Canetti, la cui riflessione insiste sul rapporto tra potere, massa e violenza, avrebbe appreso proprio da Kraus l’allegoria come strumento per «smascherare» le forme profonde del potere, il che fa di lui un precedente per l’indagine linguistica di critica dell’ideologia. Anche per Herbert Marcuse (e Umberto Eco) Kraus è tra i pionieri di un’analisi del linguaggio «rivelatrice di un sistema morale e politico».
Nella modernità ipertrofica incrementata dalla Grande guerra l’operazione di Kraus sul linguaggio e con il linguaggio è principalmente la denuncia della sua disarticolazione, banalizzazione e impoverimento. Nella sua monumentale e più nota opera, Gli ultimi giorni dell’umanità (1922, in italiano Adelphi 1957 e 1980) leggiamo: «Fate che al mondo ancora ignaro io dica / tutto ciò come accadde: e così udrete / azioni sanguinose e innaturali, e casuali giudizi e un cieco uccidere: / morti da forza e astuzia provocate, / e piani che, falliti, poi ricaddero su chi lo escogitò: io tutto questo / in verità posso narrare». In questo lavoro teatrale – una «tragedia che si compone dell’umanità che si decompone» – Kraus mette in luce attraverso una polifonia di voci e personaggi «l’abuso della lingua a tutti i livelli della vita civile» avvertendo «nel disordine linguistico un sintomo, anzi una causa delle aberrazioni di una società la cui grammatica morale e politica, dall’ortografia alla sintassi, è fuori squadra» (così Braun e Carpitella, i curatori dell’edizione italiana).
La guerra è per Kraus l’evento «che ha ridotto la vita umana a un cumulo di rifiuti, uno spartiacque invalicabile» (la citazione viene dal testo di Kraus presente in Un po’ di compassione di Rosa Luxemburg, magnifico piccolo libro edito qualche anno fa): la violenza bellica è messa in relazione alla grottesca e assurda mancanza di consapevolezza dei personaggi, “sonnambuli” o cinici spregiudicati, in ogni caso corresponsabili degli eventi che si avviano rapidamente e inesorabilmente verso la catastrofe. L’amara comicità di Kraus evidenzia un linguaggio alienato e capace di comunicare solo con la voce tecnicizzata del luogo comune e della propaganda; descrive l’apocalittica quotidianità «di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità», riporta «le frasi, la cui follia è impressa indelebilmente nell’orecchio» (Kraus); anni nei quali, scrive Roberto Calasso, la «quiete dei magazzini» appare il naturale correlato della partecipazione a un «riequilibrante massacro», nei quali «la Stupidità avvolge questi bruti avvenimenti in una nebbia protettiva» sorretta dal «brusio dell’Opinione». Una relazione mostrata con sapiente e pirotecnico uso della lingua attraverso la descrizione dell’intrinseca “malvagità del banale” resa da una miriade caleidoscopica di personaggi e restituita dalla «voce-che-cattura-tutte-le-voci», nella definizione di Calasso. Ancora Kraus: «Il fronte si è esteso a tutto il paese. E vi resterà. E alla vita mutata, se ancora vita vi sarà, si accompagnerà la vecchia condizione di spirito. […] La guerra non finirà».
Scrivo queste righe sulla scorta dell’ ennesima, inaccettabile umiliazione della lingua, del pensiero e delle istituzioni e delle sempre più preoccupanti notizie che giungono sulla proliferazione della rete del radicalismo di destra; cento anni dopo la Grande guerra e l’opera di Kraus, in mezzo tutto il secolo, penso a quante somiglianze ci siano con la degenerazione sotto il segno dell’ignoranza e della violenza del linguaggio pubblico, mediatico, dei politici che ha accompagnato l’ascesa del populismo e la continua sovraesposizione, una vera normalizzazione, delle mai sopite o scomparse posizioni filo-fasciste o filo-naziste. In Italia, ora.
Al netto delle differenze, a livello di immaginario e di reti sociali il populismo e il neo-nazifascismo nelle loro varie declinazioni tendono a sovrapporsi e si alimentano reciprocamente, con un rinvio costante, instabile e oscillante, ai fascismi storici come referente simbolico e materiale. Per questo l’attuale dibattito sulla vitalità dell’eredità del fascismo appare così complicato e dà luogo a opinioni differenti, a seconda di come si ponga l’accento sulla dimensione storicizzante della discontinuità e quella attualizzante della continuità.
