«Questo personaggio di adolescente è la cosa migliore del romanzo, la tua più felice e più complessa invenzione. Essa parla in prima persona e tuttavia non conosciamo i suoi pensieri perché, probabilmente, non li conosce lei stessa, cioè non li pensa». È così che Alberto Moravia introduce Anna, l’adolescente protagonista di La vacanza, romanzo d’esordio di Dacia Maraini. Siamo nel 1962, la scrittrice non ha ancora compiuto 26 anni e ha alle spalle alcuni racconti pubblicati su “Nuovi Argomenti”. Non è molto, o quantomeno questa sembra essere l’opinione dell’editore Lerici di Milano, che decise pubblicare il volume a patto che fosse preceduto dalla prefazione di uno scrittore importante. Fu Moravia a spedire a Milano alcune pagine, sotto forma di lettera di presentazione dell’autrice a «una società come quella degli scrittori, tra le più esigenti e, in fondo chiuse». A Dacia Maraini abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa di quell’esordio, della scrittura giovanile e della ricerca di un editore:
Premetto che vengo da una famiglia di scrittori: mia nonna, Yoi Pawlowska Crosse scriveva romanzi di viaggio, mio padre Fosco ha sempre scritto, io ho imparato da loro e ho cominciato a scrivere sin dalle medie, a Palermo, sul giornale della scuola. A diciassette anni già avevo cominciato un romanzo, ma quando l’ho finito non trovavo nessuno che me lo pubblicava; cosa normale che succede a tutti i principianti. Un editore forse più coraggioso di altri, Lerici, mi disse che se gli avessi portato la prefazione di un grande scrittore come Moravia, Calvino o Bassani, me l’avrebbe pubblicato. Io sapevo che da Rosati, in piazza del Popolo, si vedevano sempre gli scrittori e i pittori, così sono andata lì e con l’aiuto di Giuseppe Tucci, che era amico di mio padre, ho avvicinato il primo dei grandi scrittori che ho trovato, che era Alberto Moravia. Gli ho consegnato il mio romanzo con molta trepidazione e ho aspettato che mi dicesse se avrebbe scritto una prefazione. Dopo alcuni giorni ho ricevuto una telefonata – allora abitavo con mio padre in lungotevere della Vittoria, dividevo la stanza con mia sorella Yuki con cui litigavamo per l’uso di un minuscolo tavolo su cui scrivevo e lei faceva i compiti – Moravia mi ha detto per telefono che il romanzo gli era piaciuto e che avrebbe scritto la prefazione. Naturalmente sono saltata dalla gioia e ho avvertito subito l’editore che mi ha promesso di fare uscire il libro appena avesse ricevuto la prefazione. Dopo qualche settimana ho avuto la prefazione e il libro è uscito ed è andato bene. Da quel momento non ho più avuto bisogno di prefazioni.
Ci fu successo di pubblico, testimoniato anche dalla penna di Arrigo Benedetti, che in una sua analisi sull’andamento positivo del mercato editoriale evidenziava come fosse «quasi esaurita in una settimana […] la prima edizione della Vacanza, di Dacia Maraini, una principiante forse favorita dal contenuto moraviano del suo racconto».
I critici cominciavano ad avere qualche problema con la giovane Anna e con la vicenda di questa adolescente che nell’estate del 1943, quando il fascismo esalava gli ultimi respiri, scopriva eros e carnalità, svelando la sua parte più intima e confusa: «potrebbe far pensare forse ad un libro di moda, scritto sotto l’influenza di Lolita o della Noia» si legge su “L’Espresso”. Il tema di Anna come una Lolita moraviana fu ricorrente della critica: per “l’Unità” la ragazza, che si trova a vivere in un ambiente di «borghesia gretta, opportunista, corrotta, squallida […] si abbandona alle attenzioni libidinose di vari uomini anormali (un ragazzo inibito, un vizioso, un invertito)». Una figlia di quel tempo che presto avrebbe portato al maggio francese? La risposta di Marise Ferro sul “La Stampa” è decisa: «La quattordicenne Anna è viziosa per abulia ed è, io credo, un caso limite. Di ragazzine come lei, in un certo ambiente, ce ne sono sempre state.
Nessun romanziere si prendeva la briga di descriverle. Se l’è presa Dacia Maraini. […] Perché? Per via dell’alienazione, penseranno quelli che credono al significato moderno di questa parola. La ragione è molto più terra terra. La ragione è che le scrittrici giovani hanno scoperto che è facile descrivere la vita sessuale». Forse oggi può essere arduo immaginarsi la sensazione di turbamento provata dalla società dei primi anni Sessanta di fronte al dato esplicito di una giovanissima scrittrice che narra le avventure erotiche di una adolescente. Dacia Maraini denunciò come questo sentimento toccasse anche gli intellettuali: «anche i più intelligenti, anche i più colti, hanno una specie di ipocrisia davanti ai problemi sessuali». È venuto allora spontaneo chiedere all’autrice quanto ci fosse voluto per superare questa etichetta di giovane che tratta di temi scabrosi.
