Jamil Hilal: Quello che succede oggi in Palestina, e con questo intendo l’intera Palestina, quale esisteva ed era così chiamata prima della fondazione di Israele nel 1948 sul 78% di quel territorio, è, in parole povere, un’insurrezione contro un regime coloniale e di apartheid. La rivolta è iniziata all’inizio di questo mese con la protesta di alcune famiglie contro lo sfratto forzato dalle loro case a Gerusalemme (Shieck Jarrah). A queste si sono aggiunti coloro il cui il diritto di preghiera nella moschea di Alqsa era stato interdetto dall’esercito e dai coloni israeliani. I palestinesi che abitano in Israele (e hanno cittadinanza israeliana) si sono uniti alla rivolta in solidarietà, quando coloni e fanatici ebreo-israeliani di estrema destra hanno incominciato ad attaccarli per il semplice fatto di essere palestinesi. L’insurrezione si è estesa all’intera Cisgiordania (West Bank), che è attualmente colonizzata da più di 750 mila coloni ebrei illegali, mossi da un odio razziale e religioso, alcuni dei quali, sapendo di essere protetti dall’esercito israeliano, attaccano ormai abitualmente i cittadini palestinesi e non si fanno scrupolo di distruggere e confiscare le loro proprietà.
La Striscia di Gaza non è altro che una prigione a cielo aperto, dal 2006 sotto blocco totale israeliano via terra, aria e mare; Hamas e altre fazioni si sono aggiunte, lanciando razzi contro postazioni e insediamenti israeliani, e la risposta di Israele è stata di bombardare la Striscia di Gaza dall’alto, oltre che da terra e dal mare, distruggendo vaste aree residenziali e uccidendo e ferendo un grande numero di civili, tra cui bambini piccoli: questa è la quarta guerra di Israele contro la popolazione di Gaza dal 2008. Mentre scrivo, il bombardamento della Striscia di Gaza continua, e continua anche l’uccisione di civili, così come la distruzione delle infrastrutture di base necessarie per fornire acqua potabile, elettricità e servizi sanitari. Gruppi di solidarietà fuori dalla Palestina hanno iniziato a protestare contro le azioni di Israele e contro la connivenza di buona parte dei governi occidentali con la leadership di estrema destra israeliana. La nuova amministrazione americana continua a supportare apertamente il governo di estrema destra di Netanyahu. Vale la pena di sottolineare che i governi più reazionari e repressivi al mondo sono quelli che hanno rapporti più amichevoli con l’attuale governo israeliano.
Per farla breve, la popolazione palestinese è oggi, così come lo è stata fin dalla metà del ventesimo secolo, colonizzata, sottoposta a pulizia etnica, dislocata e costretta allo status di profughi o richiedenti asilo, e le è stato negato il diritto di ritornare in patria. Israele non è altro che uno stato coloniale che impone un sistema di apartheid ai palestinesi in tutto il territorio della Palestina storica, inclusi quelli che posseggono un passaporto israeliano. È importante ricordare che Israele era un fedele sostenitore del regime di apartheid sudafricano e che continua ad essere supportato senza riserve da quegli stati fondati sulla colonizzazione di terre altrui come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia.
MN: Si tratterebbe dunque dell’ennesimo capitolo di un conflitto di stampo coloniale, in cui, malgrado tutto, il colonizzato non cede e si permette perfino di non rinunciare in toto alla difesa?
JH: Proprio di recente l’Osservatorio sui Diritti Umani (Human Right Watch) ha promulgato un comunicato in cui descrive Israele come un regime di apartheid, che discrimina sistematicamente i cittadini israeliano-palestinesi, oltre a quei palestinesi residenti in Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza. Non molto tempo prima B’Tselem (l’israeliano Centro di Informazione sui Diritti Umani nei Territori Occupati) ha definito Israele uno stato di apartheid che opera secondo due leggi e prassi diverse: una per gli israeliani e un’altra per i palestinesi, ovunque essi siano. Eppure la propaganda israeliana continua a distorcere la storia e la narrativa palestinese, si presenta in vesti di vittima e si auto-assolve da ogni crimine contro la popolazione palestinese. Questa macchina della propaganda disumanizza i palestinesi (tutti i palestinesi) e criminalizza la loro lotta per la libertà e per l’auto-determinazione bollandola come terrorismo. È subito pronta a etichettare tutti coloro che osano criticare le politiche e i crimini di Israele come anti-semiti. Questo vale anche per il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS: Boycott, Divestment, Sanctions), la cui attività mira a sospendere il supporto internazionale all’oppressione israeliana dei palestinesi e a fare pressione su Israele affinché rispetti il diritto internazionale.
