelare la vita animale nel suo complesso, individuando le migliori condizioni per il trasporto dei capi di bestiame sui vagoni merci o stabilendo le regole per una macellazione che risparmi sofferenza inutile agli animali?
La risposta è dietro l’angolo. L’ebreo è un animale inutile e pericoloso. La sua collocazione lo destina ad essere tra le forme viventi che devono essere eliminate per garantire il funzionamento ottimale della società. Lo studio di Mohnhaupt ricostruisce quindi i due livelli del mondo naturale nazista, quello degli animali da tutelare e quello degli animali da sopprimere, mettendo anche in luce come il continuo parallelismo tra bestie e uomini servisse a rendere indipensabile la prospettiva eugenetica.
Al vertice del mondo animale nazista sta il cane. Hitler è un cinofilo convinto e si dice che negli ultimi mesi di guerra parlasse solo di cani. Durante la vita, dopo il forte legame con Foxl, il terrier che comparve improvvisamente in trincea durante la Prima Guerra Mondiale, Hitler ebbe tredici cani, tutti pastori tedeschi tranne uno. Il führer tiene alla purezza del pedigree, apprezza i cani che obbediscono all’istante e si mostrano docili.
È noto il suo legame con Blondie, il cane lupo che gli è stato vicino sino agli ultimi giorni di vita e che è stato capace di suscitare la gelosia di Eva Braun. Il pastore tedesco, d’altra parte, è il cane simbolo del nazismo. La razza è stata definita da Max von Stephanitz, nel 1901, ispirandosi a Darwin e a Ernst Haeckel, il precursore dell’eugenetica. Significativamente nel 1935 i nazisti attingono dalle norme di von Stephanitz per redigere il Codice civile del Reich. Perché il pastore tedesco assume questo ruolo? Probabilmente perché incarna il carattere germanico e, non a caso, nel 1939 tutti i pastori tedeschi sono chiamati alle armi. Per i nazisti il cane-lupo è il più degno sostituto del lupo, da decenni ormai scomparso dalle foreste tedesche. Dal 1942 Himmler impone i cani nei lager (non solo pastori tedeschi), usati come guardie e, dopo Stalingrado, dai primi mesi del 1943, i cani sono addestrati per diventare “bestie dilanianti”, nella convinzione che si possa risparmiare sulle sentinelle.
In una posizione di rilievo nella “zoopolitica” del regime sta il maiale, che viene visto come la razza guida dei popoli nordici. E, notoriamente, è animale messo al bando dagli ebrei. Quanto mai efficace appare dunque la sua immagine nel momento in cui il nazismo avvia la ruralizzazione della Germania. Il maiale, la cui presenza è aumentata dal XVIII secolo grazie alla disponibilità di patate, diventa l’animale su cui si punta per raggiungere l’autosufficienza (suini da lardo per produrre strutto). La campagna, che imponeva di raccogliere i rifiuti per il loro nutrimento, fallisce, ma, d’altra parte, i metodi di allevamento applicate alle bestie vengono estesi agli esseri umani.
Nel 1936 il governo ordina ai tedeschi, rivolgendosi in particolare agli studenti, di piantare gelsi e di dedicarsi alla sericoltura. I bachi servono per produrre la seta destinata alla realizzazione dei paracadute. Ma con la sericoltura si trasmette agli allievi anche la dottrina razziale nazionalsocialista: “Una bachicoltura sana … può funzionare solo scartando per tempo tutti gli esemplari malati e gracili”. Gli insegnamenti eugenetici si trovano ovunque. La dorifora, che per via della sua micidiale azione infestante viene definita l’“insetto francese”, attacca la patata. Si tratta di una lezione vivente: ai giovani viene insegnato che anche tra gli uomini esistono i parassiti.
I nazisti odiano i gatti, gli ebrei tra gli animali. L’immagine del gatto incarna la sfrenatezza e la viziosità. I nazisti apprezzano invece i predatori, Göring si tiene in casa cuccioli di leone. Più in generale l’animale domestico – con l’eccezione del cane – è visto come una forma degenerata dell’animale selvatico.