Da un punto di vista socio-culturale le destre post-fasciste, grazie anche a una coscienza storica diffusa sempre più falsa, vaga e schematica, sembrano aver realizzato sul lungo periodo il progetto di un “gramscismo evoliano” in salsa pop: ovvero la versione aggiornata dell’idea che la “nuova destra” francese aveva del raggiungimento di un’egemonia culturale su scala di massa, raggiunta per saturazione attraverso la rete come ipermedium nel suo rapporto di centrifugazione e parassitismo con ogni altre forma mediatica. In questo modo la “nuovissima” destra, oltre e accanto alle sue forme elettorali, partitiche, militanti, associative ha saputo assumere forme pop, popolari e populiste con la ridondanza metapolitica impressionante dei suoi temi centrali per diffusione e disseminazione (come nel caso del bomberismo, life-style) ed è stata così capace di riconfigurare le retoriche/pratiche classiche nel suo rapporto con le “maggioranze silenziose” conservatrici (tradizionalismo, suprematismo, militanza di strada, vigilantismo, squadrismo mediatico, infiltrazione virale) e quindi capace di manifestarsi apertamente e con inedita visibilità nelle sintesi più ardite e solo apparentemente stravaganti (l’alt-right americana, il rossobrunismo, l’euroasiatismo).
Il network destrorso di interessi convergenti ha sedimentato la propria immagine del mondo in una narrazione che per molti è risultata seduttiva e persuasiva in quanto dotata di grande “potere di scenarizzazione”: incardinata su soluzioni mitiche, drastiche e semplificate a temi e problemi storici, delicati e complessi, del presente quali l’identità, il genere, l’economia, le migrazioni. Su tutto, ha saputo servirsi di un linguaggio comprensibile ai più, di larga diffusione e rara efficacia trovando nel circuito della comunicazione risorse potenzialmente inesauribili: quello stesso linguaggio che storicamente intrattiene un rapporto dalle conseguenze letali con la politica e la violenza e che ha e avrà importanti conseguenze nel presente.
La prosa rutilante, allucinata e dissacrante di Kraus di cento anni fa ha mostrato il volto della modernità nella manipolazione delle comunicazioni e dell’immaginario, mostrando – con particolare riferimento alla stampa e all’opinione pubblica – come si pavimenta la strada che dalla guerra porta al fascismo (e dal fascismo alla nuova guerra; morto nel 1936 Kraus ha potuto vedere la dissoluzione della Repubblica di Weimar). Da allora la degenerazione e l’impoverimento della lingua sono costantemente causa ed effetto della guerra civile portata dall’involuzione autoritaria e dall’infezione etno-nazionalista e identitaria nel consorzio umano. L’espressione di una vita della mente ridotta a sopravvivenza alienata e le tante facce dell’insoddisfazione e del risentimento trovano nell’anonimato della massa e nei suoi avatar, analogici e digitali, il combustibile per la macchina sapientemente pilotata che oggi definiamo “fascio-populista” che gira a pieno regime. Ora, la progressiva semplificazione, brutalizzazione e degenerazione aggressiva del linguaggio accompagna da sempre le crisi sociali: Luciano Canfora fa notare come fosse nota fin dall’Atene del V secolo la dimensione verbale che prepara, alimenta e amplifica la violenza fisica esercitata.
Nel suo Fermare l’odio proprio Canfora nell’emergenza dell’attualità sottolinea il ruolo dell’odio razziale e del suo linguaggio in relazione al tema delle migrazioni internazionali e all’interno del lento scivolamento verso nuove e diverse, presenti e possibili, forme di fascismo; per converso propone di riconfigurare il significato culturale, storico ed economico dei fenomeni migratori nella storia fino a farne l’avanguardia per la cultura e la società del futuro.
Il racconto mitico della “sostituzione etnica” in Europa (ma non solo) con annessa teoria di un complotto contro i “nativi” volto a sostenere l’improbabile tesi dell’“invasione” di “stranieri” sullo sfondo di una “guerra razziale” è in grado di saldare tutti i nodi nevralgici del contemporaneo e mettere insieme islamofobia, razzismo antinero e antiafricano, ossessione antisemita e disprezzo per i valori democratici e solidaristi che accomuna la sinistre.
Lo studio del passato è la cosa più simile a una sfera di cristallo di cui disponiamo: in questo senso Walter Benjamin, un vero e proprio segnalatore di incendi, condivide uno sguardo sulla lingua e sugli effetti del linguaggio per molti versi analogo a quello di Kraus (si veda il saggio in Avanguardia e rivoluzione), un autore che riteneva fondamentale per una cultura antifascista. A Martin Buber nel 1916 scriveva: «ogni agire insito nella tendenza espansiva ad allineare una parola dopo l’altra mi sembra terribile, e tanto più distruttivo dove tutto questo rapporto fra la parola e l’azione guadagna sempre più terreno – come accade da noi – nelle vesti di un meccanismo per la realizzazione del giusto assoluto».