MN: In che cosa, a suo parere, la rivolta palestinese in corso differisce dalla prima e dalla seconda Intifada, iniziate rispettivamente nel 1987 e nel 2000, entrambe a seguito di atti di provocazione analoghi a quelli che hanno innescato la rivolta attuale?
JH: L’insurrezione attualmente in corso differisce dalle rivolte palestinesi del passato, ma in un certo senso ne è una continuazione, figlia delle rivolte iniziate un secolo fa contro il regime britannico e la sua sponsorizzazione del progetto colonizzatore sionista del territorio palestinese sin dai tempi della Dichiarazione Balfour nel 1917. L’insurrezione attuale è diversa perché coinvolge tutti i palestinesi ovunque essi siano: nella Palestina occupata nel 1948, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme, in Giordania, Libano, Siria, così come anche i palestinesi in Europa, Stati Uniti e altre parti del mondo. È anche diversa perché è nata in modo spontaneo e unitario, mentre la classe politica palestinese è divisa e frammentata dalla geografia politica del popolo palestinese e da orizzonti di vedute particolarmente ristretti. Questa insurrezione è diversa perché possiede un’unità di visione politica: è contro lo stato di apartheid di Israele e sottolinea il diritto al ritorno in patria dei cittadini palestinesi esiliati dal loro paese natale settantatré anni fa (1948). Un fattore di continuità è dato dal fatto che i giovani sono gli attori principali anche in questa rivolta.
MN: Quali saranno gli effetti e le ripercussioni di questa sollevazione e di quanto sta accadendo, sia nel campo palestinese sia in quello israeliano? Le leadership politiche di entrambi i paesi sembrano in agonia, scavalcate dal basso sia in Israele sia a Gaza e nei Territori occupati.
JH: Il risultato di quest’insurrezione è difficile da valutare. Una cosa però è chiara: il campo politico dell’azione palestinese è cambiato in modo radicale. Oggi c’è una profonda coscienza che la cosiddetta ‘soluzione dei due Stati’ non è altro che una favola, un mito o una menzogna. Ciò che esiste è un unico stato (Israele) che in regime di apartheid controlla tutta la Palestina dal fiume al mare. Israele controlla i confini, i cieli, il mare, la terra, l’economia, i movimenti (interni ed esterni) e la sicurezza. C’è una crescente coscienza che ci sia bisogno di una nuova visione, che possa chiamare a raccolta i palestinesi ovunque essi siano; una visione di uno stato democratico per Palestinesi (inclusi i rifugiati) ed Ebrei Israeliani, ma basato su una matrice di chiara uguaglianza, senza discriminazioni in base all’etnia, la religione, il sesso o altro. Una visione nuova richiede una leadership nuova e un nuovo movimento politico palestinese che rappresenti l’intero popolo palestinese (non solo quelli in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza). Un nuovo movimento politico che promuova e persegua questa nuova visione. La vecchia leadership (sia democratica sia rivoluzionaria) non ha più alcuna legittimità.
MN: La cosiddetta soluzione dei due stati è, come lei teorizza da anni, assolutamente impraticabile. Eppure, in Europa e negli Stati Uniti, c’è chi continua a sostenerla, forse per non uscire dall’impasse e lasciare che le cose vadano avanti con la ferocia di sempre. Qual è oggi la sua posizione in proposito e che cosa prevede?
L’articolazione e la promozione di un nuovo stato democratico con uguali diritti per palestinesi ed ebrei israeliani richiederà che Israele prima o poi si scusi con i palestinesi per aver colonizzato la loro terra, derubandoli e dislocandoli. Uno stato democratico richiederà di ripudiare il Sionismo quale ideologia coloniale che giustifica la discriminazione e la disumanizzazione dei palestinesi. Questa visione non si materializzerà domani, ma potrebbe iniziare a prendere forma quando un numero sempre maggiore di israeliani, ebrei e altri si renderà conto che nessun gruppo né nazione può essere veramente libero se soggioga altri, e che essere stati loro stessi vittime non giustifica né legittima il perseguitare altri esseri umani innocenti.
