Jhumpa Lahiri, una delle migliori scrittrici americane contemporanee, Premio Pulitzer nel 2000, di origine bengalese ma cresciuta negli Stati Uniti, da un paio di anni ha lasciato New York per trasferirsi a Roma e studiare la nostra lingua. L’ha imparata così bene che ha pubblicato un libro in italiano (In altre parole).
Nei suoi romanzi, editi da Guanda, fin dalle prime pagine compare il cuore della storia che verrà. Nell’Omonimo assistiamo al parto e al dilemma intorno al nome del neonato, che poi è un dilemma fra culture, quella indiana e quella americana, tra modi diversi di definire l’identità. Nella Moglie vediamo due fratelli ancora bambini, Subhash e Udayan, davanti al golf club di Calcutta, luogo simbolo delle differenze tra il mondo indiano e quello occidentale, luogo che tornerà tragicamente dopo, quando Udayan ormai adulto verrà ucciso dalla polizia per aver progettato un attentato proprio lí. Sono incipit potenti, molto evocativi, che prefigurano il resto.
C.B.: Quando comincia una storia ha già tutto chiaro?
J.L.: Non è chiaro, all’inizio. Spesso ho un’idea, ma è un’idea molto vaga. Provo a entrare nel mondo della storia, cerco la porta giusta. Può essere quella porta oppure un’altra, oppure una finestra, non lo so, ma devo trovarmi dentro la storia, devo trovare l’ingresso. È difficile, perché spesso una storia non comincia con l’incipit.
Come si arriva all’incipit allora?
Io ci arrivo scrivendo e pensando. A volte comincio una storia, scrivo, scrivo e a un certo punto mi dico: “Ah, deve iniziare qui!” E magari succede dopo aver scritto molte pagine. Arrivo a un momento che mi sembra giusto, spesso ci vuole qualche mese per scoprire l’incipit. Lo spunto può essere un dettaglio, una scena, un pezzettino di dialogo, dipende. Di rado un incipit è ovvio, di rado si presenta così, purtroppo.
Un esempio?
Con La moglie io sapevo che la descrizione dell’ambiente era l’incipit giusto. Ma ci ho messo anni per ridurre quella descrizione a una pagina. Prima era un capitolo di otto o nove pagine e mi sembrava troppo. Ho dovuto togliere tutto. La scena al Tolly Club è arrivata dopo qualche anno. Perché io devo capire innanzitutto i personaggi, senza averli capiti non riesco a capire la storia: loro mi danno tutto, anche la struttura.
Ci parla del lavoro preliminare, quello che si svolge nella sua mente, prima di cominciare? Quando capisce che un’idea può diventare un romanzo?
Non riesco a capire senza scrivere. Ho in mente una cosa, un’idea vaga, poi prendo qualche appunto o scrivo un paragrafo, una descrizione: un viso, un paesaggio, un sentimento, un’emozione. Poi, però, ci vuole un motore. Capisco che è giusto quando c’è un movimento, quando la storia si svolge. Allora è chiaro: se c’è un movimento che posso seguire, c’è un’energia, c’è qualcosa di inevitabile.
Che cosa deve avere un incipit per catturare il lettore fin dalle prime righe? Ci sono inizi lenti e inizi folgoranti. Lei cosa preferisce?
Dipende. Può essere lento o può essere folgorante. A me piace cambiare. Per esempio, ho scritto un racconto intitolato Una volta nella vita che inizia molto lentamente: non si capisce dove andrà la storia, è un incipit disteso, non c’è una tensione o un dramma che si vede subito. Ma è arrivato così. Come si entra in un posto? Si può entrare direttamente: ecco la porta, andiamo. Ma la via può anche essere lunga, rilassata. A me piace seguire il mio istinto, non ho nessuna formula.
Nei racconti, spesso lei comincia da un accidente o da una situazione: da un guasto alla luce o da un trasloco. L’incipit di un racconto dev’essere diverso da quello di un romanzo?
