Giorgio Manganelli non amava i centenari, gli anniversari, le ricorrenze, le celebrazioni. Al posto delle commemorazioni proponeva, con polemica ironia, le “scommemorazioni”.
In questo 2016, sommersi come siamo dal diluvio cerimoniale shakespeariano e cervantino, è difficile dargli torto. Eppure, facciamoci forza e facciamo un’eccezione per i cento anni del Porto sepolto di Giuseppe Ungaretti.
Quell’esile volumetto, uscito in appena ottanta esemplari, or è un secolo, ha cambiato, si sa, la faccia della poesia italiana.
Ci voleva un italiano nato ad Alessandria d’Egitto, in un quartiere periferico (Moarrembei), al limite del deserto, in mezzo a arabi, greci, inglesi, altri immigrati italiani come lui; ci voleva un italiano di formazione francese (école suisse Jacot, Sorbonne, Collège de France) per farla finita con la tradizione retorica italiana, per torcere il collo alla millenaria eloquenza italica e trovare forme e accenti nuovi, davvero nuovi e non velleitariamente nuovi, come quelli dell’altro italiano d’Egitto, Marinetti.
Carlo Ossola ha scritto che Il porto sepolto non è un incipit ma è “un’origine”, nel senso che tutti i temi ungarettiani sono già qui e le opere successive, anche molto diverse da questa, in apparenza, in realtà non saranno che suoi sviluppi, necessari compimenti.
Un esempio? L’ultimo testo del Porto si chiude con la parola “abisso” e l’ultima poesia in assoluto di Ungaretti, scritta nella notte fra 31 dicembre 1969 e primo gennaio 1970, è incentrata sugli “scabri messi emersi dall’abisso”, segno che la ricerca del poeta si è svolta sempre nello stesso ambito: speleologia, scavo nel profondo, immersione nelle buie acque dell’inconscio per riportare alla luce “i canti”, come scrive nella poesia eponima della raccoltina, o “una parola” come in Poesia (poi Commiato) che la raccoltina la chiude. Attualizzazione dell’eterno, antico mito di Orfeo, il primo poeta, disceso nelle buie viscere dell’Ade per riportare alla luce Euridice.
E già da qui si vede come Il porto sepolto sia un’opera, o, come si usava dire qualche tempo fa, un macrotesto. O, potremmo dire noi, un canzoniere. Cioè non una semplice giustapposizione di testi (come sarà invece L’Allegria Vallecchi del 1919), ma un insieme organico, simmetrico, dove le varie parti si rispondono e le connessioni intertestuali sono generatrici di significato. Infatti i “canti” della seconda poesia, che è poetologica come l’ultima, si precisano nella “parola” dell’ultima, proprio perché è la parola, la parola singola, isolata dal bianco della pagina ad essere il centro dell’espressione ungarettiana. Il “verbum” anche nel senso religioso del termine, ciò da cui tutto viene creato.
Allo stesso modo, alla prima poesia, dedicata ad un destinatario reale, anagraficamente determinato, Moammed Sceab, l’amico morto suicida, corrisponde il congedo, indirizzato all’altrettanto determinato “Gentile Ettore Serra”, amico vivo e mecenate; dalla morte alla vita, dunque. Così come dalla crisi identitaria di Moammed, arabo che non sapeva essere francese fino in fondo, o francese che non riusciva a chiudere i conti con il suo passato arabo, si passa alla ritrovata identità italiana del poeta, ritrovata in guerra, come fu per moltissimi altri combattenti che, solo lì, in mezzo a mitragliamenti e fucilate, passarono dal sentirsi solo lucani o calabresi o piemontesi e lombardi al sentirsi (e forse all’essere) per la prima volta italiani. E questo è infatti il tema del penultimo testo Italia: “in questa uniforme/di tuo soldato/mi riposo/come fosse la culla/di mio padre”.
Ma non è affatto una poesia militarista, quella di Ungaretti.
