Il poeta, si sa ‒ e se non lo so si sa, occorre dirlo ‒, è un vagabondo. Vaga di soglia in soglia; di ciglia in ciglia; tra il sonno del sogno; sul ciglio dell’ombra. Il poeta valuta il suo passo, svalutando l’effimero. Vaglia l’assoluto, come l’incompiuto. E forse è proprio per questo che tende a non arrendersi mai; ad essere talmente caparbio, da inorgoglire l’infinito; intestardendo le parole.

Il poeta è e dev’essere un infaticabile camminatore. Sue sono le vette, come le spiagge, le nuvole, e i pensieri smorzati dal vento.

Egli tende al profumo dell’erba come all’onda del mare. L’orda dei romanzi non rimpiangerà mai una sua rinuncia. Tant’è che vale molto più una sua parola scritta tra vent’anni, che centomila scritte in tre mesi.

Il poeta perciò potrebbe assomigliare a uno scultore. O meglio: è lui stesso quello scalpello che interpellerà la roccia resa eterna da una cattedrale.

Forse fu questo il motivo per il quale Rilke scrisse di e su Rodin. Perché lo scalpello e la penna si rispecchiano quali gemelli in un astrale cielo, e non smetteranno mai ‒ entrambi ‒ di far splendere la solitudine del genio tra le generazioni future; se solo scintillassero nel baleno della vita.

Poiché: “Prima di essere celebre, Rodin era solo. E la celebrità, una volta sopraggiunta, lo ha reso forse ancora più solo. Giacché la celebrità è in fondo soltanto la summa di tutti i malintesi che si addensano attorno a un nome nuovo. Quelli che circondano il nome di Rodin sono moltissimi; dissiparli sarebbe un compito lungo e faticoso. D’altronde non è necessario; si assiepano attorno al nome, non attorno all’opera, che è cresciuta a dismisura ben oltre il suono e i limiti di quel nome, fino a cancellarlo e a rendersi anonima come una pianura o un mare, abbreviato in un appellativo sulle carte, nei libri e tra gli uomini, ma in realtà fatto di spazio, moto e abisso. L’opera di cui mi accingo a parlare è andata crescendo attraverso gli anni e cresce ogni giorno come una foresta, incessantemente. Ci si aggira tra i suoi mille oggetti sopraffatti dalla ricchezza dei reperti e delle invenzioni che la compongono, e istintivamente si cercano le mani che hanno dato forma a questo mondo. Ci si rammenta quanto piccole siano le mani dell’uomo, come si stanchino presto e quanto sia breve il tempo loro concesso per agire. E nasce il desiderio di vedere le due mani che hanno vissuto come cento, come un popolo di mani destatosi prima dell’alba per incamminarsi sulla lunga via che conduce a quest’opera. Ci si chiede chi sia il dominatore di quelle mani. Che uomo è mai?”

Eppure il poeta ‒ non bisogna tacerlo ‒ è una fiamma. Il fiato del cervo nel bosco antico. L’umile servo della modestia, tra i crepacci del precipizio e dell’urlo.

Se si arrivasse per davvero a vedere ciò che ha visto Rilke… Se solo per un momento adempissimo il gusto aspro della vita: sorridendo all’ignoto; ignorando l’ignoranza; percuotendo l’egoismo e la sete di potere che non ci lascia. Se brillassimo ‒ ogni volta ‒ il tempo di una candela…

Questo allora è vivere: nessuno e nulla conoscere,
solo ogni cosa veder tremando e non trovar motivo,
per un attimo solo ardere al massimo fulgore
come candela accesa tra l’estranea gente.

 

Oh, poeta! Fiamma vagabonda… Ricordaci quanto è lungo il cammino! E come, ogni volta, bisogna proprio ardere, per illuminarlo al fratello come all’estraneo. Estranei noi stessi al mondo, che non ci riconosce. Eppure cresciamo, incessantemente, come foresta, come abete, come suono, come verbo, come uomo solo.

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