Un Cortázar-flâneur abbacinato dalle bellezze di Roma, Napoli e Firenze. Ecco una istantanea dello scrittore durante il suo soggiorno in Italia tra il 1953 e il 1954. Lui stesso racconta le motivazioni che lo spinsero a recarsi nella penisola per la seconda volta; il 15 gennaio 1954 Cortázar scriveva da Roma al suo amico Eduardo Jonquières: “È praticamente diventata una corsa contro il tempo. Divertente e stimolante. I nostri piani sarebbero questi: terminare Poe – traduzione e revisione – entro la fine di febbraio. Una volta soddisfatta la coscienza, scendere un paio di giorni a Napoli (non mi dimenticherò di Ravello, sois sans crainte!) e da lì proseguire lungo il cammino di scudi azzurri e dorati e di frange bianche e nere: Orvieto, Arezzo, Siena, San Gimignano, Perugia, Assisi e infine Firenze. Qui ci fermeremmo per un po’ perché io possa finalmente archiviare Poe, ovvero possa scrivere lo studio preliminare e le numerose note che devono dare all’edizione un’aria vagamente universitaria (priva di pedanteria, promesso)” (Cortázar, 2013: 28).
Le lettere di Cortázar costituiscono il diario di bordo, indispensabile, per seguire la rotta tracciata dal libro La felicidad de los museos. Julio Cortázar, alguien que anduvo por Italia (Cleup, 2020) che propone un itinerario del tutto inedito attorno all’opera di Cortázar.
Maria Amalia Barchiesi, professore associato presso l’Università di Macerata e studiosa della letteratura e degli immaginari culturali ispanoamericani analizza le influenze che l’elemento museo ha avuto sull’opera dello scrittore argentino. In particolare, esplora un periodo ben preciso: il soggiorno di quasi un anno che portò Cortázar a diventare frequentatore assiduo dei musei italiani. Da settembre 1953 a giugno 1954 lo scrittore è principalmente a Roma, immerso nella traduzione della prosa di Edgar Allan Poe che gli era stata commissionata dall’Università di Puerto Rico.
Come scrive nelle sue lettere, visita fino a cinquanta volte gli stessi musei e gallerie della capitale: Musei del Vaticano, Musei Archeologici, Galleria Borghese, Galleria Barberini, Galleria Corsini, tra gli altri. Resta estasiato dai marmi bizantini, italiani e francesi dei Musei del Vaticano e dalle sue sale etrusche con le ceramiche e i vasi greci rinvenuti nelle necropoli etrusche. Da questa profonda esperienza multisensoriale nasceranno tre poesie tra cui I dioscuri, in un chiaro rapporto intertestuale con l’Ode su un’urna greca di John Keats. La storia di Castore e Polluce ricorre in altri scritti cortazariani rispecchiando quella “figura del doppio così ricorrente nella sua narrativa, legata a una sorta di esilio obbligato che lui stesso poté esperimentare nel corso della sua vita” (Barchiesi, 2020: 40). Così anche nelle Istruzioni-esempi per avere paura ritroviamo i due personaggi mitologici: “Nella piazza del Quirinale, a Roma, c’è un punto noto agli iniziati fino al XIX secolo, e dal quale, con la luna piena, si vedono muovere lentamente le statue dei dioscuri che lottano con i loro cavalli impennati”(Cortázar, 1994: 372).
