Fabrizio era anarchico fin da ragazzo. C’era, in lui, un’indubbia carica di sentimento, ma c’era anche un approfondimento culturale, c’erano precise letture alle sue spalle. Certo, il suo anarchismo si è andato modificando negli anni, alla luce delle sue esperienze. Agli inizi il suo era un anarchismo individualista, stirneriano, poi problemi, implicazioni, discussioni, riflessioni lo hanno portato ad una visione più articolata, sociale.
Mauro Pagani, 53 anni, una delle figure più interessanti della musica italiana, grande amico e stretto collaboratore di Fabrizio (“Creuza de mä” e “Nuvole” il frutto principale del loro sodalizio) ricorda l’amico da poco scomparso. E lo fa con parole misurate, precise, profonde, dietro le quali è facile cogliere lo spessore di una grande, inespressa nostalgia.
Personalmente ho già incontrato Mauro qualche volta, sempre complice De André. L’ultima volta quasi otto anni fa, in occasione del concerto napoletano di Fabrizio in sostegno di questa rivista e del settimanale Umanità Nova: Mauro suonava vari strumenti, con grande maestria. Ed era stato – con Pepi Morgia (allora il tecnico delle luci) – l’unico della troupe a rinunciare, per quella serata, al proprio compenso, devolvendolo alla nostra rivista.
Ricordo un’altra volta: era in gestazione “Le nuvole”. Aurora ed io arrivammo a casa di Dori e Fabrizio poco dopo di lui. Mauro stava raccontando a Fabrizio di un suo recente viaggio nel Maghreb alla ricerca di nuove sonorità. Ci aveva colpito la sua cultura, ci aveva affascinato scoprire quale lavoro possa esserci in una ricerca musicale, che diventava un’occasione per conoscere altre culture, altri approcci.
Per Fabrizio – spiega Mauro – l’anarchia era un insieme di tante piccole realtà, basata su rapporti diretti tra le persone. Un’Italia dei Comuni, potremmo dire, contrapposta a quella dei grandi poteri. Ed è proprio da questa sua concezione che derivavano la sua autentica passione ed il suo grande rispetto per le minoranze, per la salvaguardia delle etnie, per le singole individualità.
Affascinazioni reciproche
Pagani ricorda il proprio percorso per tanti aspetti analogo, dopo la sua uscita dalla PFM nel ’77: il lavoro intrapreso nell’ambito della cultura mediterranea, sulla scorta di quanto già realizzato da musicisti del calibro di Demetrio Stratos, del Canzoniere del Lazio e di Teresa de Sio. Pagani si interessava soprattutto alle “filiazioni illegittime” (così le definisce) della cultura turca a contatto con le culture autoctone, nei paesi slavi, in Italia meridionale come nel Nord Africa. E quando casualmente incontrò Fabrizio in una sala d’incisione, al castello di Carimate, iniziarono a parlare, verificarono subito tante assonanze: nacque così il progetto di “Creuza de mä”. All’origine – ricorda – avrebbe dovuto essere il disco di un viaggiatore, un marinaio, che ritorna a casa dopo tanti anni e parla una lingua che è un miscuglio di mille idiomi – quelli che lui ha incontrato nel suo peregrinare. Con Fabrizio, il progetto era dunque quello di scriverlo in una lingua inventata. Successe poi che, a tre quarti della lavorazione, a Fabrizio venne l’idea geniale di fare il disco in genovese (una lingua che contiene già 1.000/1.200 vocaboli di origine araba).
Pagani parla di un momento perfetto di necessità espressiva, coincidente tra Fabrizio e me. “Creuza de mä”, se da una lato poté avvalersi di 5 o 6 anni del mio lavoro sui materiali sonori mediterranei, dall’altro ebbe il pregio di una grande freschezza poiché lo buttammo giù di getto. Era l’inizio della loro collaborazione basata su di una precisa divisione dei compiti (Mauro curava il progetto musicale, Fabrizio i testi e la supervisione generale), ma soprattutto su di un’affascinazione reciproca: che – Mauro non lo dice, ma lo si capisce lontano un miglio – non è mai venuta meno.
Ancora più intensa e profonda è la collaborazione tra i due per il disco successivo “Le nuvole”. Dietro – ci tiene a precisare – ci sono le ragioni sociali del mondo. Pagani traccia un parallelo tra il disfacimento del vecchio mondo subito dopo il Congresso di Vienna del 1814 e la situazione socio-politica quale affiora tra le pieghe del disco: il crollo di un impero, il riemergere delle specificità etniche, ecc.. Si sofferma su “La domenica delle salme”, letta come la presa d’atto dell’avvenuto, silenzioso colpo di stato, dello svuotamento delle coscienze, il tutto sull’onda del nulla, del vacuo e dell’apparire – con la parallela scomparsa dei valori di solidarietà.
La chiacchierata si sposta sui temi dell’impegno sociale, del volontariato, della trasformazione sociale. Pagani ricorda che sia lui sia Fabrizio erano lontani dall’attivismo politico, sentendosi entrambi estranei a quel modo di comunicare politico, freddo, sloganistico, che parte dai massimi sistemi per “tagliare” la realtà e dipingerla a proprio uso e consumo. Se racconti le cose per avvenute sintesi, anche verbali, non riesci mai a comunicare dei procedimenti che abbiano un rapporto vero con la vita e con la sofferenza, chiarisce. Secondo lui, un modo più autenticamente “anarchico” di comunicare sarebbe quello di non fare sintesi o grandi considerazioni, ma raccontare storie di persone, fornendo a ciascuno gli elementi per capire e trarre delle proprie conclusioni personali.
