Sono già 15 anni che Claude Sautet non è più tra noi. Eppure il suo cinema è quanto mai presente, attuale, importante.
E non è raro vedere oggi films che, volutamente o no, si ispirano al suo cinema, come ad esempio il recente NON DICO ALTRO [Enough Said] di Nicole Holofcener.
Il cinema francese, come si sa, è fratello, magari minore, magari no, dello straordinario tesoro della letteratura d’Oltralpe. Per questo motivo, forse, tanto suo cinema è soprattutto fatto di parole, di intrecci, di relazioni umane.
Tuttavia, nel cinema di Sautet non troveremo particolari innovazioni, esperimenti sul linguaggio cinematografico, sul “découpage”. Il suo cinema non è rivoluzionario, nel senso che si intende con questo termine. Le sue sono storie, racconti di vita comune, di gente comune. Spesso i suoi ambienti sono le “brasseries” o i “bistrots”, luogo preferito per spuntini e scambi di battute nelle pause di lavoro. Ancora più spesso, le sue storie raccontano personaggi apparentemente bene inseriti nel loro contesto sociale. Svolgono le loro attività, escono spesso con gli amici, vivono con apparente soddisfazione la loro vita. Questa tranquillità viene infranta da improvvisi accadimenti traumatici che la mettono a dura prova e che obbligano a riflettere seriamente su se stessi, a mettersi in discussione, a ri-vedere il proprio modo di agire e pensare.
Pur trattando storie quotidiane, non c’è mai nulla di scontato, di banale in Sautet. Ogni storia è trattata in modo onesto, autentico. Ogni storia è come vissuta personalmente, con passione e sincerità. Non ci sono le classiche convenzioni delle commedie, gli happy-end stucchevoli, le false soluzioni rassicuranti. Nei suoi film si respira il senso spesso tragico della vita, la constatazione della propria inadeguatezza per le esigenze dell’altro, degli altri e del mondo in generale.
Non troveremo nei suoi film le atmosfere noir, le scenate melodrammatiche, l’azione mozzafiato, la violenza gratuita ed eccessiva, il turpiloquio, le battute volgari, la comicità, la farsa. E non troveremo nemmeno il cinema di denuncia, il deciso impegno politico, la ribellione al sistema. Il suo è un cinema parlato e non urlato, composto di persone comuni in ambienti quotidiani e in situazioni quotidiane.
Sarebbe erroneo però considerare i suoi personaggi gli uni uguali agli altri. Come ha dichiarato lo stesso Sautet in un’intervista (1), c’è una doppia natura in lui che si riflette nei suoi personaggi. In MADO e IL COMMISSARIO PELISSIER i toni sono attenuati, in E’ SIMPATICO MA GLI ROMPEREI IL MUSO e TRE AMICI, LE MOGLI E(AFFETTUOSAMENTE) LE ALTRE, i personaggi spesso sono alterati. Si direbbe comunque che, con l’andar del tempo, Sautet opti per un cinema di sussurri, di conversazioni pacate, dove i contrasti, dopo un momento di forte tensione, tendono a tornare sui soliti binari di vite vissute con compostezza.
Cessati gli echi del maggio ’68, ci troviamo di fronte a personaggi che, come ricorda Claire Vassé (2), “compiono i primi passi verso un’era neo-liberale che prepara l’avvento del giscardismo. Sautet è riuscito così bene a descrivere questa nuova borghesia che si è avuto la tendenza a considerare il suo cinema in osmosi con il suo tempo”). “E’ questa delicata alchimia”, scrive Franck Garbarz (3), “fra le traiettorie d’un pugno di personaggi e un contesto sociale chiaramente delimitato che rende i protagonisti di Sautet così immediatamente vicini a noi e qualifica tutto il suo cinema.”
Un cinema che, a differenza di quel che si pensa, vista la semplicità apparente della messa in scena, si basa su “una secchezza di tratto, un’economia nel trattamento del racconto, una precisione della direzione …caratteristiche che i critici più avveduti avevano saputo captare fin dai suoi primi films” (4).
Un cinema di uomini e donne, di relazioni appassionate oppure abitudinarie, sbilanciate, interessate, stanche. Un cinema di uomini falsamente sicuri di sé, ma fragili; di donne apparentemente fragili e magari solo fragili, ma autentiche, proprio come le sentiamo e vediamo quotidianamente.
Un cinema che ci fa sentire dentro le sue storie, perché Sautet lo capiamo e quindi lo amiamo e perché, diciamolo pure, Sautet è uno di noi.