Straordinario Guadagnino, che attraverso il tennis ci immerge in un rave party orgasmico sull’eterna giovinezza, contro la forza di gravità della vita e del tempo che scorre inesorabileAllora.
Prendiamo i protagonisti di Jules et Jim, due uomini, una donna, e mettiamoli in un campo da tennis. Poi assicuriamoci che le casse dell’ impianto stereo della sala cinematografica in cui viene proiettato il film, siano in Dolby Surround, o meglio ancora Atmos, e a quel punto lasciamo andare a tutto volume una soundtrack cyber-disco, capace di contaminazioni jungle e dance retrofuturista alla Giorgio Moroder. Proprio così, l’alchimia sembra azzardata ma è formidabile, ed è quello che succede durante la visione di questo ultimo, straordinario Challengers diretto da Luca Guadagnino, con sceneggiatura firmata dal drammaturgo Justin Kuritzkes e musiche elettrizzanti del duo Trent Reznor e Atticus Ross, che per il regista italiano aveva già realizzato Bones and All.
Partiamo dal primo set. Abbiamo due tennisti sulla trentina che si incontrano in finale di un torneo challenger. Il primo, Art (Mike Faist) è un campione che ha bisogno di rimettersi in forma per provare a vincere l’unico slam che gli manca, lo US Open. Il secondo, Patrick (Josh O’ Connor), è un ex talento finito nel dimenticatoio, da anni impegnato in tornei minori. I due sono cresciuti nella stessa accademia di tennis, da ragazzi erano amici, giocavano il doppio insieme e venivano considerati degli astri nascenti. Come Tashi Duncan (Zendaya). Straordinaria tennista juniores, che ha dovuto mollare l’attività agonistica dopo un infortunio al ginocchio e adesso è moglie e manager di Art. Ma è stata anche la ex ragazza di Patrick. E quindi? E quindi la finale che vediamo non è semplicemente una partita di tennis, ma la resa dei conti di un menage a trois iniziato molti anni prima.
Secondo set. “Il tennis è una relazione” dice la giovane Tashi ai giovani Art e Patrick, in uno dei lunghi flashback che “spezzano” la partita. Una relazione di sguardi e corpi che si muovono. Tashi è lo sguardo. L’alter ego registico di Guadagnino, che irrompe nella “coppia” di amici, come una post-moderna Jeanne Moreau (ebbene sì, ancora il classico di Truffaut, aggiornato al XXI secolo da Guadagnino). E che si sostituisce spesso al punto di vista della macchina da presa. Una macchina da presa vorticosa, instabile ma anche frontale, in primo piano sui personaggi che guardano lo spettatore come in un film pop dell’amatissimo Jonathan Demme. E non ci vuole molto per “vedere” quanto Challengers sia, ancora una volta, un atto d’amore nei confronti della giovinezza, una magnifica variazione sul tema per eccellenza del regista: il “racconto di formazione”.
Terzo e ultimo set. Che sembra non finire mai, perché nessuno dei protagonisti vuole davvero smettere di “giocare”. Truffaut, Almodovar, Demme. Eccoci davanti a un magnifico melò a tre camuffato da film sportivo, con il tennis straordinariamente re-inventato e spettacolarizzato da Guadagnino, che amplifica lo spazio-tempo in una dimensione iperrealista e sensoriale, fatta di traiettorie e relazioni impossibili. Dai virtuosismi registici (con tanto di soggettiva impossibile della palla da tennis) a quelli sonori, Guadagnino ci immerge in un rave party orgasmico dove si incrociano tradimenti, bugie, rapporti di forza, passanti, smorzate, baci rubati, smash, doppi falli e abbracci spezzati. Il tutto ossessivamente finalizzato alla ricerca di un contatto, di un godimento “reale”, di un desiderio finalmente appagato. Fino all’ultimo liberatorio “C’mon!”, unico finale possibile di un film meravigliosamente astratto e impalpabile. Un capolavoro che, dietro la sua apparente patina di superficie, sembra anelare all’eterna giovinezza e ingaggiare una lotta struggente e fanciullesca contro la forza di gravità della vita e del tempo che scorre inesorabile.