“Negli ultimi giorni i tamburi di guerra sono diventati assordanti. È come se tutti fossero diventati i personaggi di un videogioco che, in preda a una pericolosa agitazione, si comportano come se le loro azioni non avessero delle conseguenze sulla vita reale”, scrive il quotidiano libanese Daily Star, in un editoriale critico verso un intervento militare affrettato in Siria.
“Purtroppo, gli abitanti del Medio Oriente non hanno a disposizione un telecomando. Le decisioni e i piani stabiliti questa settimana non tengono in considerazione la situazione sul terreno. Nessuno dei leader che pontificano sull’imperativo morale di intervenire in Siria sembra aver pensato alle ripercussioni, non solo sulla popolazione siriana, ma su tutta la regione. Gli abitanti del Medio Oriente aspettano con il fiato sospeso di vedere a cosa andranno incontro. Molti siriani che vivono nelle vicinanze dei possibili obiettivi militari hanno già abbandonato le case. Gli abitanti del sud del Libano si chiedono, invece, quale sarà la loro punizione, dopo che Iran ed Hezbollah avranno attaccato Israele per rappresaglia”.
Fortunatamente, osserva il Daily Star, oggi l’intervento occidentale non sembra più così imminente. “Il mondo dovrà aspettare – anche se non sappiamo ancora quanto a lungo. E tutto questo è un bene. Lanciare un’azione militare sull’onda dell’emozione non è mai una strategia giusta”.
Un altro quotidiano libanese, L’Orient le Jour, è scettico anche riguardo all’idea di un attacco “limitato”, circoscritto cioè ad alcuni obiettivi strategici: “In questo caso, gli occidentali avranno salvato la faccia solo a metà. E soprattutto, nonostante la loro virtuosa indignazione, non saranno riusciti a mettere i siriani in salvo dai gas tossici del regime, che dovrebbe essere lo scopo principale della missione. Non è con uno spettacolare, ma poco efficace, fuoco d’artificio che spegneremo il braciere siriano”.
Una minaccia per la stabilità. Anche tra gli analisti occidentali si moltiplicano le voci contrarie all’idea che gli Stati Uniti bombardino la Siria. E, a volte, studiosi che partono da posizioni opposte arrivano alla stessa conclusione. Richard Falk, esperto statunitense di diritto internazionale e relatore speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati, nel suo blog critica gli intellettuali come Edward Luttwak, convinti che la strategia migliore in Siria sia non fare nulla perché non è auspicabile né la vittoria di Bashar al Assad né quella di forze ribelli con una forte componente jihadista. Falk, invece, sostiene che non si debba intervenire perché le giustificazioni addotte finora da Washington (la necessità di dare credibilità alle minacce già espresse, la punizione di un crimine efferato, l’idea di favorire, attraverso l’uso delle armi, l’apertura di un canale diplomatico) non sono abbastanza forti.
Il giornalista britannico Misha Glenny riflette anche sulla difficoltà di studiosi e analisti di esprimersi sulla situazione siriana. Da un certo punto di vista, sostiene Glenny, “la questione non riguarda solo l’uso delle armi chimiche. Questa guerra minaccia la stabilità di tutto il Medio Oriente, rendendo ancora più fragili gli equilibri nei paesi circostanti”. Se guardiamo a quello che è successo nel corso della storia, la Siria ci appare oggi come il possibile detonatore di un conflitto ancora più vasto, che “può essere disinnescato solo se le parti coinvolte sono pronte a giungere a un compromesso”.