Giugno 1897. Costantino Kavafis ha trentaquattro anni quando arriva a Parigi, al termine di un lungo viaggio in Europa prima di tornare ad Alessandria. Il caso Dreyfus divide la Francia, la Grecia cerca faticosamente di risollevarsi dalla guerra con la Turchia. Ersi Sotiropoulos, scrittrice greca tra le più tradotte al mondo, immagina ciò che vive e prova Kavafis durante quel breve soggiorno parigino, descrivendone le trasformazioni interiori nella ricerca poetica, rendendolo protagonista di Cosa resta della notte, edito da Nottetempo nella traduzione a cura di Andrea Di Gregorio, curatore anche della nuova edizione Poesie, per Garzanti, 2017, e della traduzione italiana di tutti gli autori greci attualmente più noti, tra cui Petros Markarīs.
Il ritratto inedito che Sotiropoulos consegna al lettore intreccia i puntuali fondamenti biografici all’immaginario generato dalle suggestioni percepite nella personale lettura dell’opera del poeta, tratteggiando elementi che poi sarebbero diventati predominanti nella produzione successiva: il rapporto con l’eros omosessuale; la personale idea di bellezza; il suo sguardo sui luoghi e la relazione con l’appartenenza; il vincolo della dimensione famigliare e l’oppressione a cui si collega. Le sembianze tormentate che assume il desiderio si mostrano, in relazione alla ricerca del piacere, nella costruzione di una realtà propria, inventandola, come avrebbe poi scritto in Un giovane dell’arte della parola nel suo ventiquattresimo anno: “Lavora adesso, mente, come puoi”.
La scelta strutturale e l’uso della terza persona senza staccarsi mai dalla prospettiva del poeta nel raccontare gli eventi che lo vedono protagonista, si collegano alla sospensione vissuta in una fase ancora acerba della produzione poetica di Kavafis. “Aveva bisogno di ripartire da uno stato primordiale, quasi primitivo, almeno per quanto riguardava il suo desiderio di scrivere e il suo obiettivo, una tabula rasa che non lasciasse spazio a ciò che avrebbe perso [..]”. A partire da quell’urgenza, Kavafis investiga le ragioni della poesia, arrivando a definirla tra le pagine del romanzo come una condensazione del ciclo della vita.
La cura formale in Cosa resta della notte si riversa nella centralità data alla parola, nel descrivere gli stati d’animo e i turbamenti del poeta attraverso riferimenti letterari espliciti e nascosti. Il rimando a Vita di Antonio nella descrizione che Plutarco dà dell’attesa prima dello stravolgimento, in una città silente tratteggiata nella sospensione dolorosa e angosciosa come preludio a un accadimento devastante, è la medesima che vive il poeta stesso. Saranno in particolare i versi di Baudelaire L’Albatros, a ispirare le continue riflessioni sulla condizione del poeta e, con sguardo più ampio, sulla conflittualità della natura umana: “Era mortale, ma sperava nell’eternità, e qualche volta, agitando le grandi ali, si illudeva. Solo per un po’. L’illusione non durava a lungo. Il desiderio vano, le ali inutili, ogni giorno gli ricordavano, tormentandolo, ciò che gli era irraggiungibile”.
Da cosa nasce l’idea di dare forma a un’indagine su Costantino Kavafis che prende le mosse dal reale, nel rintracciare riferimenti biografici relativi al periodo parigino, per emanciparsi da essi e dare forma a un rintratto per certi aspetti inedito del poeta, attraverso la biofiction?
Tutto è iniziato molti anni fa nel 1984 quando ho curato una mostra dedicata a Costantino Kavafis a Palazzo Venezia a Roma. Mentre consultavo gli archivi e preparavo il catalogo per la mostra, scoprii che Kavafis aveva viaggiato a Parigi e Londra a maggio-giugno 1897. Ci sono pochissime informazioni su questo viaggio, la prima e ultima vera vacanza della sua vita (solo pochi souvenir: copie della rivista L’Illustration, il biglietto di una sartoria di camicie, ecc.). Questo vuoto di informazioni mi ha intrigato. Cosa ha fatto Kavafis a Parigi? Chi ha incontrato?
Più tardi ho scritto la sceneggiatura di un documentario su Kavafis per la serie televisiva francese “Un secolo di scrittori” , e le stesse domande ritornarono. Nel 1897, a trentaquattro anni, Kavafis è un poeta ancora incompleto, assai mediocre, a parte poche eccezioni. Viene da una Alessandria cosmopolita ma provinciale al contempo, e arriva in una città che è l’avamposto delle avanguardie, il luogo in cui vivono e creano Marcel Proust, Erik Satie e Edgar Degas tra gli altri, dove il Modernismo sta nascendo. Quale è stato l’impatto su questo giovane aspirante poeta? L’immagine che abbiamo di lui è di qualcuno già vecchio, distaccato. A me invece interessava Kavafis giovane, Kavafis prima di diventare Kavafis.
