Di Salinger quello che rimane nella memoria dei lettori che l’hanno amato è il suo ritiro. Assorda il silenzio volontario, rigoroso, in cui s’ era da anni allontanato, esiliandosi da un paese chediventava via via più volgare e chiassoso. Così mentre lo scrittore americano in cerca di successo planetario si affaticava a conquistare pubblico e mercato, J. D. Salinger, in nome di un’estetica buddista o zen, si preoccupava invece di scomparire, di non lasciare tracce. Non c’ è riuscito del tutto, perché rimangono di lui libri esili, ma indimenticabili: primo fra tutti Il giovane Holden, capolavoro minimalista, in certo senso.
Lì un adolescente osservava con implacabile severità una società ai cui modelli non si piegava, sì che il giovane eroe non celebrava nessun rito di passaggio, ma piuttosto confermava la propria renitente distanza dal mondo che voleva educarlo.
Distanza anche da modelli letterari, come quello di Huck Finn, giovane scavezzacollo che pure alla fine compie la propria iniziazione. Con Holden Caufield l’avventura dell’iniziazione – tema caro alla letteratura in specie americana- si trasforma nell’avventura dell’obiezione di coscienza, non però alla guerra, ma alle forme sociali della vita americana.
Nella grande letteratura del secolo passato lo scrittore americano e il suo eroe non sono mai del tutto ignari della società, la quale società è spesso rappresentata come un mostro ostile, una vasta massa che oppone all’io individuale serie minacce, e malevole intenzioni, sì che ogni forma di controllo è vissuta come maligna, ogni forma di autorità come il portato di uno spietato autoritarismo, la cui mossa fondamentale è volta a divorare la libertà dell’individuo. Non v’ è dubbio che ci siano valide ragioni per questo sentimento; epperò, al tempo stesso, lo scrittore (ogni scrittore) ha bisogno di ordine, se non altro formale, e di valori, se non altro letterari. Salinger li trova nel riferimento al valore assoluto dell’infanzia. Infantili i suoi eroi, perché ragazzini; infantile la sua prosa, perché realisticamente vicina nei modi allo slang giovanile; infantile, nel senso profondo del termine, la sua visione del mondo, legata com’ è a una percezione violenta, impari, del disordine, cui non si può rimediare con la violenza, se non quella patita. A fronte del mondo, il giovane eroe non può che patire la propria impotenza; se sopravvive è in virtù di una forma negativa di endurance. Salinger è un grande scrittore, grande e profetico: anticipa il futuro. La letteratura – che ha sempre questa vocazione, ma non sempre la realizza – con Salinger ci riesce e grazie ai suoi bambini protagonisti – da Franny a Zooey a Teddy- dà figura al crollo lento di un ideale di famiglia che nella sua menzogna politica la società americana non vuole riconoscere; la famiglia come nido d’ amore protettivo non esiste più, la famiglia non protegge e non prepara alla vita, è al meglio stupidamente sentimentale come sono i suoi protagonisti adulti, i genitori, quando non siano colpevolmente indifferenti, o sordi, solo interessati alla performance ordinaria del successo. Nei racconti di Salinger – quando non li soffochi il virtuosismo e la maniera- pur nel volontario abbandono di ogni intonazione epica torna a risuonare il drammatico conflitto che è il leit motif della grande letteratura americana, ovvero la tensione tra la passione di sé come libero agente, libero interprete del Libro e della Vita ( che definisce fin dalle origini puritane il soggetto americano) e il desiderio di comunità, di appartenenza.
Con la complicazione che la comunità a cui si vorrebbe appartenere è particolarmente energica nell’imporre i suoi valori all’individuo.
Come commenta Salinger questo paradosso? Smaschera la verità, svela che non si addice all’America dei tempi suoi e soprattutto a venire l’ideale freudiano della condizione adulta come condizione di maturità. Né può fiorire in questo paese il romanzo di formazione. Se Holden e i suoi ‘fratellì non sviluppano, non crescono, non progrediscono, è perché non possono. Quello dell’uomo adulto in America è un mito, è un falso. E’ per questo che non solo Holden e Franny e Zooey, ma anni dopo di loro gli studenti americani en masse non vollero più andare a scuola nelle fantastiche università costose, costosissime, dove avrebbero loro insegnato a diventare uomini e donne comme il faut. E’ per questo che anni dopo, non vollero andare in Vietnam in nome della patria.
Piuttosto, sarebbero rimasti adolescenti per sempre, prolungando in quell’età una condizione esistenziale, mentale e spirituale di interdizione volontaria dell’esercizio dei cosiddetti beni e diritti e doveri legati alla maggiore età. Holden non è l’unico, intendo dire, a preferire il crollo nervoso a casa, piuttosto che il ritorno alla ‘salutè della scuola. Altri vivranno on the road senza altra meta. Altri preferiranno, se non lo sono, diventare ‘neri’. Altri, se non lo sono, diventare ‘donne’. Pochi di loro – cosa inaudita, sconcertante- vogliono diventare uomini. Americani. In una sovversione della morale – più profonda di quella anticipata da Nietzsche- questi bambini, questi uomini e donne in potenza, questi uomini e donne del futuro puntano i piedi e dicono no. Non si adattano a diventare le macchine da lavoro o da guerra o da carriera che la società richiede. A Franny, a Holden non interessano le ‘cose’, il denaro; né acconsentono ai grandi valori della virilità matura e della femminilità adulta così come si concretizzano nel tipo Barbie e nel tipo Ken. Hemingway aveva anticipato questa linea di declino della virilità maschia. Da Jake Barnes a Holden Caufield i maschi scappano dalle donne; scappano in verità non tanto dalla sessualità femminile, ma dalla propria, incerta, ambigua. E sono disertori, non perché vigliacchi, ma perché per combattere per qualcosa bisogna crederci, e loro non credono. Non certo in quelle bugie che vengono contrabbandate come valori. Ho citato Hemingway, anche se in realtà lo scrittore sopra ogni altro amato da Salinger è Fitzgerald (Il grande Gatsby, dice uno dei suoi ‘bambini’, era “il mio Tom Sawyer quando avevo dodici anni”; per il cui eroe la vicenda esistenziale è solo apparentemente differente. E’ vero, l’eroe fitgeraldiano, Fitzgerald stesso, non fugge dalla donna, ma se ne fa annientare. Non obietta allo sperpero, al consumo, ma alla fine gli immola la propria vita, trasformando i vuoti ideali nel supremo dei sacrifici: sacrificio di sé – come fa per l’appunto il gangster Gatsby, il quale alla crudelissima, consumistica Daisy offre in consumo la sua propria vita. Sì che verrebbe voglia di chiamarlo santo.
Ecco, Salinger è stato questo scrittore di un mondo post-eroico, post-umano. L’ha rappresentato grazie alla creazione dei suoi protagonisti infanti, quei bambini angelici, tristi, compassionevoli, in fondo ‘buoni’. A me piace immaginare il suo silenzio come la sua ultima scrittura. Come il raggiungimento della piena e realizzata verità dell’infanzia, quasi l’infanzia fosse il regno non dell’assenza, ma dell’implosione della parola.