“Viviamo tempi pericolosi, ma anche adatti a esplorare nuove possibilità”. Così scrive David Harvey, pensatore marxista che si fa fatica a etichettare in una disciplina (chi ci ha provato, misurandone il successo su Twitter, lo ha messo al quarto posto tra i sociologi più seguiti al mondo, e al quindicesimo tra gli economisti, per dire). Il suo ultimo libro tradotto per Feltrinelli da Virginio B. Sala, Cronache anticapitaliste, deriva dal lavoro fatto per le “Anti-Capitalist Chronicles”, un podcast quindicinale nel quale dal 2018 Harvey “guarda al capitalismo attraverso lenti marxiste”, come si legge nella presentazione del progetto prodotto da Democracy at work. Lo stile è un continuo e alterno mix tra ricerca e militanza: Harvey, come ricordano i curatori del libro, è stato ed è un innovatore, che ha riversato i suoi 40 anni di studi sul marxismo nello spazio online, diventandone una star – le sue letture del Capitale, videocorso gratuito, sono state viste da oltre 4,5 milioni di persone in 200 Paesi
Lettore rigoroso e filologico di Marx, ha accettato – all’inizio con un po’ di stupore, racconta – la proposta di riversare in un libro quel flusso di idee nato dagli eventi quotidiani, dal dibattito politico e dall’evoluzione dei suoi interessi. Quel che ne viene fuori non è però un’antologia, ma appunto un flusso di pensiero, che anche il lettore può a sua volta seguire con un po’ di stupore per l’attualità di alcune citazioni di Marx; con animo militante – il “che fare” è sempre didatticamente presente a conclusione di ogni tema proposto, e sono tutti veramente grandi, accettando la semplificazione a volte brutale; con curiosità, per l’evoluzione delle categorie marxiste dal capitalismo industriale al capitalismo delle piattaforme; e infine con la partecipazione che ogni titolo relativo al Covid 19 ormai ci sollecita, negli ultimi due podcast-capitoli scritti con la pandemia in corso.
Come si capirà, troppo vasta è la geografia dei temi per trattarli tutti in una breve recensione (alcuni titoli: le agitazioni globali del 2018-2019; l’aggiornamento della “breve storia del neoliberismo”, best seller di Harvey del 2005, al dopo crisi del 2007; le svolte autoritarie; la Cina; la finanziarizzazione; il cambiamento climatico; il cambiamento dei modelli di consumo; la revisione delle categorie classiche dell’accumulazione, dell’alienazione e del saggio del plusvalore…). Seguendo il modello del podcast, si può scegliere una lettura random e poi approfondire con la bibliografia e le domande poste a chiusura di ogni capitolo. Nel nostro caso, clicchiamo su due finestre. La prima è nell’applicazione delle lenti marxiste al capitale immateriale dei vincitori della innovazione tecnologica, le piattaforme digitali; la seconda è in quella che Harvey chiama “la politica anticapitalista ai tempi del Covid 19” e nel suo auspicio di una risposta collettiva al dilemma collettivo aperto dalla pandemia.
La grande spoliazione
Il potere gigantesco delle Big Tech è ormai riconosciuto come problema un po’ ovunque, tant’è che è stato coniato il termine di “techlash” per definire questa ondata avversa alle grandi piattaforme, che sta attraversando la politica e le autorità di controllo dei mercati dall’Europa agli Stati Uniti, dove il “capitalismo della sorveglianza” – lo ha battezzato Soshana Zuboff in un saggio molto fortunato – è nato. Proprio negli Stati Uniti i più ferventi teorici della necessità di spezzare i nuovi monopoli digitali, come Tim Wu e Lina Khan, sono diventati il primo consulente di Biden sulla tecnologia, la seconda il capo della Federal Trade Commission americana. Mentre l’Unione europea prepara un apparato di nuove regole per i dominatori dello spazio digitale, come Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft (anche detti “Gafam”).