Quello che esiste al momento in Palestina (all’interno dei confini di quel territorio che esisteva prima che apparisse Israele) è un numero uguale di palestinesi ed ebrei israeliani, con un equilibrio demografico che gradualmente si sposta in favore dei palestinesi. Questo significa che il progetto sionista non ha avuto successo, almeno per quanto riguarda la pulizia etnica dei palestinesi in Palestina. Gli ebrei israeliani e la cosiddetta comunità internazionale (che altro non è che un gruppo di stati colonizzatori) devono prima o poi decidere se portare avanti una soluzione di stampo sudafricano per porre fine all’apartheid o se lasciare che la situazione esploda e l’apartheid termini in modo cruento come in Algeria. Spero con tutto il cuore che sia la prima e darò il mio contributo perché si realizzi una soluzione su modello sudafricano.
(Milano, 18 maggio 2021)
Maria Nadotti: Che cosa sta succedendo esattamente in Palestina? I media occidentali, prigionieri di uno schema interpretativo ‘prudente’ e a dir poco obsoleto, ripetono luoghi comuni che non fanno luce sul presente e non si sbilanciano sul futuro.
A.A.A.: Ci sono persone più adatte di me a commentare l’attuale situazione, soprattutto tra i palestinesi: come Lana Tatour, Noura Erakat o Salman Abu Sitta. I palestinesi si stanno ribellando contro il colonialismo sionista nell’intera Palestina. Lottano contro gli stessi meccanismi coloniali, brutali e oppressivi, che per decenni li hanno derubati e sottomessi. Ciò che rende diverso questo momento storico è il supporto globale che stanno ricevendo i palestinesi.
Questo supporto è la testimonianza di fratture sempre più evidenti nel sistema di propaganda israeliano, che per anni è riuscito a imporre la chiave di lettura entro la quale discutere di questo regime di violenza, utilizzando termini come “conflitto” e “due lati” (della questione). Dal 1948 i palestinesi lottano per la loro libertà e per il diritto al ritorno in Palestina, e le loro richieste di oggi non fanno altro che reiterare quelle avanzate fin da quando furono esiliati dal loro paese e caddero vittima della violenza dello stato sionista. Il supporto globale di cui ora godono è la prova che le popolazioni del mondo si oppongono al beneplacito che i loro governi continuano a offrire ai sionisti e contro i palestinesi. Furono i sionisti a colonizzare la Palestina, ma non dobbiamo scordare che ricevettero il supporto di molti poteri imperiali, che avevano interesse a contrapporre i sionisti (all’epoca per la maggior parte ebrei europei) agli arabi e al mondo musulmano.
MN: Si tratterebbe dunque dell’ennesimo capitolo di un conflitto di stampo coloniale, in cui, malgrado tutto, il colonizzato non cede e si permette perfino di non rinunciare in toto alla difesa?
A.A.A.: I colonizzati non si sono mai dati per vinti. Per decenni, milioni di rifugiati palestinesi hanno continuato a trasmettere ai loro discendenti l’attaccamento alla Palestina e un senso di appartenenza all’identità palestinese; mentre i colonizzatori dappertutto si aspettavano che le vecchie generazioni morissero e le nuove dimenticassero, milioni di palestinesi in tutto il mondo non hanno ceduto e non si sono arresi.
MN: In che cosa, a suo parere, la rivolta palestinese in corso differisce dalla prima e dalla seconda Intifada, iniziate rispettivamente nel 1987 e nel 2000, entrambe a seguito di atti di provocazione analoghi a quelli che hanno innescato la rivolta attuale?
A.A.A.: L’immaginario imperialista e la tecnologia violenta dell’archivio ci spingono ingannevolmente a partecipare al processo di frammentazione di qualunque lotta anti-coloniale e anti-imperialista. Era nell’interesse e nelle mire di molti il dipingere la resistenza palestinese come un fenomeno iniziato solo nel 1987, ma in realtà questa è iniziata nel 1948, con i continui tentativi di decine di migliaia di palestinesi di tornare alle loro case. Israele ha intrapreso una guerra contro di loro, li ha chiamati “infiltrati” e li ha giustiziati al confine, ricevendo supporto internazionale per aver “difeso” i “suoi” “confini”. Ho messo apposta ciascuna parola tra virgolette, come opposizione all’imperialistica demarcazione spazio-temporale implicita in esse, che vede il diritto dello stato imperialista di difendere se stesso e i confini imposti ai palestinesi per costringerli fuori dalla loro patria. L’attuale ondata di resistenza accende una speranza di decolonizzazione, ma non c’è motivo di dissociarla dalle sue manifestazioni precedenti, accadute durante gli ultimi 73 anni.
