Carta carbone – il primo di tre volumi con cui SUR presenta l’epistolario di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi – raccoglie un centinaio di lettere di Julio Cortázar (1914-1984) ad altri autori: da Vargas Llosa a García Márquez, da Paz a Borges, da Soriano a Onetti, da Victoria Ocampo a Galeano. Pubblichiamo un estratto tradotto da Giulia Zavagna, curatrice del volume.
A Roberto Fernández Retamar
Parigi, 17 agosto 1964
Caro Roberto,
scusa se ti scrivo a macchina, ma è un’abitudine della quale ormai non so privarmi e che mi permette di essere eternamente spontaneo e di dire ciò che realmente penso. Ieri sera mi hanno consegnato la tua lettera del 3 giugno (è già passato così tanto tempo!) ed ero talmente emozionato e felice per tutto ciò che mi raccontavi che sono entrato come in trance, in una congiunzione astrale incredibilmente fasta e prospera. Non ne sono ancora uscito, e ti scrivo sotto l’effetto della meravigliosa emozione data dal fatto che un poeta come te, che è anche un amico, abbia trovato in Rayuela tutto ciò che io ci ho messo o ho cercato di metterci, e che il libro sia stato come un ponte tra me e te e che ora, dopo la tua lettera, io ti senta così vicino a me, e così amico. Non so se quando ti ho scritto qualche mese fa per parlarti delle tue poesie sono riuscito a esprimere bene ciò che sentivo. Tu, nella tua lettera, mi dici così tante cose in poche righe che è come se mi avessi mandato un segno favoloso, uno di quegli anelli mitici che finiscono tra le mani dell’eroe o del re dopo innumerevoli misteri e imprese, ed è tutto condensato lì, oltre le parole e le mere ragioni; qualcosa che è come un incontro per sempre, un patto per fare cadere le barriere del tempo e della distanza.
Credimi, ovviamente tutto ciò che hai potuto trovare di buono nel libro mi fa molto felice; ma credo che in fondo la cosa che più mi ha commosso è quella frase meravigliosa, quella domanda che riassume tante frustrazioni e tante speranze: «Quindi è possibile per uno di noi scrivere così?» Ti assicuro, non ha alcuna importanza che sia stato io a scrivere così, forse per la prima volta. L’unica cosa che importa è che anche l’America stia raggiungendo un’epoca in cui si può cominciare a scrivere così (o in un altro modo, ma così, vale a dire con tutto ciò che tu stesso implichi nel sottolineare la parola). Alcuni mesi fa, Miguel Ángel Asturias[1] si rallegrava che un libro mio e uno suo fossero in cima alle liste dei best seller a Buenos Aires. Se ne rallegrava pensando che si facesse giustizia a due scrittori latinoamericani. Io gli ho detto che andava bene, ma che c’era qualcosa di molto più importante: la presenza, per la prima volta, di un pubblico lettore che rendeva omaggio ai propri autori invece di relegarli e lasciarsi prendere dalla mania delle traduzioni e dallo snobismo dello scrittore europeo o yankee in voga.
Continuo a credere che in questo stia un fatto fondamentale, perfino per un paese in cui le cose vanno male come nel mio. Quando avevo vent’anni, uno scrittore argentino chiamato Borges vendeva appena 500 copie di un certo meraviglioso volume di racconti. Oggi ogni scrittore rioplatense di valore, che scriva romanzi o racconti, ha la certezza che un pubblico intelligente e numeroso lo leggerà e lo giudicherà. Intendo dire che i segni della maturità (nel solito contesto punteggiato da errori, arretramenti, terribili mancanze delle nostre politiche sudamericane e delle nostre economie semicoloniali) si manifestano in un modo o nell’altro, e in questo caso in un modo particolarmente importante, attraverso la grande letteratura. Per questo non è così strano che sia ormai arrivata l’ora di scrivere così, Roberto, e vedrai che insieme al mio libro, o dopo, ne appariranno molti altri che ti riempiranno di gioia. Il mio libro ha avuto una grande ripercussione, soprattutto tra i giovani, perché si sono resi conto che li si invitava a farla finita con le tradizioni letterarie sudamericane che, anche nelle loro forme più all’avanguardia, hanno risposto sempre a nostri complessi di inferiorità, a quella tendenza a «essere noi così poveri», come dici a proposito dell’elogio di Rubén a Martí.
