Maria è diventata una storia. E, attraverso di essa, nuovamente parla. In verità di parlare ancora non ha del tutto smesso, è dire a risultarle complesso: esprimersi è una parola. Spesso ha difficoltà a condire: pure il condimento è linguaggio, comunicazione, sapere di sapore. Dire ha significato dalla sua radice, dalla radice indoeuropea “dic”: “dire” vuole dire “mostrare, indicare”. Difatti quando Maria parla ma non dice, indica. Se sbaglia a condire, ci pensa il suo sposo a correggere: in principio non la riconosceva: ha imparato a riportare in pari la comunicazione che fa acqua, a riempire i vasi comunicanti dei nervi ora spezzati. Maria se non dice almeno parla perché “parlare” ci fa parabolani, persone che costruiscono un linguaggio di similitudini, di immagini. “Il linguaggio, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno”: secondo Lacan la parola si realizza nell’incontro con l’altro. Maria ogni giorno rivede l’altro, l’altro da sé, lo sposo rimasto intatto che raccoglie i suoi pezzi e riaccorda, acconcia la parte rotta del pensiero. Quest’altro che le è rimasto accanto la sostiene senza fronzoli, soltanto restando: insieme è dirsi senza parlare.
«Le varie forme di demenza hanno in comune la perdita progressiva e inarrestabile delle capacità cognitive e intellettuali. Sono compromessi il pensiero astratto, il rapporto con la realtà, la memoria, l’orientamento spaziale, la capacità di giudizio e le funzioni sociali e professionali. Possono essere compromessi linguaggio e vista, a volte anche in fasi precoci, a seconda della localizzazione e dell’estensione della lesione cerebrale. (…) Si ha sempre più motivo di credere che la demenza sia spesso, se non sempre, non una malattia monocausale ma una sindrome, cioè una malattia con più cause». Fu il neuropatologo tedesco Alois Alzheimer a parlare per la prima volta di “degenerazione neurofibrillare”, definizione luminosa per descrivere un fenomeno buio come quello della senescenza, della demenza senile, o dell’Alzheimer com’è comunemente chiamato. Perciò oggi la malattia, o meglio la sindrome, porta il suo nome. Ne ripercorre le cause, la storia e gli studi in La mente fragile (Cortina, 2018) Arnaldo Benini, docente di neurologia all’università di Zurigo.
E arrivando a conclusioni che in parte spaventano: poco si sa di questa sindrome e non esiste alcuna cura, se non prendendosi cura di chi ne è affetto. «L’Organizzazione mondiale della sanità, nella seduta del 29 maggio 2017, ha adottato un piano d’azione globale per la prevenzione della demenza, che dovrebbe avere la priorità nella politica sanitaria. I rischi che prende in considerazione sono sette: ipertensione arteriosa, disturbi cardiocircolatori, sindromi metaboliche; alcolismo; tabagismo; depressione; insufficiente attività fisica, isolamento sociale e altri fattori legati allo stile di vita; diminuzione e perdita dell’udito; basso livello culturale». La persona colpita da questa patologia ha difficoltà a riconoscere, come spiega Benini: «Frequente è l’agnosia, l’incapacità di dare un senso a cose e oggetti comuni, anche se li si vede ancora bene; l’immagine non è più interpretabile, per cui l’ammalato può tenere in mano un oggetto di uso comune senza sapere che cosa farne. L’anosoagnosia, l’inconsapevolezza della propria condizione mentale e fisica (…) può proteggere dalla depressione e dalla disperazione».
Come dire: non sapere alle volte salva. Lo psichiatra Giuseppe Muggia definisce la senescenza “cachessia della mente”, ovvero sua cattiva condizione. Più specificamente la demenza è un danno del parenchima cerebrale, ma anche in questo caso saperlo non è sufficiente a diagnosticarlo per tempo, così come sapere «che nei cervelli di dementi si trovano placche di proteine fra i neuroni e neurofibrille dentro i neuroni» perché «le une e le altre si trovano anche nei cervelli di persone sane». Nulla di fatto, si torna al punto di partenza.