Con il suo stile originale Benjamin considerava compito rivoluzionario del critico restaurare la “pura lingua” nel racconto, come antidoto al veleno della lingua avvelenatrice nella quale vede il «meccanismo» che trasforma la parola in strumento dell’azione. Il linguaggio reazionario e fascista di ieri e oggi quello populista e post-fascista, tali nella forma prima ancora che nel contenuto, consistono proprio in questo. Come accade da noi.
A cento anni di distanza, cause e contesti della diffusione di un sentimento di destra radicale presentano non poche differenze, ma sono di più le molte analogie nei nessi tra stupidità/banalizzazione e antisemitismo/razzismo-etnonazionalismo/filofascismo populista che convivono con il tratto fanatico del radicalismo di destra (che ha sempre avuto i suoi militanti e i suoi intellettuali) in una alleanza strategica che è anche un combinato-disposto che paradossalmente funziona proprio in un sistema democratico, per la tenuta del quale si rivela disfunzionale.
Quello che interessa qui è mettere in luce un’analisi linguistica: oggi come ieri la “merce ideologica” scontata e di bassa cucina del gergo, la lingua abusata e colma di frasi fatte del consumo, lo stile retorico di indignazione, la rete di discorsi virali immessi nel potente circuito mediatico della comunicazione di massa impongono certezze infondate, assolute, irrazionali e deresponsabilizzanti, tali da innervare una grande e polverizzata nebulosa grigia del paese in crisi che, cercando di massimizzare i vantaggi per sé, vuole essere rassicurata di fronte ai grandi mutamenti epocali che minacciano svantaggi.
L’uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti e in definitiva di pochi vocaboli e sintagmi che si riscontra nella retorica di destra è in grado di produrre una circolazione chiusa e rituale, che tende a creare senso di appartenenza e familiarità con l’ascoltatore e riproduce logiche di vicinanza nella massa. È in questo cerchio, tanto più protettivo quanto i flussi mondiali e globalizzanti sono destabilizzanti, che si genera la lingua comune con cui si costruiscono e stabilizzano identità politiche, razziali, nazionali, di genere e della normatività. In nome di una sbandierata iper-moralizzazione e spiritualizzazione all’interno di un sistema gerarchico e rigidamente autoritario si riproduce l’apologia e l’invocazione di un sistema semplice ed elementare basato sul culto del capo e su un rozzo darwinismo sociale profondamente razzista.
Questa dinamica culturale, che oggi in Italia si manifesta banalmente e chiaramente nelle simpatie filofasciste e nelle varie forme di rigetto della democrazia, ha tempi e luoghi di diffusione territoriale ancorata alle generazioni e alle tradizioni famigliari, può durare e attraversare impunemente la fiera del kitsch, che è il modo in cui molti osservatori critici (io ad esempio) percepiscono i tratti surreali della torsione destrorsa su cui si è avvitata la società contemporanea. Ma la categoria di kitsch è traditrice: Jesi l’aveva definita «una delle nostre più significative e fragili difese dal potere del mito», ci ha consentito di dare un nome a qualcosa e ci ha illuso che dichiararne la ripugnanza ridicola potesse neutralizzare la portata mitica di ciò di cui è il sintomo. E invece.
Il linguaggio afasico, visivo e sentimentale della rabbia e del risentimento, che in tempo di pace e in epoca di bassa o nascosta conflittualità può anche essere ridicolo, è un brodo di coltura capace di legittimare dal basso e senza consapevolezza il sistema capace di far convivere partiti con ruoli amministrativi e istituzionali con forme di criminalità organizzata e deviante (mafiosi e neonazisti), così come di servirsi nella comunicazione mediatica della pretesa di opporsi al “pensiero unico democratico” da parte della legione degli opinionisti sedicenti “intellettuali eretici”, “dissidenti”, “fuori dal coro” (digitare a caso a su Google), diversamente impegnati a ritagliarsi il proprio spazio e perseguire le rispettive agende politiche.
In comune tutte queste schegge esplose e frammentarie della galassia grigio-nera-bruna hanno, oltre a un accentuato tratto nazional-popolare, pop e kitsch, la brutalizzazione o la sofisticazione del discorso da un punto di vista etico, logico e linguistico: si tratta di due forme di estenuazione della lingua, una verso il basso o l’altra verso l’alto, condotte con sistematica applicazione e con orgoglio rivendicato ed estetizzante.
