Non possiamo prevedere il futuro con certezza, ma sembra chiaro che abbia ereditato una posizione molto più debole rispetto a quella dei suoi predecessori, Fidel e Raúl Castro. È assediato da ogni lato da innumerevoli crisi e, rispetto ai Castro, può contare su un capitale politico molto minore per sostenere le sfide che lo attendono. Qualunque siano le soluzioni a lungo termine che ha in mente, per adesso se le sta tenendo per sé.
Un fattore che indubbiamente avrà un peso nella sopravvivenza o nel crollo del suo governo sarà la sua capacità di affrontare una crisi di legittimità che si è già resa manifesta con i suoi predecessori.
Mito e successi
La ragione per cui questo è così importante è semplice. Dal 1959 il governo cubano fonda la sua autorità non su elezioni democratiche, bensì su un sistema di comando verticale nel quale il capo di stato paternalisticamente definisce e mette in pratica le politiche. I sostenitori della rivoluzione cubana avevano scarsi mezzi di controllare le politiche dello stato, ma il governo poteva contare su di loro perché Fidel Castro e il movimento che lui guidava erano considerati legittimi a causa dei loro successi e del loro mito.
Anche se la grave crisi successiva al crollo dell’Unione Sovietica e al resto del blocco dell’Europa orientale ha scosso Cuba nelle sue fondamenta, il governo si è salvato perché godeva di un alto grado di sostegno pubblico tra una porzione importante della popolazione.
Il parlamento nazionale in pratica è sempre stato un comitato che approvava automaticamente le decisioni prese in alto
Il sistema politico e i dirigenti cubani non erano imposti dall’esterno, con la minaccia di carri armati, anzi per molti erano una continuazione dei movimenti nazionalisti risalenti al diciannovesimo secolo. Chi sosteneva il governo non lo faceva perché garantiva maggiore prosperità. Lo faceva perché lo considerava come il portabandiera della sovranità cubana, dell’orgoglio nazionale e della promessa di una società più equa.
Questa legittimità e questo sostegno popolari erano fondamentali, ma non tutti i cubani hanno appoggiato il governo rivoluzionario. Cuba ha usato anche strumenti repressivi, tra cui i servizi d’intelligence interni, per contrastare e neutralizzare qualsiasi opposizione politica. Un altro importante settore della popolazione era più interessato ad avere una vita normale nella quale poter crescere una famiglia. Con il passare del tempo il fervore legato alla rivoluzione ha cominciato a diventare un ricordo, e sono sempre di più i cubani che vogliono, appunto, una vita normale.
Legittimità coltivata
A Cuba esistono naturalmente istituzioni democratiche di facciata, e una delle più emblematiche è l’assemblea nazionale del potere popolare, il parlamento nazionale, che in pratica è sempre stato un comitato che approvava automaticamente le decisioni prese in alto. Ma il modo in cui il governo è riuscito a coltivare la sua legittimità con altri mezzi gli ha permesso di evitare di dare troppo potere a queste istituzioni o di assumere una modalità di governo fondata unicamente su mezzi più repressivi.
Per illustrare la relativa debolezza di Díaz-Canel al riguardo, è utile esaminare l’operato dei suoi due predecessori (non considero il presidente Osvaldo Dorticós Torrado, in carica dal 1959 al 1976, perché in sostanza era Fidel a comandare a Cuba in quel periodo).
Il fallimento dell’invasione della baia dei Porci nel 1961 fu una manna per la rivoluzione, perché permise a quest’ultima di presentare la sua lotta contro gli Stati Uniti come uno scontro tra Davide e Golia: un’eredità che la metteva in continuità con la tradizione del nazionalismo cubano. La politica estera di Fidel elevò il paese sul palcoscenico mondiale come mai accaduto prima, il che piaceva ai nazionalisti cubani, infastiditi dalla morsa neocoloniale degli Stati Uniti.