Quasi contemporaneamente a La mente fragile di Benini, lo stesso editore Raffaello Cortina pubblica un altro saggio intimamente legato al primo, Il mistero del linguaggio del noto linguista Noam Chomsky. E forse la cosa più evidente che i due libri hanno in comune è la constatazione che pochissimo sappiamo di entrambe le questioni, della demenza senile e del linguaggio, e che quest’ultimo è tra le conseguenze e la sintomatologia più manifeste della stessa sindrome. «Sono molte le domande che possiamo porci sul linguaggio. Quella fondamentale è certo la seguente: che cos’è il linguaggio? Nella misura in cui riusciamo a comprenderlo, possiamo procedere allo studio di altre domande significative. Mancando questo, la ricerca risulterebbe inevitabilmente limitata. Nessun biologo, per esempio, cercherebbe di studiare lo sviluppo dell’evoluzione dell’occhio senza un’idea assolutamente chiara di che cosa sia un occhio e della sua natura essenziale». Cos’è dunque il linguaggio? Fondamentalmente “un sistema del pensiero”, un “pensare acustico”, e forse non è nemmeno un caso che Chomsky paragoni la conoscenza del linguaggio a quella di un occhio, lingua a visione. Sappiamo, ad esempio, ancora molto poco della lettura, come evidenzia la neuroscenziata Maryanne Wolf nel suo saggio bestseller Proust e il calamaro: leggere è un’attività «diversa da altri processi, e fa sì che essa non riesca naturale ai nostri figli come la visione e la lingua parlata, due novità per cui siamo programmati in anticipo».
A leggere l’uomo ha infatti imparato solo recentemente: si tratta di una attività “artificiale”, di un atto profondamente ed unicamente umano. Wolf riprende il concetto di “riciclaggio neuronale” usato da Stanislas Dehene secondo cui la lettura avverrebbe grazie ad alcuni circuiti nervosi un tempo utilizzati per il riconoscimento degli oggetti, simile al “ricablaggio neuronale” che descrive Chomsky circa l’atto linguistico: «non c’è stata alcuna evoluzione della facoltà di linguaggio, almeno nei circa 50.000 anni trascorsi da quando si presume che i nostri antenati abbiano lasciato l’Africa. La prova di ciò è sostanziale. In questo modo i neonati delle tribù dell’Amazzonia imparano senza difficoltà il portoghese e, se portati a New York, parlerebbero i dialetti locali in modo indistinguibile dai nativi; e viceversa. (…) Questo potrebbe risultare sorprendente per chi crede – spesso, pare, sulla base esclusiva di fraintendimenti della teoria moderna dell’evoluzione – che il linguaggio debba essersi evoluto a piccoli passi in un lungo periodo. Invece è piuttosto in linea con l’assunto, molto più plausibile secondo la mia opinione, che le sue proprietà centrali siano piuttosto emerse d’improvviso (nel tempo evolutivo) da alcuni “ricablaggi” probabilmente limitati del cervello». Dobbiamo accettare questo assunto: il linguaggio, che potremmo definire un “sistema del pensiero”, e dunque le lingue non si evolvono affatto, semmai mutano, mentre a evolversi è “solo” la capacità linguistica. O a involversi, come nel caso della demenza senile.
Il poeta, narratore e critico d’arte Libero de Libero nel 1951 scrisse per Garzanti un romanzo dal titolo Amore e morte. V’era raccontata una storia maledetta culminata in un orribile pluriomicidio, ma lo scrittore s’addentrò nelle “radici malate” del gesto, nel lacananiano “inconscio come linguaggio”. Il libro era ispirato a un fatto realmente accaduto a inizio novecento in Ciociaria. Uno dei protagonisti, che era solito parlare più con le bestie che con gli umani, assisteva impotente al naufragare della sua storia d’amore, e in un primo tempo era finito in cella per aver tentato di rapire la donna che avrebbe voluto sposare. È lì in carcere, con “gli occhi di bragia” e il poeta scrive che “fumava perché non sapeva parlare”. Come Maria, che in principio avevamo lasciato insieme al suo sposo e che forse si salva proprio nel non conoscere e nel non essere sola. Nel riconoscere ancora la sua casa, struttura che non ha ceduto. Dopo cena apre la porta della cucina, va in giardino e si siede: un percorso minimo affrontato migliaia di volte, un gesto epico come quando accende la sua sigaretta, da 67 anni alla stessa maniera, nello stesso fazzoletto d’aria e di fumo. Noi sappiamo solo dire che sa ancora farlo.