Se secondo Paul Fussel “l’abito dell’odio”, la contrapposizione tra “noi” e “loro” si sviluppò nel corso della Grande Guerra e caratterizzò da allora in poi la mentalità europea, ma Ungaretti ne è completamente immune. Alle formule deliranti della propaganda (e agli sproloqui dannunziani dei Canti della guerra latina, che uscivano in quegli stessi anni sulle colonne del “Corriere” ) il nostro poeta contrappone la “parola tremante” Fratelli. (L’omonima poesia si chiamava in questa prima redazione Soldato, così come In dormiveglia si chiamava qui Immagini di guerra: c’è la volontà di sottrarsi alla contingenza bellica, all’occasione militare, per dare ai testi un valore assoluto.)
Ora, tra le infinite possibilità di sondare questo fascicoletto di versi inesauribili ne scegliamo una. Quella delle diverse “maschere” che in esso via via assume il poeta.
Dopo le prime due poesie, cui abbiamo accennato, In memoria e l’eponima, che sono a loro modo introduttive, il primo testo vero e proprio è Lindoro di deserto, e Lindoro è una maschera, un personaggio di damerino veneziano settecentesco, un vagheggino, un giovane innamorato da Commedia dell’Arte, e sia pure, ma Ungaretti gli aggiunge la specificazione: di deserto. Mette un figurino evanescente tra le sabbie desolate, perché solo così può assumerne le sembianze.
Successivamente egli si presenta, in quella sorta di haiku che è Tramonto, nelle vesti del “nomade”, “nomade d’amore” certo, ma sempre nomade. Una delle maschere più resistenti dell’autore, che amerà definirsi poi anche “girovago” e senza casa, senza luogo, senza appartenenza definitiva.
In Risvegli, poesia religiosa come le due che la precedono (Peso e Dannazione), è la volta della “creatura terrificata” (“atterrita” nella versione definitiva). In Perché? Il poeta diventa “questo bimbo” che “ha voluto sapere” (significativamente mutato nell’ultima redazione in “questo pazzo”).
Nella celeberrima I fiumi l’autore ha l’agilità dell’“acrobata” (anche “giocoliere” in una delle varianti intermedie) e i suoi tratti si confondono con quelli degli innumerevoli personaggi circensi descritti dai vari Baudelaire, Banville, Jarry e tanti altri, in nome dell’interscambiabilità tra artista e funambolo (o buffone). Oppure è semplicemente, in omaggio alle sue origini, un “beduino” che si china a ricevere il sole.
In Attrito sarà “lupo” e “pecorella” insieme, mentre in Distacco ha il viso impassibile dell’“uomo uniforme”, “lastra di deserto”.
Ma è in Pellegrinaggio che la maschera di Ungaretti pare coincidere con il vero volto. Abbiamo in questa poesia una singolare forma di autoapostrofe: “Ungaretti / uomo di pena / ti basta un’illusione / per farti coraggio”.
Di solito i poeti del Novecento che citano il loro nome lo fanno generalmente per sottolineare il loro io diviso, come il Luzi del Quaderno gotico I: “ a far di me un Mario irraggiungibile” o il Sereni di Paura seconda (Stella variabile): “Con dolcezza (Vittorio,/Vittorio) mi disarma, arma/contro me stesso me”.
Raramente usano il solo cognome, come in un epigramma della Religione del mio tempo, Pasolini: “vecchi pecoroni papalini/ un po’ esistete perché un po’ esiste Pasolini”. Ma nessuno ha avuto o avrà la splendida spudoratezza di Ungaretti che non solo si autoinvoca, ma anche avendo cura di precisarsi come “uomo di pena”, cioè nei tratti stravolti e cristologici dell’“uomo dei dolori” che campeggia nel Canto del Servo del Signore del profeta Isaia.
E a questa maschera-volto dell’“uomo di pena” Ungaretti sarà particolarmente fedele nel corso degli anni avvenire.
In un testo dei primi anni Cinquanta, Monologhetto, egli rivolgerà un’altra apostrofe a sé e ai suoi colleghi: “poeti poeti ci siamo messi / tutte le maschere; / ma uno non è che la propria persona”.
Con l’avvertenza che, in latino, persona significa maschera.