Grazie a Göring si ha una grande diffusione della caccia (detestata invece da Hitler). Il suo obiettivo principale è il cervo e ad una delle sue prede, Raufbold, fa costruire una statua che, dopo varie vicissitudini, si trova ancora oggi nel Tierpark di Berlino. La caccia fornisce un’altra occasione per sottolineare i vantaggi dell’eugenetica: i cervi più deboli e con le corna più piccole devono essere abbattuti in giovane età.
L’erbivoro più apprezzato dai dominatori ariani è indubbiamente il cavallo, che viene usato in guerra soprattutto sul fronte orientale, ma ormai solo per il trasporto. Il cavallo è l’immagine dello spirito di sacrificio e della forza, anche se per Hitler “è troppo impetuoso, imprevedibile e soprattutto troppo antiquato”. Durante la campagna di Russia c’è una strage di cavalli, destinata a rimanere nella memoria collettiva. A Stalingrado 52 mila esemplari sono dati in pasto alle truppe. 30 mila sono sacrificati in Crimea.
Boria Sax evidenzia secondo quali modalità la biopolitica nazista organizzi il mondo come un sistema complesso. Il termine di paragone è quello del castello, dove “si instaurano relazioni di mutua dipendenza all’interno di una struttura gerarchica”. Ad ogni singola creatura sono assegnati rango e posto. Chi non ha intenzione di adattarsi deve essere eliminato. Tutte le forme di vita hanno gli stessi principi organizzativi, la differenza sta nella complessità. La forma più complessa è lo stato, che deve combattere per la sopravvivenza contro altri stati e contro la corruzione al suo interno. Tutte le creature fanno parte di un organismo più vasto. Se questo organismo, come afferma Haeckel, si ammala è perché sono presenti microrganismi indesiderati o “parassiti” umani, identificati da razza e religione, che devono essere eliminati. L’organismo sociale è contrassegnato da nette divisioni: mentre gli ariani discendono dagli dei, ovvero da una comunità biotica primordiale, gli ebrei derivano dalla scimmia. I nazisti si identificano con il lupo che è garanzia di disciplina e di natura senza anarchia. Cani e lupi per i nazisti sono immagine di fedeltà, senso della gerarchia, ferocia, coraggio, obbedienza, crudeltà. All’opposto per gli ebrei sono animali impuri: i cani sono associati alle carogne e guardati con disgusto; i lupi sono i nemici delle pecore con cui si identifica il popolo di Israele.
I nazisti, in definitiva, effettuano il passaggio dalla selezione naturale alla selezione artificiale, ovvero la loro azione violenta è un’emulazione del mondo naturale di cui cercano di accelerare il lavoro. Anche le leggi a tutela degli animali (24 novembre 1933) evidenziano la volontà di mettere sotto il controllo dello stato la riproduzione e la morte. Non a caso, nota Sax, le leggi non fanno riferimento a cosa potrebbe dare gioia ad animali e persone, ma solo alla prevenzione del dolore. Dentro a questo sistema organizzato gli ebrei rappresentano l’entropia. È quindi necessario introdurre misure eugenetiche: bisogna interrompere la riproduzione indiscriminata o incauta. Come scrisse Konrad Lorenz, che fu scienziato di punta del regime, si devono riprodurre solo “coloro che hanno gli impulsi adatti”. I nazisti sono ostili alle anomalie, alle ambiguità concettuali. Dal loro punto di vista gli ebrei sono impuri e quindi sono un’anomalia.
La tesi di Sax è che col nazismo si sia cercato di dare attuazione al “terzo atto copernicano”: dopo la fine del geocentrismo e la teoria dell’evoluzione si afferma l’etnocentrismo. Non si parla più di specie ma di razza. Il vertice è la nazione tedesca, che, come abbiamo detto, include anche alcuni animali. Siamo giunti alla radicale negazione dell’antropocentrismo, alla fondazione di una società totemica, i cui membri sono fondamentalmente uguali, sia fisicamente che interiormente. “Dopo secoli in cui la cultura dominante aveva ipotizzato una profonda differenza tra gli uomini e gli animali … i nazisti non si limitarono ad offuscare questa divisione in tempi brevi, ma la rimossero quasi del tutto”.