Per Harvey, quella delle grandi piattaforme è “accumulazione per spoliazione”. La si può raccontare partendo dalla constatazione molto semplice per cui qualunque giovane e geniale sviluppatore che inventa una app o un prodotto non sogna di realizzarlo, ma di venderlo a Google o a un altro dei giganti. Harvey affronta il tema partendo dalla distinzione marxiana tra l’accumulazione primitiva (quella che “costringe le persone a lasciare la terra, recinta i terreni e porta alla creazione di una forza lavoro salariata”) e l’accumulazione per spoliazione. In quest’ultimo caso, “la ricchezza già accumulata viene appropriata o rubata da certi settori del capitale, senza alcun proposito di investirla nella produzione”. È esattamente quello che fa Google quando assorbe piccole aziende, spesso personali. E in effetti tutte le Big Tech hanno fatto un enorme numero di acquisizioni negli ultimi anni, passate sotto i radar dell’antitrust perché tutte piccole, ma funzionali a eliminare i potenziali concorrenti e alimentare, come dice Harvey, “enormi conglomerati”. Ma allora queste aziende, nate nel cuore pulsante dell’innovazione planetaria non “fanno” niente? No, “un’azienda come Google è in parte coinvolta nella progettazione di nuovi vettori per la produzione, ma in prevalenza la sua attività è una forma di appropriazione mediante meccanismi di mercato”. Insomma, via via si passa dal capitalismo “industriale” a “forme di rendita del capitalismo”. Il che richiede, è la conclusione di Harvey che in ogni capitolo si chiede “allora, che fare?”, forme di organizzazione e protesta politica diverse dalle tecniche classiche dell’organizzazione di sinistra.
Mai sprecare una crisi
È il motto proprio del business, e accolto di buon grado anche della tecnica politica. Harvey prova a trasferirlo ai movimenti di protesta. La crisi è ovviamente quella del Covid 19, alla quale sono dedicati gli ultimi due capitoli del libro. In pieno lockdown chiuso nella sua casa newyorkese da “privilegiato”, Harvey si domanda: “che cosa pensa un anticapitalista di circostanze come queste?”. In primo luogo, sfata il luogo comune (in realtà diffuso solo all’inizio dell’insorgenza del Covid 19) per cui la pandemia è uguale per tutti: neanche per sogno, sia l’impatto della malattia che quello della crisi economica conseguente hanno aumentato le diseguaglianze di classe, genere, etnia. Poi la prende alla larga, ricorrendo alle teorie di Marx sul cambiamento tecnologico, sul suo impatto sul lavoro e sulle relazioni di potere, fino ad arrivare agli scritti sulla riduzione del lavoro necessario per vivere.
Ne deriva che la “cura” economica del post Covid non deve proporsi di farci tornare come prima: se – come dicevano le previsioni correnti ai tempi dello scritto – lo choc pandemico è costato 26 milioni di disoccupati negli Stati Uniti, vogliamo che questi tornino “a svolgere uno di quegli sgradevoli impieghi che avevano in precedenza?”. In altre parole: “non è il momento giusto per pensare seriamente alla creazione di una società alternativa?”. A chi pensa che l’idea di affrontare il virus e al tempo stesso il capitale sia pura illusione, Harvey risponde citando il fatto che nel pieno dell’emergenza si sono sperimentati sistemi alternativi, dalla assistenza alimentare gratuita ai gruppi più colpiti, a “trattamenti medici gratis” (ovviamente sconvolgenti nel panorama americano). Se il dilemma è collettivo, la risposta deve essere collettiva, argomenta lo studioso marxista. Forse era un ottimismo della prima ora del Covid, o forse qualche ulteriore appiglio si può trovare nel cambiamento del paradigma della politica economica dell’amministrazione Usa – ma scommettiamo che Harvey non concorderebbe con questa interpretazione “riformista”. Per saperlo, non resta che continuare a seguire i suoi podcast.