Jean-Luc Godard, nato a Parigi il 3 dicembre 1930 (91 anni). Regista. Tra i massimi esponenti della Nouvelle Vague
• «Si è sempre contraddistinto per la sua produzione attenta alle forme espressive e al contenuto ideologico» (Treccani)
• «Attento a costruire un’immagine di sé sempre sorprendente e fuori dalle regole» Paolo Mereghetti, La Lettura, 1/12/2019)
• «È scostante, irritante, perfino villano. Eppure, ogni volta che compare agli odiati festival, davanti agli ancor più odiati giornalisti, è accolto con applausi fragorosi. E applausi cadono a pioggia su ogni sua parola, finché lui stesso si irrita» (Giuseppina Manin, Corriere della Sera, 11/9/1993)
• Esordì con Fino all’ultimo respiro (1960), una specie di film manifesto, critica radicale del linguaggio cinematografico tradizionale. Poi, in mezzo secolo di attività, ha realizzato più di cento film, di tutti i formati e le lunghezze possibili, tanto che il critico cinematografico Jean-Michel Frodon ha definito la sua opera «una specie di foresta magica in cui ci si perde a piacere».
La Treccani, provando a fare un po’ d’ordine, dà conto di tre «periodi». Il primo, tra il 1960 e il 1967, in cui «alla critica della cinematografia tradizionale, si unì, una sempre più consapevole critica dei valori sociali dominanti».
anne wiazemsky con jean luc godard
Il secondo, tra il 1968 e il 1972, «più esplicitamente militante, sperimentando nuovi modi di produzione e insieme di elaborazione estetica e ideologica».
Il terzo, dal 1975 in poi, in cui «liricità e ironia, consapevolezza della crisi e una nuova sensibilità figurativa sembrano invece prevalere (pur nella fedeltà a un’idea di cinema come rischio formale e ideale e a uno stile sempre innovativo e sperimentale)»
• «Ha fatto la rivoluzione linguistica, scardinando la sintassi cinematografica. Non ha fatto, come forse avrebbe voluto, la rivoluzione sociale» (Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del Cinema – Cento Grandi Registi, Newton&Compton 1995)
• Premio Oscar e Leone d’Oro alla carriera. Due premi César straordinari, massimo riconoscimento del cinema francese. Un Leone d’oro e uno d’argento alla Mostra del cinema di Venezia. Un Orso d’oro e due d’argento al Festival del cinema di Berlino
jean luc godard francois truffaut
• «Da tempo ormai ha fatto perdere le sue tracce. Rifugiatosi in Svizzera, la terra materna, vive quasi da eremita a Rolle, paesino di seimila abitanti tra Losanna e Ginevra. Ed è proprio da casa sua, una sorta di set permanente, che continua a studiare ogni tipo di linguaggio possibile da portare sul grande schermo.
Scontroso, antipatico, ribelle, sempre in antitesi per il gusto di esserlo, Godard parla ormai solo attraverso le sue opere: sempre più oniriche, sempre più ermetiche» (Giacomo Galanti, Huffpost, 28/1/2020)
• «Qualcuno protesta che non si capisce niente, ma è l’approccio convenzionale che qui non regge. Un film di Godard è come entrare nella chiesa del cinema, mentre si svolge un rito. Quanti, del resto, “capiscono” la messa?» (Tullio Kezich, Corriere della Sera, 11/9/1993)
• Lui, del resto, ai giornalisti che gli chiedevano come avesse fatto a girare il suo Ahimè! (1993), spiegò: «Un lunedì ho trovato il denaro, martedì qualcuno con cui fare il film, mercoledì gli attori, giovedì i costumi, venerdì i tecnici, sabato i dialoghi e domenica mi son riposato».
Titoli di testa «“Le andrebbe un’intervista con Jean Luc Godard? Venti minuti, mezz’ora? Non gli si devono fare domande sul passato, niente A’ bout de souffle, niente Truffaut, i Cahiers du cinema, Pierrot le Fou, non ne può più. Ma solo sul presente, sul film che sta cominciando, o sul futuro. Insomma, veda lei…”. Vedo.
E dopo una lunga anticamera nella piccola casa di distribuzione – tutti sussurrano, il maestro aborre le voci alte – dopo che mi è stato dato un dossier di fotografie dal film con le tipiche didascalie godardiane metà geniali metà incomprensibili (“Ogni problema propone un mistero”, “A sua volta il problema è profanato dalla soluzione”) mi ritrovo, chiusa in una stanza dalle pareti imbottite e dalle tende tirate, davanti al maestro» (Irene Bignardi, la Repubblica, 5/2/2000).