Queste politiche, insieme a eventi popolari di massa come marce o discorsi pubblici, facevano sentire i suoi sostenitori dentro a qualcosa di grande, e li convinceva del fatto che il governo fosse dalla loro parte.
I campi di lavoro
Parallelamente a questi meccanismi extraistituzionali, le forze di sicurezza e d’intelligence controllavano e spesso inserivano in liste nere i critici del governo, li rimproveravano, li arrestavano o li punivano. Il governo esercitava un ampio controllo sull’accesso all’informazione, compreso quello di tutte le testate dei mezzi d’informazione e delle case editrici, oltre che dell’importazione di letteratura straniera.
La censura in campo artistico si era rafforzata sotto Fidel, raggiungendo il suo apice durante il “quinquennio grigio” degli anni settanta. Negli anni sessanta sono stati usati campi di lavoro per “sottrarre” i cubani a omosessualità, religiosità e altre caratteristiche considerate pericolose. Anche se i campi sono stati chiusi dopo pochi anni, le persone che incarnavano tali caratteristiche erano spesso inserite in liste nere che gli impedivano di avere buoni posti di lavoro.
Eppure il governo aveva mantenuto tra molti cubani la sua legittimità, rafforzata grazie ai doni personali, agli eventi pubblici e alle politiche di Fidel. I sostenitori hanno perdonato e perfino giustificato gli abusi e le mancanze dello stato.
Un buon esempio di come la cosa abbia funzionato è il famoso “Maleconazo” del 1994, quando i cubani scesero per le strade dell’Avana spinti dalla disperazione dovuta al momento più nero della crisi economica postsovietica. Fidel marciò in persona tra la folla, insieme a un gruppo di sostenitori, per calmare la situazione. Nel decennio successivo c’è stata un’emigrazione di massa, ma non la ribellione popolare.
Le riforme apparenti
Quando Raúl Castro ha preso formalmente il potere nel 2008, il suo governo ha abbandonato quasi del tutto le marce pubbliche. Raúl ha a malapena tenuto dei discorsi. Molti cubani mi hanno detto scherzando che “Raúl no habla” (Raúl non parla). Le istruzioni hanno cominciato ad arrivare dall’alto senza più grandi sforzi di far credere ai sostenitori che la loro opinione fosse presa in considerazione. Molti dei meccanismi extraistituzionali usati da Fidel sono stati abbandonati.
Raúl poteva concedersi il lusso di lasciare che la legittimità del governo si atrofizzasse lentamente, perché poteva ancora farsi forte del suo cognome, del suo ruolo guida nella lotta a Batista, della sua storia sotto Fidel e delle importanti reti che aveva tessuto nei decenni. Era già autonomamente una figura d’importanza nazionale consolidata, e il suo potere non derivava solo dall’essere fratello di Fidel.
Sotto l’amministrazione di Raúl ho notato che, nonostante le riforme economiche come il permesso di aprire attività private e assumere dipendenti siano state spesso accolte con favore, anche i sostenitori hanno cominciato a sentire la distanza con il governo e i suoi cambiamenti.
Per alcuni le riforme non erano abbastanza coraggiose o non erano messe in pratica adeguatamente. Simili dubbi si limitavano, il più delle volte, a lamentele discrete. Secondo altri i tagli ai programmi sociali, spesso etichettati sarcasticamente come “gratuidades indebidas” (gratuità indebite) erano il segno di una svolta verso l’austerità. In generale sembrava che l’assenza del tocco personale e del fascino di Fidel avessero messo a nudo la realtà del potere in un modo che causava inquietudini.
Le novità di Díaz-Canel
Il genio di Fidel consisteva nel far credere ai suoi sostenitori di avere un ruolo attivo nel governo, anche se in pratica non avevano praticamente alcun potere. Che sia per una personale refrattarietà ai riflettori o per un desiderio di rinunciare alla legittimità personalistica e muoversi verso l’istituzionalizzazione, Raúl ha sperimentato nuovi strumenti, come i dibattiti pubblici nazionali sulle linee guida delle nuove politiche del paese.