L’arte ha un ruolo rilevante nel romanzo: attraverso la figura del fratello John, Costantino si interroga sul ruolo che essa dovrebbe avere, sull’insensatezza di una definizione formale in merito a correnti e movimenti, e su una necessità nell’arte in relazione a un “godimento esigente”. La sua idea è in netta contrapposizione con la posizione del fratello, legata invece al ruolo sociale di cui egli è un convinto sostenitore.
Provo una certa affinità con l’idea dell’arte che aveva Costantino Kavafis. L’arte deve anzitutto essere piacere e apertura dello spirito. Nel momento in cui si fa didattica, allora sfiorisce, diventa noiosa.
Tra gli aspetti che emergono con maggior forza nel ritratto di Kavafis che prende forma nel romanzo, ci sono le insicurezze, le incertezze, le inquietudini, che non solo dominano il suo agire ma i pensieri, e si legano al tormento e alla percezione di inadeguatezza vissuti nel confronto con i grandi riferimenti letterari, da Baudelaire, a Hugo, a Verlaine, Rimbaud e Mallarmé. Nel restituire quel disagio, ritorna a più riprese nell’intero romanzo il giudizio subìto da un critico: “Debolezza espressiva, tecnica difettosa”.
Questo giudizio, inizialmente attribuito a Jean Moréas (poi ci sarà un ribaltamento), lo tormenta lungo tutto il romanzo. Ed è comprensibile perché Jean Moréas era una figura eminente nella scena letteraria parigina, capace di rendere un giovane scrittore famoso o decapitarlo nella stessa giornata. Kavafis è pieno di ambizioni, ma ancora timido e tormentato dai dubbi. Le grandi figure della letteratura lo opprimono, cerca di imitare i grandi poeti, ma senza successo. Penso che uno scrittore, un artista importante, anche quando diventa famoso, rimane in fondo insicuro, solo gli sciocchi sono sicuri di sé. Leggevo recentemente i diari di Lev Tolstoj, l’apoteosi dell’insicurezza: “Chi sono? So scrivere? Ho solo ambizioni, nient’altro”.
L’elemento sessuale più che limitarsi al richiamo dettato dal desiderio, si collega nel romanzo alla necessità di affermazione di sé e al contempo di trascendenza. Che peso assume il desiderio nell’indagine sulla parola in Kavafis e che forma acquisisce nella narrazione questa urgenza, resa anche con continui rimandi, descrizioni per immagini, figure retoriche, mimesi che contengono antimimesi come il peletto che si fa custode della parola?
Nel 1897 Kavafis aveva accettato la sua omosessualità, anche se socialmente era una persona molto formale e riservata. Ma per quanto tormentato e represso potesse essere stato il suo desiderio per gli altri uomini, lui stava avvicinandosi ad un punto della sua evoluzione come poeta in cui sarebbe stato in grado di scrivere apertamente su quel desiderio, in modo diretto, non apologetico, unificando la sua passione per la civiltà “ellenica” del passato e la sua passione per gli uomini in poesie che soddisfavano i suoi rigorosi standard per la pubblicazione. Da quel momento in poi, arte e vita saranno impossibili da dissociare in lui. Ciò che mi interessava sin dall’inizio era catturare il momento, quel momento eccezionale, in cui il desiderio fisico si trasforma in impulso creativo. In un certo senso, Kavafis in quel periodo di transizione nel 1897, è stato per me l’occasione e anche il pretesto per esplorare il rapporto tra passione erotica e creatività.
Il corpo come oggetto d’indagine si slega dal mero rapimento estetico per investigare il legame con la memoria che avrebbe dominato composizioni scritte successivamente al 1897, basti pensare a Torna (“[..]Tutta la carne nel ricordo tendimi”). Che rapporto emerge nel romanzo tra Kavafis e le proprie ossessioni, nel subirle vivendone il disagio e nell’alimentare la sua misura del piacere?
Ci nutriamo anche delle nostre debolezze e ossessioni, è ciò che fa di noi quel che siamo. Si tratta del viaggio di ritorno ad Alessandria, che ha una carica emotiva molto diversa rispetto al momento della partenza. Parigi è la tappa finale prima del ritorno e c’è un coinvolgimento forte, perché Kavafis sta per riprendere la routine della sua vita, tornare in un ufficio che lo annoia, e ritrovare la stessa dolorosa situazione in casa. Ho cercato di immaginare questo giovane poeta come sospeso su quell’unico crocevia: Alessandria sullo sfondo, una città remota e cosmopolita, più in là, la Grecia, umiliata e ancora una volta economicamente distrutta, e infine Parigi, illuminata e al culmine della sua gloria.
L’interesse per il corpo si ricollega in qualche modo anche al suo modo di interrogarsi sulla religione, sul sovrannaturale. Nei versi che scriverà successivamente svilupperà a più riprese, nel riferimento all’idea di un dio, continue riflessioni sul rapporto dell’individuo con l’esistenza (trattato tra gli atri, anche in versi come L’intervento degli dei) e che in Cosa resta della notte si collega all’urgenza di una ricerca.