MN: Quali saranno gli effetti e le ripercussioni di questa sollevazione e di quanto sta accadendo, sia nel campo palestinese sia in quello israeliano? Le leadership politiche di entrambi i paesi sembrano in agonia, scavalcate dal basso sia in Israele sia a Gaza e nei Territori occupati.
A.A.A.: Vorrei innanzitutto ricordare che non ci sono due stati, ci sono colonizzati e colonizzatori. I colonizzati sono coscienti della propria posizione e lottano di conseguenza, in reazione alle ingiustizie perpetrate ai loro danni; i colonizzatori sono invece in uno stato mentale di perenne negazione e giustificano la loro violenza genocida, così come la strutturale espropriazione dei beni dei palestinesi, con narrative inventate riguardo allo stato di precarietà in cui si trovano nei confronti di coloro che attaccano e derubano. Ai bambini ebrei, figli dei coloni, viene insegnato che sono ‘israeliani’, senza sapere che quest’identità è parte di un regime di violenza nei confronti dei palestinesi, esercitato proprio dallo stato che di quest’identità li ha investiti.
Questa è la ragione per cui, in risposta alla resistenza palestinese contro i propri colonizzatori, la maggior parte dei cittadini ebrei dello stato, prigionieri da decenni del sistema educativo e mediatico coloniale, che genera e diffonde menzogne sistematiche sul crimine organizzato che è il saccheggio della Palestina, non si unisce al resto del mondo scendendo in piazza a protestare per esprimere il proprio sostegno ai palestinesi sotto attacco. Poiché essere ‘israeliani’ significa un’esistenza votata a rifiutare ai palestinesi il diritto di ritorno, ho smesso di identificarmi con l’identità israeliana assegnatami alla nascita e ho rivendicato quella di discendente dei miei avi in Palestina: gli ebrei palestinesi. In qualità di ebrea palestinese non ho alcun dubbio su quale sia la lettura della situazione attuale: un regime coloniale che utilizza mezzi sempre più violenti per riprodursi.
MN: Nell’attuale sollevazione c’è un elemento che si tende a considerare nuovo: la solidarietà dei palestinesi che vivono in Israele e che sono cittadini dello Stato ebraico. Come interpreta la loro rivolta? La loro ferma reazione a ciò che sta accadendo a Gaza e nei Territori occupati ha qualche possibilità di modificare l’attuale equilibrio politico?
A.A.A.: Questo non è un elemento di novità. I palestinesi non hanno mai creduto alle modalità usate dallo stato israeliano, tese a frammentarli e investirli di identità diverse. Non è facile resistere alla violenza organizzata di uno stato coloniale, ma anche quando i palestinesi non hanno opposto resistenza in modo aperto, ciò non significava che avessero ceduto o si fossero arresi. Prima di riversarsi nuovamente sulle strade per protestare contro l’attacco genocida su Gaza, protestavano per lo sfratto delle famiglie di Sheikh Jarah a Gerusalemme e contro l’invasione della moschea di Al Aqsa.
MN: La cosiddetta soluzione dei due stati è, come lei teorizza da anni, assolutamente impraticabile. Eppure, in Europa e negli Stati Uniti, c’è chi continua a sostenerla, forse per non uscire dall’impasse e lasciare che le cose vadano avanti con la ferocia di sempre. Qual è oggi la sua posizione in proposito e che cosa prevede?
A.A.A.: La “soluzione dei due stati” ha le sue radici nel pensiero imperialista europeo e nelle modalità di governo coloniali che usavano la partizione. Fin dall’inizio del mandato britannico in Palestina (un altro sistema imperialista), gli inglesi hanno studiato un piano per dividere la Palestina e “offrire” terre ai sionisti, terre che non avevano diritto di offrire siccome non appartenevano a loro. Anche se lo stato sionista è emerso da una risoluzione di partizione di questo tipo, la realtà sul campo, creatasi in settantatré anni di colonizzazione della Palestina, è quella che vede un unico stato. Mostrare di supportare la “soluzione dei due stati” significa fondamentalmente una cosa: rubare ancora più tempo, terra e speranze ai palestinesi. La Palestina non ha bisogno di altre soluzioni imperialiste, specialmente non di una visione basata sulla sua frammentazione. I palestinesi stanno chiedendo di essere liberi. La Palestina dovrebbe essere libera dal regime coloniale. Con ogni violento attacco a Gaza, come quello attualmente in corso, è sempre più difficile non associare mentalmente i sionisti con i colonizzatori francesi in Algeria. Ma mentre l’Algeria e la Francia erano geograficamente separate, quello che molti non capiscono è che la Palestina e Israele esistono nella stessa unità territoriale. Quindi continuare a parlare della parcellizzazione di quest’unità in due stati distinti equivale a mantenere vivo l’inganno imperialista.
