Abbiamo visto Carnage regia di Roman Polanski.
Quale “carneficina” si può oramai fare in un interno borghese del nostro Occidente? E se ci si prova, si può usare un linguaggio ‘borghese’ e un meccanismo perfetto altrettanto borghese? Roman Polanski sembra crederci o forse i critici e gli amanti del Cinema sembrano crederci ancora di più. Se volessimo essere pigri o un po’ banali scriveremmo: è una commedia
vivace e intelligente in un interno borghese claustrofobico; oppure: una commedia dura e arrabbiata che affonda il coltello nel perbenismo borghese; o ancora: uno splendido gioco al massacro tra quattro borghesi forti e sicuri solo all’apparenza. Non sbaglieremmo in fondo a scriverlo ma ci metteremmo un po’ nei panni stessi dei protagonisti e parteciperemmo al ballo mascherato di questa società.
Roman Polanski è indiscutibilmente un grandissimo regista, un ragazzo sveglio e intelligente di settantotto anni, forse non possiamo chiamarlo un maestro solo perché non ha realizzato un capolavoro tra i tantissimi e spesso grandi film che ha fatto (tra i quasi trenta film della sua filmografia ricordiamo: Il coltello nell’Acqua (1962), del periodo polacco; Cul-De-Sac (1966), del primo periodo francese; Rosemary’s Baby (1968) e Chinatown (1974) del periodo americano. Un regista iconoclasta, di genere, colto e alto, provocatorio e – perché no – antiborghese più per motivi esistenziali che non ‘politici’ (la madre morta in un campo di concentramento; lui, a otto anni, scappato dal ghetto di Cracovia; nel 1969, la banda Manson uccide la moglie all’ottavo mese di gravidanza e altri cinque amici nella sua villa ad Hollywood, nel 1977 è accusato di aver avuto un rapporto sessuale con una minorenne, subisce un processo e scappa in Francia e negli ultimi anni trascorre in Svizzera un anno tra carcere e arresti domiciliari per quell’antico fattaccio. Polanski ama e conserva dei debiti narrativi con un certo cinema americano, anni Cinquanta e Sessanta e in quanto ai suoi punti di riferimento potremmo citare l’anarchico Bunuel, il cupo Fritz Lang, il fantasmagorico Wilder; di ognuno di loro – ma trovando un suo spessore e una sua strada – ha preso qualcosa o ha qualcosa in comune: crede nella dissacrazione, nel pugno in faccia allo spettatore, nella rivolta ma più in chiave filosofica che non economica. Ha spesso infranto le convenzioni tentando di non farlo apparire troppo, e tutto questo lo possiamo trovare anche in questo suo ultimo film.
Purtroppo è la società, e la realtà che produce, che ha dissacrato talmente tutto che un qualsiasi film sembra inadeguato a scalfire quel muro di indifferenza, di cinismo e di disillusione che ci continua a far vivere e ci difende dalle delusioni incredibili.
Carnage parte da una fortunata piece teatrale di Yasmina Reza ( pubblicata con il titolo Il dio del massacro da Piccola Biblioteca Adelphi), che è anche cosceneggiatrice del film; una trama semplice, da camera, con quattro personaggi – due coppie di quarantenni – che rappresentano gli stereotipi dei comportamenti politicamente corretti: l’idealista, il disilluso, il cinico, l’insoddisfatta. Un quadro sui borghesi di oggi e sul loro essere e apparire, dove la facciata è rigorosamente corretta e convenzionale, rispettosi delle regole sociali, tolleranti e civili fino a quando qualche bicchiere di whisky e qualche attrito personale non li fa esplodere e li mostra nel loro vero essere, individui soli, insoddisfatti, quasi selvaggi. La storia si svolge in un appartamento di New York e dura un mezzo pomeriggio, inizia con un accordo formale tra due coppie di borghesi che non si conoscevano prima e che sono venuti in contatto perché i loro due figli di dieci anni si sono picchiati al parco e uno dei due ci ha rimesso un paio di denti. La madre della vittima – Penelope (Jodie Foster), impegnata nello scrivere un libro sul Darfur, quasi in devozione con le sofferenze dell’Africa, convinta che la cultura sia il mezzo necessario per la pace sinonimo di felicità – vorrebbe risolvere il problema in maniera civile ma è anche quella più rigida , più formale, più infelice. C’è suo marito, Michael (John C. Reilly), venditore di maniglie e pentole; sembra quello più semplice e bonaccione, un po’ succube della moglie, ma è anche quello più cinico e naif. L’altra coppia è formata dalla broker finanziaria Nancy (Kate Winslet) formale, paziente e a sua volta un po’ succube di suo marito l’avvocato Alan (Christoph Waltz), ossessionato dal lavoro e dal suo cellulare che squilla in continuazione. Da due coppie civili e controllate si trasformano in quattro persone incivili, aggressive e frustrate. Dove saltano rapporti e affetti consolidati fino al silenzio distruttivo finale. Prima coppia contro coppia, poi donne contro gli uomini e nella parte finale ognuno da solo e per suo conto. E’ un racconto cinico e costruito con buona maestria, forse un po’ troppo ‘costruito’ e stilizzato, con un cast di grandi attori ben diretti ma senza picchi o ‘improvvisazioni’ coinvolgenti e con un montaggio sicuro e veloce nonostante la partenza un po’ lenta e niente sia davvero imprevedibile o sconvolgente.