Ci sono voluti anni e anni. Solo quando, nel ’90 è uscito La lunga vita di Marianna Ucrìa, che ha avuto subito un grande successo di pubblico ed è stato tradotto in venti lingue, molti si sono ricreduti. Qualcuno mi ha perfino chiesto scusa. Comunque direi che da quel momento ho avuto un certo credito. Che è cresciuto col tempo, anche con i miei interventi sui giornali e il mio lavoro in teatro. Peccato che il cambiamento è coinciso con la morte di Alberto che tanto mi ha addolorata. Avrei voluto che assistesse alle manifestazioni di stima che stavano crescendo. Lui era stato il primo a valutare positivamente la mia scrittura.
Nella premessa all’edizione einaudiana del 1998, l’autrice si interroga: dov’è finita quella ragazza che a diciassette anni ha cominciato a «scrivere un romanzo asciutto e ruvido»? Lo chiamò vacanza, «ma non nel senso di uno svago o di un viaggio festoso, bensì di un vuoto; un vuoto che le faceva torcere il collo in un gesto dolente di ricerca».
Se questa è una storia in cui il tema della scrittura sembra giungere solo in un secondo momento, quando lo fa, è dirompente; ed esiste un luogo e una data. La sera dell’11 maggio 1962 alla Libreria Einaudi di via Veneto si teneva la presentazione dei vincitori del premio Formentor, assegnato a Dacia Maraini per la sezione degli inediti (lo vinse infatti con L’età del malessere). Giuseppe Berto e Giancarlo Vigorelli intervennero dalle fila del pubblico, Berto attaccando «con estrema durezza il primo libro della Maraini, La vacanza, dicendone tutto il male possibile». È lecito supporre che fra i motivi di astio vi fosse anche l’entità della posta in palio: il premio, oltre a un assegno di sei milioni di lire sugli anticipi delle copie vendute (pari a oltre 70.000 euro), prevedeva la traduzione dell’opera in tredici paesi. «La Maraini ha scritto un brutto libro, perciò Moravia non doveva brigare per farle avere un premio di quell’importanza» confermava Berto su “Il Paese”.
Oltre alla scrittura, è di nuovo il rapporto fra i due a essere sotto la lente. L’accusa sarebbe dunque di «eccessivo padrinaggio», eccessivo rispetto al regolamento del premio, che comunque prevedeva il sostegno di autori noti a uno dei dattiloscritti concorrenti, attraverso un breve saggio. Vigorelli non manca di un severo giudizio letterario quando si chiede se fosse giusto da parte di uno scrittore come Moravia, «aver così smoderatamente concorso a far assegnare a una esordiente scolaretta del sottorealismo sessuale un premio internazionale». Il fronte polemico era compatto, Paolo Spriano, che riteneva La vacanza un «più che modesto libro», se la prende però con la giuria degli editori, rei di aver assegnato il premio perché «hanno subodorato in questo manoscritto, che narra gli amori facili e l’aborto difficile d’una ragazzetta, un grosso successo commerciale». A chiudere la polemica prova Geno Pampaloni sulle colonne di “Epoca”che suggerisce di «lasciare da parte il “caso” più vicino alla montatura e allo scandalo, quello di Alberto Moravia e della giovane scrittrice premiata».
Sembra dunque davvero difficile separare l’opera dagli operatori, il romanzo dai romanzieri, l’autrice dalla società entro la quale si muove, quella società letteraria di cui ci si può chiedere come sia cambiata in questo mezzo secolo: al di là dei nomi che si sono succeduti, le dinamiche relazionali sono in fondo rimaste le stesse? Persiste ancora un certo pregiudizio nei confronti delle scrittrici giovani? C’è un continuo ritornello, praticamente in tutti gli articoli dedicati ai libri d’esordio di Dacia Maraini, dove si mette in evidenza come ella fosse una ragazza “assai graziosa”, con un certo compiacimento nell’utilizzare il giudizio estetico a mo’ di arma per squalificarla come scrittrice.
La misoginia è difficile da sconfiggere. A volte sembra che l’emancipazione femminile sia una cosa fatta. Ma poi basta un soffio per fare risorgere le prevenzioni e le discriminazioni. Ancora oggi, mentre il mercato è decisamente aperto ai libri delle donne – ricordiamo che le lettrici sono la maggioranza – quando si passa alle istituzioni, ai luoghi dove si stabiliscono i valori per le prossime generazioni, dove si creano i modelli per i nuovi scrittori, le donne scompaiono. I critici prendono spesso quell’aria di paterna condiscendenza quando parlano dei libri delle donne. E nel momento in cui stabiliscono le panoramiche storiche degli scrittori del Novecento, si scordano che oltre a Calvino, Bassani, Moravia, Pasolini eccetera, esistono Morante, Ginzburg, Romano, Ortese, Cialente, e altre grandi scrittrici, valide quanto gli autori uomini.
Oggi, il libro è nel catalogo Einaudi, dove giace dopo essere stato riversato nei Tascabili sedici anni fa. Curiosando nelle pagine delle librerie online ci si imbatte in alcuni commenti di lettori, che si sorprendono della scrittura tanto diversa dagli altri libri dell’autrice. Insomma, come può facilmente accadere con le vacanze, si finisce per trovare qualcosa di diverso da quello che ci saremmo aspettati. Allora forse esiste un solo modo per leggere questo libro, ossia con la naturale consapevolezza che rappresenta unicamente una tappa di un percorso che oggi compie ottanta anni.