Dal momento che era necessario apportare grandi cambiamenti al sistema economico di Cuba, Raúl ha usato i dibattiti come dei quasi plebisciti, sapendo che non erano vincolanti. Nel frattempo ha continuato a eludere le istituzioni democratiche come le assemblee nazionali e provinciali. La decisione di non attribuire reali poteri a queste istituzioni ha significato che, pur muovendosi verso la fine del governo personalistico, Raúl non stava cambiando nella sostanza la natura verticale del sistema di Fidel.
Il nuovo presidente fa poco per affrontare il problema della perdita di consenso di cui soffre il governo
Al contrario dei suoi predecessori, Díaz-Canel non è un uomo dell’esercito. Non è neppure nato al momento della rivoluzione e non si è coperto di gloria in Angola durante gli anni ottanta. È un amministratore chiaramente privo di grande ascendente sulle forze armate. In un paese fortemente militarizzato come Cuba, dove l’esercito controlla direttamente buona parte del paese, la cosa rappresenta un problema.
Non sembra inoltre avere una grande base di sostegno popolare, avendo trascorso i suoi anni di formazione da probabile successore confrontandosi solo in maniera limitata con la popolazione.
Nei primi dieci anni del 2000, lo status ufficioso di delfino di Díaz-Canel aveva generato speranza tra i sostenitori del governo che ho incontrato all’Avana, e una prudente neutralità tra molti cubani della classe operaia della capitale e delle province orientali. Negli ultimi anni, dopo aver parlato con queste persone e con i nuovi cubani, ho osservato un crescente rigetto nei confronti del presidente.
Díaz-Canel sembra al corrente di questa frattura e ha cercato di risolverla, tra le altre cose, attraverso un’interazione più attiva con la gente, anche tramite il suo profilo Twitter. Le sue visite in varie parti di Cuba, come le zone che si stanno riprendendo dagli uragani, sono un’attività piuttosto consueta per qualsiasi capo di stato e non vanno considerate una vera emulazione della strategia di Fidel, ma è anche vero che non si è isolato dal mondo come aveva fatto Raúl.
Si tratta di una soluzione a metà strada, non entusiasmante, che fa poco per affrontare il problema della perdita di consenso di cui soffre il governo.
Il governo cubano ha molte sfide di fronte a sé. Ha perso per sempre il monopolio dell’informazione, dato che internet e un sistema di distribuzione dei media digitali semilegale, noto come “el paquete” (il pacchetto), stanno inondando il mercato dei mezzi d’informazione cubani. I risultati ottenuti dalla rivoluzione, soprattutto nell’istruzione e nella sanità, stanno lentamente implodendo perché da decenni sono gestiti con bilanci ridotti all’osso.
Molti giovani cubani non sembrano intravedere un futuro a Cuba, preferendo emigrare, come hanno già fatto molti dei miei compagni di studi diplomati con me nel 2013 all’università dell’Avana. Ex sostenitori del governo con cui ho parlato sono diventati meno interessati alla politica e più concentrati a soddisfare i loro bisogni economici immediati.
Strategia sensata e pericolosa
Ma l’economia è cresciuta con passo da lumaca. Il governo cubano, prima sotto Raúl e ora sotto Díaz-Canel, sembra scommettere sulle riforme economiche come strumento per migliorare gli standard di vita e di creazione di una base fiscale con la quale finanziare le spese del governo. È una strategia sensata. Potrebbe ridurre il malcontento popolare e sostenere le finanze disastrate del paese. Ma è anche profondamente pericolosa a lungo termine, se non sarà accompagnata da riforme politiche.
Il capitalismo è un sistema caratterizzato da periodiche crisi economiche. Anche se il governo cubano non stesse commettendo gravi errori (come invece sta facendo), le crisi economiche sarebbero comunque inevitabili.