MN: Oggi lei vive negli Stati Uniti. Che cosa pensa della politica estera del neoeletto presidente Biden nei confronti di Palestina e Israele? C’è un umore ‘nuovo’ nel Paese rispetto allo scenario mediorientale?
A.A.A.: No. Credo che in Europa e negli Stati Uniti la gente non capisca quanto il supporto di Biden per il diritto dello stato sionista di difendersi sia stato letale. Quest’asserzione imperialista contro i palestinesi è stata usata dal governo israeliano quale un lasciapassare senza limiti per compiere la sua violenza genocida. La gente dovrebbe ricordarsi di questo: Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo e, come ha scritto Salman Abu-Sitta, “bombardare due milioni di persone in 360 chilometri quadrati dall’aria, da terra e dal mare è Genocidio.”
(Milano, 21 maggio 2021).
Note bio-bibliografiche:
Ariella Aïsha Azoulay, Professor of Modern Culture and Media and Comparative Literature, saggista e curatrice di archivi e mostre, è una ebrea palestinese nata nella Palestina occupata.
Tra i suoi libri, ricordiamo: Potential History – Unlearning Imperialism (Verso, 2019), Civil Imagination: The Political Ontology of Photography (Verso, 2012), The Civil Contract of Photography (Zone Books, 2008) and From Palestine to Israel: A Photographic Record of Destruction and State Formation, 1947-1950 (Pluto Press 2011). Tra i suoi film: Un-documented: Undoing Imperial Plunder (2019), Civil Alliances, Palestine, 47-48 (2012). Tra le mostre: Errata (Tapiès Foundation, 2019, HKW, Berlin, 2020), e Enough! The Natural Violence of New World Order, (F/Stop photography festival, Leipzig, 2016). Il suo ultimo film è: Un-Documented – Unlearning Imperial Plunder (2019).
La traduzione di questa conversazione è di Irene Gilodi.
Jamil Hilal: Note bio-bibliografiche
Jamil Hilal, sociologo palestinese, ha pubblicato vari libri e numerosi articoli (in arabo e in inglese) sulla società e la politica palestinesi. Tra i suoi libri: Israel’s Economic Strategy towards the Middle East (in arabo, 1996), pubblicato a Beirut; Palestinian Political System after Oslo (in arabo, 1998); The Formation of the Palestinian Elite (in arabo, 2002); Where Now for Palestine? The Demise of the Two-State Solution (Zed Books, 2007); Across the Wall: In Search of a Shared View of Palestinian-Israeli History (Tauris, 2010).
Hilal è stato uno dei principali contributori di The Palestine Poverty Report (in inglese e arabo, 1998). Ha coordinato e diretto ricerche su povertà, sottosviluppo, sistema penale, emigrazione, dinamiche familiari e stato sociale in Palestina. È ricercatore senior presso l’Istituto palestinese per lo studio della democrazia (Muwatin, The Palestinian Institute for the Study of Democracy), e partecipa attivamente ai progetti di ricerca del Programma di studio sullo sviluppo (Development Study Programme) e dell’Istituto di studi delle donne (Institute of Women Studies), entrambi presso l’Università di Birzeit. È membro del Comitato di redazione responsabile per la Palestina del trimestrale «Journal of Palestine Studies» (edizione araba, pubblicata a Beirut e Gerusalemme).
Nel 2004, insieme allo storico israeliano Ilan Pappe, ha curato il volume Parlare con il nemico: narrazioni palestinesi e israeliane a confronto (Bollati Boringhieri, Torino 2004), insignito del “Minimum Prize 2004” assegnato da “cittadellarte – fondazione Pistoletto, Biella” nell’ambito della mostra “Letterature di Svolta”. Nel 2007, per Jaca Book, ha curato Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due Stati.
La traduzione di questa conversazione è di Irene Gilodi.