Aveva una curiosità per il sovrannaturale. Quel che volevo, e penso che emerga in particolare nelle utime scene del romanzo, era evidenziare le particolarità di questo interesse. Pur portando una croce d’oro su di sé, Kavafis non era credente in senso convenzionale, ma piuttosto attirato dai simboli e dai rituali della chiesa e della liturgia ortodossa, dalla processione dell’epitaffio nella settimana santa, da una certa sensualità del rito ortodosso legata al corpo di Cristo come oggetto di adorazione.
Emerge un rapporto contrastato con i luoghi di appartenenza, reso alternando descrizioni che rimandano a una nostalgia priva, però, di mancanza – come avrebbe scritto in una lettera all’amico Periksís –, e con la figura materna, tra amore e repulsione. Il dispregiativo con cui Kavafis si riferisce alla madre racchiude un giudizio nei confronti della sua debolezza emotiva, della necessità di ottenere attenzioni attuando continui ricatti emotivi a partire dalla dipendenza alimentare. Come vive il vincolo con la città natìa e con l’amore oppressivo della madre?
Kavafis era molto legato a sua madre, una madre assai oppressiva, rimasta vedova molto giovane con sette figli maschi. Lui era il più piccolo, il più coccolato, ed è stato aiutato dai fratelli, sopratutto da John. Provava un grande amore nei loro confronti e contemporaneamente si sentiva oppresso in questo nucleo traumatizzato dal fallimento economico e dal declino sociale dopo la morte del padre. La sua era una famiglia della diaspora, cosmopolita, in orbita tra Constantinopoli, Londra, Liverpool, la Grecia, la Francia. Lui passerà tutta la vita ad Alessandria, ma il richiamo dei fasti perduti sembra rodergli. Comunque era una persona molto lucida. Non aveva la stoffa dell’avventuriero e lo sapeva. Lavorerà per quasi trent’anni come impiegato al Terzo Ciclo di Irrigazione ad Alessandria. È questo che mi ha sempre attirato in lui: il suo essere riservato, timido, incapace di fare grandi passi e ribellarsi contro una vita mediocre, ma al contempo bruciare al suo interno di grandi passioni.
Cosa resta della notte delinea il modo in cui la poesia può connaturare l’esistenza, il rapporto tra arte e vita, in un momento di grandi cambiamenti per Kavafis, che trovano riflesso nel verso, nella necessità di una reale trasformazione.
Se si leggono le poesie scritte da Kavafis prima del 1897, ad eccezione di Mura e di poche altre, si tratta per la maggior parte di poesie deboli, incompiute. Solo dopo questa data sarebbe arrivato a scrivere quelle poesie che lo avrebbero reso riconoscibile facendolo diventare il poeta Kavafis. Ha compiuto un enorme salto qualitativo nel giro di pochi anni. Ma questi salti non accadono così per caso, per miracolo. Dietro ci sono tanti sforzi abortiti, tante delusioni, tanta rabbia, tanti fogli bruciati e riscritti.
Tra le parole fondamentali del romanzo, assume un ruolo di assoluto rilievo l’abbandono, nel marcato riferimento a Plutarco. Che peso assume il suo significato per Kavafis in relazione alla necessità di lasciare ciò che si ha amato anche a costo di “cancellare l’adorata voluttà”?
Sarà proprio quel passo di Plutarco a ispirare, alcuni anni più tardi, la composizione della poesia Il Dio abbandona Antonio. “[..]Come pronto da tempo, come un prode/ salutala Alessandria che dilegua./ Non t’illudere più, non dire: “è stato/ un sogno”, oppure “s’ingannò l’udito”: non piegare a così vuote speranze[..]”. Risiede in questo il riferimento: la capacità di trovare la forza di abbandonare.
Tra le immagini del romanzo è riconoscibile il protagonista della poesia Un vecchio, e al pari di quell’uomo che osserva i passanti, Kavafis prova nostalgia per un tempo altro, per un’idea di amore e fanciullezza che confluiscono in una sorta di paura esistenziale, di incertezza continua che avrebbe poi affrontato, tra le altre, anche in poesie come A mente chiara (“[..] Giovinezza corrotta fu matrice/ per me delle poetiche mie vie/ e alla mia Téchne un tratto/ inestinguibile impresse [..]”). Che forma assume la nostalgia in relazione al suo rapporto col tempo?
Mi diverte molto questo passaggio del romanzo dove Kavafis prova nostalgia per la nostalgia. Si immagina vecchio, quando tutti i piaceri fisici che si poteva procurare a Parigi diventano inaccessibili. Un lontano ricordo. Desidera che le cose di cui potrebbe godere in quel momento, un bel corpo maschile, l’amore come lo intende lui – di cui godere se non fosse così codardo – diventano irraggiungibili, inafferrabili, in modo da poterle assaporare solo con la forza del ricordo e dell’arte. Kavafis qui guarda il futuro e parla del presente. È vecchio e giovane. Sperimenta con se stesso. Nelle sue poesie scrive del passato, ma illumina il nostro presente – il suo sguardo può abbracciare tutto, passato e futuro – per questo continua a essere più attuale che mai.