Cuba fa parte di un più ampio sistema economico internazionale. La sua prosperità dipende dal commercio estero e dal turismo. Prima o poi una crisi verrà a bussare alla porta, indipendentemente dal fatto che il paese abbia o meno una responsabilità nel farla precipitare. Il governo di Fidel ha resistito negli anni novanta, in buona parte, anche per il sostegno e la fedeltà al governo di una significativa porzione della popolazione. Un governo costruito su una prosperità momentanea non avrebbe la stessa stabilità.
Díaz-Canel si trova in una posizione precaria. L’apertura dell’economia negli ultimi anni ha avuto un discreto successo, ma rimane incompleta e instabile, con importanti politiche annunciate in maniera estemporanea. A lui è toccato dare corso a cambiamenti dolorosi ma necessari, come l’unificazione delle due valute del paese, attesa da molto tempo, e la riforma del sistema contabile, entrambi passi necessari per poter finalmente procedere all’aumento degli stipendi di stato, ma dai quali scaturirà un doloroso periodo di transizione di cui faranno le spese soprattutto i cubani della classe operaia.
Ipotesi di sopravvivenza
A dire la verità, Díaz-Canel non è totalmente libero di agire ignorando il suo predecessore, e non è quindi chiaro quali saranno realmente le sue politiche a lungo termine. Pur non essendo più capo di stato, Raúl Castro continua a incarnare il potere dietro le quinte, in quanto capo del Partito comunista, ed è probabile che manterrà ampi poteri pure senza incarichi di governo.
In ogni caso, se Díaz-Canel intende rafforzare la sua posizione e quella dei suoi successori creando un governo rinnovato capace di sopravvivere a qualsiasi individuo o famiglia, la cosa dovrà andare di passo con riforme istituzionali democratiche (anche se i servizi di polizia e d’intelligence del governo sono ancora piuttosto forti, è decisamente improbabile che l’attuale governo sopravviva ricorrendo anche solo alla metà delle misure repressive adottate negli anni sessanta e settanta, quelle che i sostenitori del governo oggi definiscono, con tono di scusa, gli “errori” del passato).
Per indicare solo alcune possibilità, il governo potrebbe autorizzare l’elezione diretta dei dirigenti politici; potrebbe rafforzare le assemblee nazionali e provinciali, mantenendole in attività per più tempo rispetto a due brevi momenti di ogni anno; potrebbe rafforzare il sindacato centrale dei lavoratori di Cuba in modo che i lavoratori ne siano effettivamente a capo e difendano i propri interessi attraverso di esso.
Il governo è a un bivio
Le possibilità sono tante, anche senza ipotizzare la creazione di entità totalmente nuove. Il governo perderebbe parte del suo raggio d’azione attuale, apparentemente senza limiti, ma in cambio del rafforzamento dei suoi cittadini e delle sue istituzioni democratiche, aumenterebbe la fiducia nei confronti del sistema politico, consolidando la sua legittimità e rendendo efficaci strumenti istituzionali, grazie ai quali gli eccessi e gli abusi dello stato potrebbero davvero essere corretti.
Il governo cubano si trova a un bivio. Se si concentrerà solo sulle riforme economiche e limiterà quelle politiche ad alcune misure di facciata o a cambiamenti inefficaci, il risultato sarà paragonabile alla ghisa: un materiale forte ma fragile. Se invece costruirà nuovi strumenti di legittimità, sarà in grado di creare delle fondamenta più durature.
Non mi è chiaro se una democratizzazione sia davvero all’orizzonte. Né è chiaro se Díaz-Canel potrà o meno mettere realisticamente in pratica questi cambiamenti senza la benedizione di Raúl e il sostegno di parti importanti dell’attuale governo.
Non sappiamo come governerà Díaz-Canel quando Raúl sarà morto o abbandonerà la politica. Ma la democratizzazione potrebbe tamponare l’emorragia di legittimità del governo. E contribuirebbe ad avverare la promessa mai mantenuta di ripristinare il diritto del popolo cubano di decidere il futuro del suo paese, una promessa fatta quando la rivoluzione riguardava ancora solo un pugno di guerriglieri nella Sierra Maestra.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Dissent.