Ingenuamente, un giornalista messicano ha scritto che Rayuela è la dichiarazione di indipendenza del romanzo latinoamericano. È una frase insulsa, ma racchiude una chiara allusione a quell’inferiorità che abbiamo stupidamente tollerato per tanto tempo, e della quale ci libereremo come fanno tutti i popoli quando arriva la loro ora. Non mi credere troppo ottimista; conosco il mio paese, e molti altri che lo circondano. Ma ci sono dei segni, ci sono dei segni… Sono contento di aver iniziato a fare ciò che era giusto che facessi, e che un uomo come te se ne sia accorto e me l’abbia detto.
Grazie per aver riferito a Lezama che mi ricordo sempre di lui e lo ammiro molto. È da tempo che voglio scrivergli, ma mi intimidisce un po’; mi torna in mente la sera in cui cenai con lui e lo ascoltai dire cose meravigliose, come un lento vulcano di parole. Sì, lui è uno di quelli che mi fanno avere fiducia nelle nostre terre, in ciò che prima o poi quest’America misteriosa finirà per essere.
Ascolta, voglio che tu sappia che se davvero vorrai scrivere qualcosa sul romanzo, mi dai un’immensa gioia. Ho letto molte critiche, alcune giustissime e intelligenti; ma il tono che trovo nella tua lettera, quel contatto intimo che c’è tra ciò che mi dici e ciò che io stesso sono nel mio libro, finora non l’ho trovato da nessuna parte. Ovviamente, se volessi scrivere qualcosa dovrai pensare al lettore e cercare di prendere le distanze; ma ti sei avvicinato così tanto che qualsiasi cosa tu dica sul mio libro avrà sempre il sapore dell’esperienza, come avrebbe voluto il povero Oliveira,[2] e sarà quanto di più lontano da una valutazione da magister, di quelle che mi arrivano a decine e che io dimentico minuziosamente.
Voglio che tu sappia che io e Aurora siamo stati contentissimi della sera che avete passato a casa nostra, e che aspettiamo che torniate in Europa per rivederci più a lungo e meglio. Natalia Revuelta,[3] che gentilmente mi ha fatto avere la tua lettera, mi ha detto che forse saresti partito per l’Oriente a occuparti di questioni letterarie o culturali (l’informazione era piuttosto nebulosa, ma ha menzionato Giappone e India). Se così fosse, e mi sembrerebbe fantastico, suppongo che passerai dall’Europa prima o dopo, e che mi avviserai per tempo. Non sono un convitato molto divertente, sai che noi argentini siamo tutti molto introversi e che le poche volte che tiriamo fuori qualcosa sono le unghie (e invano, come direbbe qualcuno che conosco); ma se mi sopporterai so che potremo parlare veramente di tante cose. Con voi, i cubani, io mi denudo come di fronte al mare; gli amici di lì l’hanno notato e me l’hanno detto. Guarda come mi fate bene, guarda se non ho ragione a volervi così bene.
Dai i miei saluti a Calvert Casey, ad Arrufat, a Lisandro Otero,[4] a Edmundo Desnoes, e ovviamente a Lezama. Aurora vi abbraccia entrambi. Io non so come salutarti. Diciamo che continua al capitolo…
Ma anche un forte abbraccio,
Julio
[1]. Miguel Ángel Asturias (1899-1974) fu uno scrittore, giornalista e diplomatico guatemalteco, premio Nobel per la letteratura nel 1967.
[2]. Horacio Oliveira, insieme alla Maga, è il protagonista principale di Rayuela.
[3]. Natalia Revuelta (1926) fu una sostenitrice della rivoluzione cubana. Amante di Fidel Castro, ebbe con lui una figlia: Alina Fernández.
[4]. Lisandro Otero González (1932-2008) fu uno scrittore, giornalista e diplomatico cubano.