Sempre durante il suo soggiorno nella capitale Cortázar troverà spunto per stilare le sue leggendarie “istruzioni” (memorabili quelle per uccidere le formiche a Roma, quelle per salire una scala o per capire tre quadri famosi, tra le tante). Lo scrittore anticipa questa profonda necessità in una lettera del 1954 a Jonquières:
Tra le varie cose degne di nota, ho notato che vendevano dei libretti con le “istruzioni per salire la Scala Santa” e mi è sembrato fantastico. Tanto fantastico che mi sono reso conto di quanto siamo orfani di buone istruzioni per fare tutta una serie di cose importanti. Ci sarebbe bisogno di istruzioni per bere una tazza di caffè, per esempio, o per sedersi su una sedia. Sono cose elementari – quindi profonde, quindi solitamente fraintese. Come si accende un fiammifero? Tu lo sai? No, lo accendi. Ma se dal fiammifero, per un tuo gesto maldestro, spuntasse un giorno un enorme cipollotto? Ecc, ecc. Riconoscerai, pertanto, che il Manuale è assolutamente necessario. Qualcuno dovrebbe scriverlo. (Un inglese, probabilmente) (Cortázar, 2013: 32).
Il volume, edito nella collana Lince-o. Saperi nomadi diretta da Antonella Cancellier e altri studiosi, offre una interessante analogia tra il museo e il labirinto, luoghi dove è facile perdersi senza la presenza di una guida. D’altronde, come sottolinea Barchiesi, anche il lettore più esperto potrebbe “perdere facilmente il filo di Arianna, per via dello sconvolgente e intricato ammasso di luoghi visitati dallo scrittore argentino in questo periodo o per l’esuberanza di bellezza che descrive e analizza in queste pagine” (Barchiesi, 2020: 18).
Cortázar si smarrisce nel piacere provato dal (ri)trovare nei musei italiani tantissime opere che conosceva bene e che aveva scoperto a Buenos Aires grazie a riproduzioni più o meno autentiche. Tuttavia, la percezione che ha lo scrittore dell’ambiente artistico italiano ed europeo che lo circonda non è mai neutro né trasparente per via dei molteplici riferimenti intertestuali e delle rappresentazioni e narrazioni altrui e per le sue innumerevoli letture, oltre alle esperienze e ai suggerimenti degli amici che orientano il suo sguardo. Il museo-labirinto dello scrittore diventa un “modello vagabondo il cui motore è il desiderio […], principio estetico che non è la ricerca dell’elemento irrazionale ma la sospensione o l’indicibilità della soluzione di qualsiasi sistema labirintico” (Barchiesi, 2020: 32). Continue risultano in questo senso le allusioni a Rayuela, il romanzo-museo-laberinto per antonomasia, dove il piacere dello smarrimento e della ricerca muovono il lettore avido di esperienze, di incontri inaspettati e di rivelazioni inattese.
Tra i meriti di La felicidad de los museos, quello di scrutare lo sguardo intertestuale di Cortázar che visita luoghi reali (musei, parchi, monumenti) precedentemente letti, studiati, analizzati. Emerge la volontà di decostruire quello ‘sguardo turistico’ tanto in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo e contraddistinto dalla banalità, superficialità e incipiente mercificazione. Cortázar delinea un nuovo tipo di sguardo durante il suo girovagare a Parigi, quando scrive:
Continuo a guardare. Guardare. Qui non mi stancherò mai di guardare. Osservo che gli argentini che arrivano vanno per le strade e guardano solo di fronte, come a Buenos Aires, non guardano né in alto né ai lati. Si perdono tutti quegli incredibili androni, quegli ingressi misteriosi che si affacciano su vecchi giardini, con fontane e statue, i cortili di tre secoli fa, intatti… (Cortázar, 2010; Cartas a los Jonquières, mia traduzione).
Realtà, finzione, intuizione. Cortázar condivide il suo stupore e gioia di fronte a luoghi, albe e tramonti: “Ogni luogo visitato è il frutto di numerosi incontri e narrazioni stratificate nella sua memoria; è inoltre quello che è sopravvissuto al cambiamento, una bellezza segreta che si manifesta a chi la cerca: una intuizione” (Barchiesi, 2020: 99).