Vita Nato ricco. Padre medico, madre figlia di banchieri svizzeri. Lo mandano in un collegio a Nyon, nel Canton Vaud, poi alla Sorbona, facoltà di etnologia, ma non studia. Quando il padre gli taglia i fondi è costretto ad arrangiarsi. L’etnologia non gli interessa, lui in mente ha il cinema. «Il cinema mi ha fatto scoprire un altro mondo, che né la letteratura né la pittura potevano mostrare»
• «In Svizzera per i funerali della madre si ferma a Ginevra, muratore in un cantiere di costruzione d’una diga, e ne approfitta per girare un documentario di 20’, Opération béton (1954)» (Di Giammatteo)
• A Parigi passa giornate intere nei cinemini della Rive gauche. Collabora ai Cahiers du Cinéma. Conosce Rohmer, Rivette, Bazin, Chabrol, Truffaut, i giovani che saranno la spina dorsale della nouvelle vague. «Noi ci consideravamo tutti, ai Cahiers du Cinéma, come futuri registi. Frequentare i cineclub e la Cinémathèque era già pensare cinema e pensare al cinema. Scrivere era già fare del cinema, perché tra scrivere e girare c’è una differenza quantitativa e non qualitativa»
• Hanno le idee chiare. Con disprezzo chiamano il modo tradizionale di fare film cinéma de papa. «A questo i giovani turchi si contrappongono in maniera veemente, sposando la cosiddetta politica degli autori che non è altro che una fanatica promozione dei loro registi più amati, da Jean Renoir ad Alfred Hitchcock passando per Nicholas Ray.
Ed è proprio il regista di Gioventù bruciata, ricorda Godard, che un giorno, fingendo di dover fare una telefonata urgente, passa dalla redazione per vedere il posto in cui si parlava così bene di lui. Questo per dare l’idea del tempo e della straordinarietà di quell’esperienza.
Il giornale ormai è diventato una seconda casa insieme ai cineclub del Quartiere latino. Come racconta sempre Godard: “La sera andavo ai Cahiers come gli altri vanno al bar o al biliardo. E mia moglie non era contenta”.
Una fucina di talenti che prima di pensare a mettersi dietro la macchina da presa aveva in comune il pallino per la scrittura e il sogno di pubblicare un romanzo per la prestigiosa casa editrice Gallimard. Qualcuno ce la farà, non Godard che però mira con tutto sé stesso ad affermarsi come artista tout court. Perché il cinema è arte, dice, come la pittura» (Galanti)
• «La Nouvelle Vague ha preso il nome di Hitchcock, che era scritto piccolo piccolo, e ha detto: questo qui vale quanto Shakespeare e Chateaubriand» (Cristiana Paternò, l’Unità, 6/9/1996)
• Il suo primo lungometraggio, Jean Luc lo gira a trent’anni, nel 1960. «L’anno zero della mia vita». Lo realizza tutto in sole quattro settimane, con pochi soldi, un’unica cinepresa a mano e senza nemmeno tutti i permessi necessari per le riprese in esterna. È À bout de souffle (in italiano Fino all’ultimo respiro).
Anni dopo, presentandolo al pubblico del canale inglese BBC, Bernardo Bertolucci dirà: «Nel cinema esiste un pre Godard e un post Godard»
• «À bout de souffle è la linea di demarcazione tra due epoche della storia del cinema, fu una vera e propria rivoluzione di stile, un coraggioso manifesto artistico siglato dalle generazioni successive di cineasti.
Il soggetto fu scritto da François Truffaut e si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto: dopo un’estate di eccessi in Costa Azzurra insieme alla bella fidanzata americana, un giovane uccide un poliziotto per raggiungere più velocemente possibile la madre morente, ma il ragazzo viene denunciato dalla fidanzata alle autorità.
Truffaut aggiunse alla storia le atmosfere noir dei b movies americani che a lui e al suo amico Godard tanto piacevano, come testimonia inoltre all’inizio del film la dedica alla casa di produzione statunitense Monogram, specializzata in film d’azione. I due amici iniziarono le riprese, ma il set divenne ben presto teatro di contrasti tra Godard e il produttore Georges de Beauregard, a causa dei suoi metodi di lavoro poco ortodossi, che mal si conciliavano con le esigenze economiche della produzione: il primo giorno, infatti, si girò solo per due ore.
brigitte bardot e michel piccoli il disprezzo
Gli attori principali, all’epoca semisconosciuti, erano Jean Paul Belmondo e Jean Seberg. Entrambi, grazie a quella pellicola low budget e a un eclettico e giovane regista parigino, diventarono di lì a poco vere e proprie icone del cinema internazionale. Belmondo interpretava Michel Poiccart, un giovane affascinante che imita le movenze di Humphrey Bogart e vive di espedienti e piccoli furti; Seberg era invece Patricia Franchini, una graziosa studentessa americana che sognava di diventare giornalista e conquistare così la sua indipendenza dagli uomini. Con questa pellicola, Godard vince una scommessa generazionale» (Roberta Errico, The Vision, 19/2/2020)
• «Con l’uso della macchina a mano, le riprese casuali, gli “attacchi” sbagliati, le ripetizioni ossessive, i salti imprevisti da un luogo all’altro, da un volto all’altro (o allo stesso, ma in un luogo diverso) mette in crisi le certezze del cinema narrativo di marca (soprattutto) hollywodiana» (Di Giammatteo
• Diventa famosissimo. «Non c’è regista che gli assomigli, nessuno che sia così cinomane. Il suo è un purismo che snerva o solletica l’entusiasmo. Non c’è un regista così angosciato. Ma il suo mutismo, la sua perenne introversione, risultano palesi. Palese la sua calma siderale, prodotta da tensione più che da appagamento, calma smentita d’un tratto e clamorosamente. Gli accadde di spaccare i mobili di casa, quando viveva con la prima moglie, e di manifestare un’insospettata elasticità di puma durante la lavorazione di Pierrot le fou. Belmondo esitava a spiccare un salto pericoloso e Godard, snervato, lo fece al posto suo esclamando: “Hop-là”. Ha un solo interesse, il cinema, e quel che della sua persona inesaudita il cinema traduce» (Giancarlo Marmori, Cronache di verità, 1969, Immordino editore).