Pagani ricorda che questa è stata una caratteristica costante nella produzione di Fabrizio. E cita, per esempio, una canzone degli esordi come “Bocca di Rosa” ed una della maturità come “Don Raffaé”: nessun giudizio su di loro, né su quelli che stanno loro intorno. Gli faccio osservare che, comunque, anche dalla sola descrizione si coglie ben preciso un messaggio, una presa di posizione. Mauro concorda, ma ci tiene a sottolineare ancora una volta l’importanza dell’approccio di Fabrizio (e suo). Anche se ha ben presente il rischio della banalizzazione, inevitabile in chi comunque fa “canzonette”. Il confine tra facilità e banalità può essere molto sottile – spiega Pagani – Fabrizio lo sapeva ed usava mille attenzioni.
Un po’ nomade
La vita presenta, a volte, delle strane coincidenze. Tre anni fa parto per le vacanze estive nel pieno del mio interessamento per il mondo zingaro. Decine di libri e riviste nel bagagliaio, una specie di innamoramento che per qualche settimana non lascia quasi spazio ad altri temi. Nel porto di Livorno, prima di prendere il traghetto per la Corsica, compro “Anime salve”, l’ultima cassetta di De André: e scopro che contiene un pezzo bellissimo, poetico e graffiante al tempo stesso, sugli zingari. Le coincidenze, appunto. E mi ricordo di quel primo incontro con Fabrizio all’hotel Cavour, della sua dichiarazione “sono anarchico anche perché sono dalla parte degli zingari, delle puttane, degli obiettori…”. Allora avevo un po’ sorriso, dentro di me, per quegli accostamenti che mi apparivano arditi.
Vent’anni dopo quelle parole assumevano un significato più preciso e svelavano un approdo comune, in percorsi pur tanto diversi come i nostri.
Ne parlo con Pagani, gli chiedo se e come abbia incrociato ed approfondito la cultura zingara nelle sue peregrinazioni mediterranee. Mi risponde affermativamente e scopro che, anche in questo campo, ne sa molto più di me. Mi parla della “Madonna nera” in Camargue, ma anche delle sue ricerche in Bulgaria, nell’Ungheria meridionale, dei suoi rapporti – proprio nell’ambito di questa sua personale ricerca – fin dagli anni ’70 con Moni Ovadia (allora nel Gruppo Folk Inter-nazionale).
Racconta poi di un suo bisnonno croato, che era nato su di una nave (tanto che venne giudicato “apolide”) e – professione tipicamente (anche se non esclusivamente) zingara – aveva un circo. Un po’ di spirito zingaro, nomade, me lo porto dentro – sorride.
Una battuta, in chiusura, su Fabrizio, sull’amico comune che ci ha fatto incontrare allora. E anche oggi. Tanto dibattere sulla poesia di De André mi fa sorridere. Da anni i suoi testi fanno parte di molte antologie scolastiche – osserva Pagani – Non mi sembra che sia successo ad altri.
P.F.
Mauro Pagani
La nuova anarchia a 4 maniNegli anni 60, a Mantova, frequentavo il circolo anarchico “Ettore Molinari”. E proprio quell’epoca risale uno spettacolo pubblico, organizzato con altri giovani libertari mantovani: ci ritrovammo con la chitarra a suonare e cantare alcune canzoni di De André: “La guerra di Piero”, “La canzone del Miché”, ecc. In segno di spregio per il nazionalismo, io mi pulii pubblicamente il naso in una bandiera tricolore. Fui denunciato per “vilipendio della bandiera” e successivamente condannato a 8 mesi in Corte d’Assise. Sorride Alessandro Gennari, ricordando quell’episodio di oltre 30 anni fa. E ricorda che De André lo conobbe in un modo a dir poco rocambolesco.
Era il 75 e Fabrizio teneva un concerto a Mantova. Io ero tra il pubblico: ad un certo punto si interruppe, si rivolse a me chiedendomi di salire sul palco: pensava di conoscermi già. Non era vero, era solo una sua impressione. Curiosa, però. Venti anni dopo avrebbero scritto un libro a quattro mani (“Un destino ridicolo”, Einaudi 1996). E nel libro – ricorda Gennari – quell’episodio è raccontato.
Ora che De André è morto, Gennari mi parla di un saggio sull’anarchia, che con Fabrizio avevano deciso di scrivere, ancora una volta a quattro mani. Che tipo di saggio, gli chiedo. Gennari si appassiona in una lunga spiegazione sulla necessità di far emergere una “nuova anarchia”, considerando chiusa l’esperienza di quella ottocentesca. Il punto di partenza è sempre quello: l’assoluta illegittimità di qualsiasi “arché”, di qualsiasi ordine costituito, sia che lo si faccia derivare da una divinità sia da un contratto sociale. Bisogna partire dalla distruzione del soggetto e dell’identità – insiste.
A Gennari, poeta, chiedo un giudizio sulla poesia di De André. Il ruolo di Fabrizio è stato importante nell’ambito della poesia e della cultura di questi decenni. Né va scordato che negli anni 60 e 70 c’era una pletora di falsi poeti, che scrivevano parole a caso andando a capo, gente che perlopiù scriveva per ordine dei partiti o delle case editrici. Fabrizio è stato un isolato: un vero poeta.
P. F.
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