La prima intervista a Eleanor Roosevelt, il Vietnam, l’India con Lennon, la marcia di Martin Luther King: il giornalista ripercorre le tappe della sua incredibile vita
Furio Colombo, festeggia il compleanno o il 2021?
«Sempre l’arrivo del nuovo anno, mai il contachilometri personale, da quando ero bambino».
Dove?
«A Roma, con la famiglia di Stefano Eco, figlio di Umberto. Figlia e i nipoti sono a New York. Quest’anno va così».
Il primo pezzo non si scorda mai?
«Una chiacchierata con Eleanor Roosevelt, nel febbraio del 1961: neppure sapevo sarebbe diventato un articolo».
E invece?
«Quello era il tempo, bellissimo, delle lettere, che scrivevo, e così feci anche quella volta, spedendola a Eco. Due settimane dopo a Times Square, all’epoca l’unico punto in cui arrivavano i giornali italiani, presi Il Mondo, e nel paginone centrale c’era l’intervista».
Quello fu l’inizio?
«Mi scrisse Pannunzio (il direttore, ndr): chiedeva pezzi più lunghi, perché voleva metterli nella pagina centrale. Una volta io, l’altra Arbasino».
New York è la sua casa dolce casa?
«Prima di Trump, sì. Mia moglie, Alice, è americana, i miei primi amori furono avvolti in quella cultura».
E adesso?
«Si dice che il Covid abbia lasciato un’impronta sulla psiche, ma è così pure per Trump: la sua influenza, negativa, è stata più pesante di quella, positiva, che fu di Franklin Delano Roosevelt».
Perché?
«Ha risvegliato il razzismo, per dire. E ora non basterà chiudere il cassetto».
Peggio di Nixon?
«Sì. Nixon ha commesso dei reati comuni approfittando di essere un presidente, Trump ne ha fatti contro la Costituzione».
Cosa significa Torino?
«Quando l’allora Pds, fu Veltroni, mi offrì la candidatura, risposi: sì, ma a Torino, dove avevo casa e università».
Da lì decollò verso il mondo: scelga un avvenimento.
«Le marce di Martin Luther King, il giorno di “I have a dream”, il Lorraine Motel di Memphis: entrai con Andrew Young che aveva tra le mani la sua testa insanguinata».
Come nasce il documentario sui Beatles?
«Capitai in un hotel di New Delhi, tornando dal Vietnam, e nella hall vidi John Lennon. C’era pure Mia Farrow, che avevo conosciuto a New York, e che mi svelò che i Beatles stavano andando al santuario di Ashram».
Più bravo o più fortunato?
«Con Lennon ci fu empatia, ma mi sono capitate situazioni del tutto casuali: in Vietnam, l’offensiva del Tet portò il fronte da me, il contrario non sarebbe mai successo».
Nel film «Cronisti d’assalto», Robert Duvall dice a un suo giornalista: «Noi raccontiamo quel mondo, ma non ne facciamo parte». Lei pareva sul confine: come ha fatto?
«Non lo so. Dico che mi è andata bene. Però c’è una cosa curiosa: non ho quasi fotografie con le persone con cui sono stato. Eppure, per dire, ho girato mezza America con John Lennon. Qualcosa significa».
Per non parlare dei divi di Hollywood.
«Il mio punto di riferimento era Henry Fonda, che aveva sposato Adfera Franchetti, donna bellissima e intelligente, che ispirò a Hemingway Di là dal fiume e tra gli alberi. Mi invitavano a colazione e cena e così vedevo i grandi del bel cinema».
Toccavano pure a lei le leggendarie telefonate all’alba dell’Avvocato?
«In realtà, di calcio non sapevo nulla, e mai mi finsi sportivo. Ma una volta mi chiese di accompagnare la Juventus alla Casa Bianca, lo voleva Bush. Il giorno prima lo passai in hotel, a imparare i nomi di tutti i giocatori».
Era di casa pure a Washington?
«Potevo andare alla Casa Bianca a trovare il consigliere per la sicurezza nazionale: spesso nominavano uno che già avevo conosciuto».
Per esempio?
«Un’estate ero andato ad Harvard per seguire un corso di politica, con Arbasino e La Capria. Sa chi era il docente? Henry Kissinger».