Nel 1951 dopo il suo primo viaggio in Italia Cortázar racconta al suo amico Fredi Guthmann ciò che era riuscito a toccare con mano, traducendo in realtà quanto aveva intuito dalle sue letture e dalle narrazioni altrui:
Fredi, Venezia era ciò che mi aveva annunciato lei in una lettera: la vecchia cortigiana che offre un mazzo di violette appassite. Un giorno, alla Giudecca, ai piedi della Calcina, mi sono ricordato all’improvviso che era da Venezia che vi siete imbarcati per l’Oriente. Per tutto il viaggio sono stato ossessionato dagli sguardi che, prima del mio, si erano posati su quei luoghi. Mi dicevo: “Questo Carpaccio – che pittore, Fredi! – l’hanno visto loro prima di partire”. […] A Pisa, camminando lungo l’Arno, mi sembrava di vedere i capelli sciolti di Shelley, la sua risata acuta. E quando sono stato al cimitero acattolico di Roma, e mi sono fermato davanti alla tomba di Keats, ho pensato a tutti coloro che l’avevano fatto prima di me (immagino anche lei) e mi è sembrato che l’Europa fosse proprio questo: un luogo dove si incontrano, imprevedibilmente, gli sguardi degli individui che meritano di vivere (Cortázar, 2013: 18-19).
Dal 1953 al 1954 Cortázar avrà modo di visitare anche Napoli, Orvieto, Firenze, Pisa, Padova e Venezia. Ogni tappa sarà particolarmente prolifica e troverà spazio nelle sue opere: la copia in marmo del Doriforo conservata al Museo Archeologico di Napoli trapela nella già citata Ode su un’urna greca di John Keats; le armi, oggetti e suppellettili rinvenuti negli scavi di Ercolano e Pompei e che Cortázar ebbe modo di osservare sempre al Museo Archeologico diventano protagonisti nel racconto Tutti i fuochi il fuoco dell’omonima raccolta (1966). In queste pagine lo scrittore dispiega tutta la sua passione gladiatoria e permette una ricostruzione filologica dei giochi gladiatori, come analizza dettagliatamente Barchiesi (2020: 108-115).
Il 21 marzo 1954 Cortázar arriva a Firenze dove visita chiese, monumenti e musei. Resta estasiato dal Masaccio, tra i suoi pittori preferiti, che ricorre in tante sue opere a partire dal capitolo 132 di Rayuela dove viene immortalato un particolare tratto dalla Cacciata dei genitori dall’Eden della Cappella Brancacci della Chiesa di Santa Maria del Carmine. E parlando della miriade di artisti da visitare, scrive a Eduardo Jonquières: “È impossibile fissare degli appuntamenti con i pittori come si fa in ufficio. Non si può vedere alle dieci Fra’ angelico, alle undici Masaccio e alle tre Paolo Uccello. Questi 4 mesi (già passati!) di Roma mi dimostrano come un punto di vista possa perfezionarsi e affinarsi quando si prende il suo tempo, che non è quello turistico. Vivere a Firenze mi sembra un’ottima prospettiva. Farò come faccio qui, dividerò la giornata tra il lavoro e i vagabondaggi vari” (Cortázar, 2013: 28-29).
Un Cortázar-esteta-vagabondo alla ricerca dell’unicità dell’esperienza artistica che si muove nei territori della bellezza da cui trae incessante ispirazione. Lo scrittore si impossessa degli oggetti e dei luoghi visitati in un modo del tutto singolare e li traduce alla maniera di un collezionista: li accumula e li sedimenta via via nei suoi romanzi e nelle sue narrazioni, obbligando il lettore complice a tuffarsi in una vertiginosa lettura verticale, sempre più in profondità, con lo stesso atteggiamento del suo autore dinanzi a un’opera d’arte.
* I frammenti delle lettere sono tratti da Carta carbone. Lettere ad amici scrittori (Sur, 2013) nella traduzione, selezione e cura di Giulia Zavagna. I testi inerenti alle Istruzioni sono tratti dal libro I racconti (Edizioni Einaudi-Gallimard, 1994) a cura di Ernesto Franco.