Uno stilema tipico del populismo sovranista e della destra radicale è infatti quello di rovesciare sul pensiero razionalista, democratico e pluralista l’accusa di essere una forma autoritaria di pensiero; così come è tipico il richiamo alla libertà di opinione e alla Costituzione mentre si affermano teorie razziste e istigazioni all’odio che minano alla base la convivenza sociale e che impedirebbero le libertà dei più qualora fossero realizzate. È consueto poi l’auto-rappresentarsi come vittime un sistema concepito come un complotto ordito dai poteri forti contro il popolo “vero” che si pretende di rappresentare e che sarebbe stato abbandonato dai governi che hanno preferito proteggere le minoranze estranee ai veri interessi del popolo stesso (immigrati, ebrei, femministe, gay, lesbiche). Naturalmente tacendo il fatto che tutto questo venga fatto usando pagine e circuiti retti da oligopoli finanziari spesso con l’aperto sostegno economico di paesi realmente autoritari. Ma quello che conta in una rete discorsiva ideologica non è il suo rapporto con la verità o la logica, ma la sua efficacia, la sua ridondanza e la sua coerenza interna in grado di confermare a chi vi vuole credere quello che già pensa.
La giornalista turca Ece Temelkuran – una vera dissidente del regime turco che vive in Croazia per ragioni di sicurezza – nel suo Come sfasciare un paese in sette mosse (titolo originale: How to loose a country. The 7 steps from Democracy to Dictatorship) ha messo in luce i momenti cruciali della «disgregazione della logica» e del «terrore nella comunicazione», dell’«abolizione della vergogna» e dell’«apologia della immoralità», del «ridere dell’orrore» accanto a quelli strutturali dello smantellamento dei meccanismi giuridici e politici e dell’uso della violenza repressiva dell’hard power.
Il libro descrive, con espliciti riferimenti alla storia della Turchia (ma anche con comparazioni con le vicende russe, inglesi, francesi, tedesche, ungheresi, polacche e indirettamente italiane) la via che porta dal populismo alla dittatura ed è un punto di riferimento per chiunque oggi si senta confuso, stordito, incredulo, disilluso, impegnato ma in ogni caso impotente e si trovi a pensare di non riconoscere più il proprio paese nei tanti episodi di degenerazione sociale e di entropia politica, nell’ennesima fase storica in cui le masse «stanno esprimendo a gran voce le loro passioni tristi, e combattendo per la propria servitù come se fosse la propria salvezza» (sì, è Temelkuran che riprende de La Boétie e Spinoza).
È una testimonianza che con sano pragmatismo realista interroga tutti sul presente e sul che fare, esattamente come cento anni altri raccontavano il loro presente. Tanto quanto Kraus usava la pubblicistica, il teatro e una lingua fiammeggiante e sottile adatta al suo pubblico così Temelkuran comunica con ironica, icastica e affilata precisione attraverso i social media, senza perdere in drammaticità e in lucidità per sostenere l’attivismo, la militanza democratica, di sinistra e neo-illuminista che ovunque e confusamente si riorganizza o sorge di fronte all’emergenza che avanza. A seconda dei contesti si pongono con urgenza, senza escludersi a vicenda, i temi della repressione, della manipolazione digitale, dell’ambiente, delle questioni di genere, del lavoro precario.
I grandi numeri delle piazze, prevalentemente verdi e rosa/arcobaleno degli ultimi mesi, sono un segno generazionale, forte, capace di dare al tema dell’ambiente e del genere un radicamento politico. Un movimento, ancora fluido e in divenire, come quello delle sardine nasce con l’obiettivo di riaffermare la tolleranza e la moderazione nello spazio pubblico, esplicitamente contro l’odio e le bugie rovesciate sui cittadini dai partiti della destra populista. È già molto e sarà qualcosa di importante se saprà su tutto in tutte le realtà locali distinguere la dimensione non partitica da quella della politicità e dell’impegno mantenendo salda l’equazione tra democrazia e antifascismo.
Qualsiasi risposta ai problemi e alle inquietudini del presente non potrà che essere collettiva e dovrà saper allargare progressivamente l’area dell’impegno e poter promuovere un’educazione alla politica in un paese economicamente, culturalmente e moralmente prostrato. Per farlo dovrà passare attraverso la consapevolezza del valore performativo del linguaggio, a partire da quello quotidiano e banale, e la bonifica complessiva del linguaggio pubblico e della relazioni di giustizia che questo descrive e produce, nella sua essenziale funzione civile e politica.