L’inizio deve introdurre gli elementi della storia. Il romanzo può iniziare in modo più lento, invece nel racconto è importante iniziare in mezzo alle cose, l’incipit deve essere più veloce perché tutto è più urgente. Dà velocità al racconto, un incipit del genere, è importante. Un racconto è come un treno che passa. Un romanzo è come andare in macchina: si entra, si gira la chiave, poi si accelera.
Scrive in ordine, partendo dall’inizio, oppure torna indietro? Fa molte stesure?
Una valanga. Ogni stesura è molto imperfetta. Vado avanti e torno indietro continuamente. Di solito scrivo a mano e poi lavoro al computer. Poi c’è un manoscritto, qualcosa di stampato, insomma. Rileggo sulla carta, prendo appunti ai margini e torno sullo schermo. A me serve qualcosa di fisico in mano, di palpabile. Senza, non riesco a capire quello che scrivo. Sullo schermo c’è una distanza che non mi piace. E preferisco sempre scrivere a mano.
E passa del tempo fra una stesura e l’altra?
A me piace molto lasciar riposare un manoscritto almeno per qualche mese. L’omonimo, per esempio: ho iniziato a scriverlo e poi non l’ho toccato per due anni. Temevo che fosse un fallimento. Un giorno l’ho riletto e sono riuscita a vedere delle cose che mi sfuggivano. Non è un processo lineare. Inizio con intensità, poi c’è un momento in cui sembra impossibile andare avanti. E ci ritorno. Anche con La moglie è stato così perché ho iniziato quel romanzo nel ’97, con la scena madre, in cui Udayan viene ucciso. È la prima cosa che ho scritto. Dopodiché, non sono più riuscita ad andare avanti. Sembrava una porta chiusa. Quindi ho messo le pagine in un armadio. Ho pubblicato altri tre libri e dopo dieci anni l’ho ripreso.
Quindi La moglie in realtà è il suo primo romanzo?
Sí, lo è. È incredibile, ma in realtà è il primo. Io lo ritengo il mio primo libro insomma, ma non l’avrei mai scritto senza i successivi…
Quando nasce un personaggio nella sua mente o sulla pagina, lei lo conosce già o lo scopre nel tempo?
Io scopro tutto tramite la scrittura. I personaggi cominciano ad accompagnarmi, come fantasmi accanto a me. Prendo il tè e loro sono lì, nella periferia della visione, sempre, per tutto il periodo della scrittura. In questo modo crescono i personaggi, piano piano, perché penso sempre a loro. Mi appaiono anche fisicamente.
E la stupiscono, fanno delle cose che non si aspettava da loro?
Certo. Per esempio io non sapevo che la moglie se ne sarebbe andata, non lo sapevo. Mi chiedo ancora adesso: “Ma chi è? Da dove è venuta?” Vengono dal cervello, i personaggi, o dalle suggestioni. Magari conosco una persona, scambiamo due parole, mi dice qualcosa che rimane con me e questo qualcosa diventa uno spunto. La persona in questione, poverina, non è consapevole di avermi regalato un punto di partenza che mi interessa, ma spesso è così.
Quali sono gli incipit di romanzo che le piacciono di più?
La camera di Giovanni di James Baldwin. García Márquez ha degli incipit fantastici. C’è una situazione già iniziata, ricca e complessa, poi arriviamo noi lettori per raggiungere la storia. Questo mi piace!
Tre cose da non fare.
1. Non giudicare.
2. Non essere impaziente.
3. Non restare in superficie.
E’ in libreria per nottetempo L’arte di raccontare, dieci interviste di Caterina Bonvicini e Alberto Garlini a John Banville, Emmanuel Carrère, Javier Cercas, Jhumpa Lahiri, Petros Markaris, Yasmina Reza, Colm Tóibín, Edward St Aubyn, Elizabeth Strout e Luis Sepúlveda. Le conversazioni riguardano metodi di lavoro e tecniche di scrittura, dalla costruzione dei personaggi ai dialoghi, dall’ambientazione al punto di vista. Pubblichiamo di seguito l’intervista di Caterina Bonvicini a Jhumpa Lahiri: il tema è l’incipit di una storia