Abbiamo visto C’era una volta in Anatolia (Bir zamanlar Anadolu) diretto da Nuri Bilge Ceylan.
Giunge in piena estate, con un anno di ritardo, dopo aver ottenuto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes nell’anno di Malick, dei Fratelli Dardenne, di Kiarostami e di altri Autori importanti questo film turco spiazzante e bello. Un film spiazzante perché racconta una storia minimale e la sviluppa in 157 minuti (la prima
versione era di un’ora in più), al di là sia dalle logiche di mercato che di autorialità corrente ma anche di fruizione da parte di un pubblico più attento. Ceylan ha dichiarato in conferenza stampa a Cannes che gli piace creare false piste, e in questo film ce ne sono parecchie, iniziando dal titolo sergioleonino che non c’entra molto con il maestro italiano. Né nella drammaturgia né nel tipo di regia. Ma di cosa parla in fondo il film? Si potrebbe dire che è una metafora della complessità della vita e della sua consapevolezza; se vogliamo essere diretti (rischiando così ingiustamente di non far andare al cinema il lettore) è un film sulla vita che passa, modesta e ai margini del mondo, sull’attesa della morte e sulla difficoltà di capire ciò che ci succede intorno. E’ così, per il medico legale Cemal, la cui moglie lo ha abbandonato; e così, per il procuratore generale Nusret che scopre qualcosa della moglie che era solo difficile da accettare; è così, per il commissario Naci che fa fatica a tornare a casa e a ricordarsi di comprare le medicine per il figlio; è così anche per il presunto assassino che forse non lo è, e così proseguendo. Anche nel genere c’è uno spiazzamento, inizia come un giallo ma in realtà al regista interessa poco la dinamica dell’omicidio e le sue vere ragioni che restano sullo sfondo e quasi da pretesto per raccontare uomini stanchi e senza particolare fascino che si trascinano in una notte per le valli dell’Anatolia alla ricerca di un corpo seppellito da qualche parte.
Due auto e una jeep nella notte buia e solitaria si muovono in posti sperduti dell’Anatolia, attraversando colline e osservando alberi, fontanili e pietre. Cercano il luogo dove è stato seppellito un uomo assassinato il cui reo confesso non riesce a trovare il posto perché è buio e perché quando ha commesso il delitto era ubriaco. Nelle tre auto – ma il regista si sofferma soprattutto nella prima, dimenticandosi quasi quelli che sono sulla jeep – sono un commissario che è preoccupato della malattia di suo figlio adolescente, due suoi poliziotti, uomini semplici e bonari, il medico legale un uomo silenzioso e stanco che dalla città si è venuto a nascondersi in provincia e l’assassino, un povero cristo annichilito da quello che ha confessato. Cercano, ma inutilmente; è quasi un viaggio senza risultati. A notte avanzata, affamati, si fermano a mangiare dal sindaco di un paesino sulla strada, si riposano e riprendono la ricerca quasi all’alba. E finalmente a prima mattina trovano il corpo, lo caricano nel portabagagli di una delle due auto e lo trasportano nella cittadina. E qui inizia quasi una seconda parte del film in cui c’è il riconoscimento da parte della vedova, lo svelamento – grazie al dottore – del dubbio che porta con sé da anni, il procuratore generale, sulla moglie e l’autopsia in cui appare una verità non marginale ma su cui il medico preferisce sorvolare.
Anche se può essere classificato di genere poliziesco potremmo dire che non c’è che il pretesto per definirlo come tale, è più semplicemente una commedia drammatica, su uomini addolorati, stanchi e con dei fallimenti nella vita. Un cast di interpreti degni di un premio collettivo, una regia mai invadente ma sempre funzionale alla storia, dei dialoghi che sembrano semplici e casuali ma che in realtà denotano una maestria degli sceneggiatori, una bella fotografia e delle location affascinanti per chi vive in Occidente.
E’ il sesto film che il bravo regista Ceylan ha realizzato, da segnalare tra i film precedenti – anch’essi premiati a Cannes – Uzak-Lontano e Le tre scimmie. E’ un autore che non fa film ‘lenti’, anzi sono ben calibrati e senza tempi vuoti ma fa un cinema dai tempi dilatati ma non come lo intendeva Leone. La sceneggiatura è strutturata un po’ alla Rocco e i suoi fratelli, a quadri, per ogni protagonista. In questo caso lo script è strutturato in tre parti (come in tre atti di Anton Checov citato dall’autore nei titoli): nella prima il protagonista è il commissario Naci, nella seconda il procuratore Nusret, nella terza il medico Cemal. Unica nota di demerito, una ventina di minuti di film di troppo.