Amore
brigitte bardot e michel piccoli il disprezzo
Fu sposato due volte. La prima, dal 1961 al 1965, con Anna Karina, attrice, sua musa. La seconda, dal 1967–1979, con Anne Wiazemsky, figlia della principessa Wiazemsky nata Mauriac, nipotina di François Mauriac e figlia del figlio di lui, Claude, sposato alla nipotina di Proust. «A Godard interessò solo lo stampo fisico e psichico quel suo modo di essere mite e mai stupida, quella sua faccia da putto d’ascensione barocca» (Marmori) • Dal 1978 vive con una sua collaboratrice, Anne-Marie Miéville.
Politica
Da sempre di sinistra. Per questo destò scalpore, nel 2014, quando, intervistato da Le Monde, disse di sperare che Hollande nominasse primo ministro Marin Le Pen al posto di Manuel Valls. «Per smuovere un po’ le cose. Si faccia almeno finta di smuoverle. Fare finta è sempre meglio che non fare nulla».
Religione
«Lentamente emerge dal fondo della sua psicologia di calvinista una “nostalgia” insospettata per le tematiche religiose» (Di Giammatteo, 1995).
Vizi Ha dedicato un cortometraggio alle sigarette svizzere Parisienne.
Critica
«Jean-Luc Godard è un noto antisemita e non merita l’Oscar alla carriera» (il settimanale degli ebrei newyorkesi Forward, 2011)
• «Credetemi: bisogna fucilare Jean-Luc Godard. Bisogna seppellirlo sotto gli onori, sotto le sinecure. Bisogna affidargli una missione culturale in Costa Rica, nominarlo direttore a vita della Televisione di San Marino. Bisogna creare per lui una cattedra di godardismo al “Collège de France’. Bisogna lanciarlo nello spazio siderale con a bordo le opere complete di Marx e di Céline. L’importante è impedirgli di nuocere, con tutti i mezzi… strappargli la macchina da presa dalle mani…”» (Michel Aubriant, Paris-Presse, citato da Giancarlo Marmori).
Autocritica
«Padre riconosciuto della Nouvelle Vague […] ma anche inflessibile fustigatore di chi sembrava tradire la purezza delle idee originali (le sue polemiche con Truffaut hanno segnato la storia del cinema francese), Godard è stato il più intransigente dei propri critici, pronto a mettere in discussione i film che faceva (“Ho fatto bene delle parti, ma raramente dei film interi” non esitava a dichiarare), e insieme il più esigente dei teorici, sempre alla ricerca di un’idea di cinema ogni volta più alta» (Mereghetti).
Curiosità
Quentin Tarantino e Tim Burton hanno chiamato la loro casa di produzione A Band Apart in omaggio al suo Bande à part
• Appassionato di sport. Da ragazzo giocava a calcio nel ruolo di portiere
• Ha confessato che, da giovane, ogni tanto rubava soldi ai genitori per andare al cinema. «Era necessario, o perlomeno mi sembrava necessario. Una volta ho rubato soldi in famiglia e li ho dati a Jacques Rivette per il suo primo film. Ho rubato per vedere i film e per fare i film»
• Il primo incontro di Bernardo Bertolucci con Jean-Luc Godard, una sera per caso al Festival di Londra: «Io avevo mal di stomaco e l’emozione fu tale che ebbi un fortissimo conato di vomito investendo proprio Jean-Luc! Ricordo che andammo nella toilette del piano terra per pulirci i vestiti a vicenda… » (Bertolucci)
• Non gli piace La vita è bella di Roberto Benigni. «Visto in tv, è divertente. Personalmente lo trovo brutto. Non doveva essere fatto così. Non so come. Dico solo, giusto per aprire un dibattito, che se il film fosse stato onesto avrebbe dovuto intitolarsi La vita è bella a Auschwitz. Questo bisognava fare, perché è questo che dice»
• «Oggi il grande cinema non c’è più, globalizzazione e totalitarismo della tv l’hanno spazzato via»
• «Non basta filmare per fare un film. Come per i telefonini. La gente pensa di comunicare perché parla»
• «Dove trovo il coraggio e l’energia per fare cinema? Penso che dipende dalle gambe e dagli occhi. Io sento la pena di vivere ma ho il coraggio dell’immaginazione e prendo il treno della speranza e penso a chi prende il treno per andare al lavoro e non ha il coraggio di immaginare».
Titoli di coda
«È uno degli ultimi totem della settima arte. Forse l’ultimo» (Galanti).