1 Alla privatizzazione dell’esperienza individuale corrisponde un’estensione del culturale a tutti i livelli dell’agire, sia in termini di influenza della cultura nei processi più intimi della soggettività, sia in termini di gestione “culturale” delle relazioni sociali. Questo particolare assetto della società postmoderna si può spiegare materialisticamente: l’arte – anch’essa inglobata nella macrocategoria del “culturale” – è articolazione propulsiva del capitalismo. Non semplicemente nel senso, del resto storicamente consueto, dell’arte come produzione di merci; ma dell’arte come processo organico alla costruzione del dominio capitalistico. Per effetto di ciò, il cosiddetto “tempo libero”, un tempo strappato alla logica dell’appropriazione indebita di profitto e destinato all’emancipazione culturale, diventa vero e proprio “tempo di lavoro”: come aveva avvertito Marcuse, il principio di piacere si trasforma in principio di prestazione.
2 La particolarità della prestazione risiede – per la prima volta nella storia – in un lavoro sul Sé come costruzione di un prodotto. L’aziendalizzazione della persona svuota il processo narcisistico di sviluppo di un’immagine sociale della propria individualità: il prodotto deve cambiare secondo l’uso che il mercato ne richiede. La società narcisistica descritta da Lasch presupponeva una forma di coerenza nella presentazione del Sé. La società attuale elimina tale coerenza perché elide in profondità il conflitto che soggiace all’esperienza narcisistica. Il Sé deve essere riempito secondo le logiche, sempre cangianti, dell’accumulazione capitalistica. L’individuo – che per ristrettezza terminologica non possiamo chiamare altrimenti – è per definizione un vuoto nel quale riversare il carburante che alimenta il sistema. Se un tempo lo svuotamento del soggetto in favore di una qualche dominazione esterna poteva spiegarsi come dissociazione dal proprio Sé, nella speranza che esistesse una porzione di individualità capace di accedere a una qualche forma di autocoscienza, oggi sembra che l’Io sia piuttosto un agglomerato occasionale composto di particelle autonome e prive di coerenza. È la logica della separazione a dettare questa particolare condizione per cui l’Io può sperimentare una frammentazione di eccessiva varietà, senza alcuna possibilità di pensare tale varietà interna a un’unità. Si tratta di un’innovativa variabile dell’alienazione contemporanea: l’individuo viene privato di ciò che gli è più caro, la propria unicità irripetibile – e tale privazione, che il mercato spaccia per liberazione entusiastica dai vincoli o per pratica anti-egoistica e comunitaria, non solo si realizza al prezzo di una difficoltà sempre più evidente di ricondurre all’unità le proprie pratiche, ma ostacola qualsivoglia relazione con l’alterità, qualsivoglia tentativo di fuoriuscire dalle maglie strette create dalla propria frammentazione individuale. In altri termini: l’Io che stiamo descrivendo conserva e alimenta l’autonomizzarsi della sfera privata – il proprio pensarsi come estrema separazione dal mondo –, ma in modo manifesto sperimenta una falsa esplosione di tale separatezza, beneficiando entusiasticamente di una frammentazione pulviscolare che, vissuta come liberazione, in realtà lo conduce a forme ancora più alienate di esperienza. Il cemento di questa edificazione amministrata dal capitalismo è rappresentato dalle forme culturali che impongono un nuovo mercato della vita spirituale e una nuova modalità di rappresentazione del proprio Sé.
3 Per mezzo dell’immaginario consumistico, esito dell’articolazione culturale del tardo capitalismo, l’individuo si trova vittima di una costrizione all’esprimersi, dove l’espressività diventa sempre più sinonimo di emozionalità. È chiaro che tale investimento sull’espressione emozionale produca un’erosione delle capacità argomentative e logiche: d’altro canto, la produzione di una soggettività disarticolata e frammentaria come sostegno del capitale va compresa come presupposto di una profonda elisione di quei termini con cui siamo stati abituati a pensare la vita culturale, sociale e politica. Un individuo incapace di riconoscere la propria coerenza unitaria non può che accedere a forme di rappresentazione collettiva parimenti dettate dalla frammentazione. Tale estraneazione non va però confusa con la solitudine moderna dell’individuo nella metropoli o con le forme di alienazione primo-novecentesche. L’individuo odierno sente la partecipazione alla vita collettiva nella misura in cui essa nega l’effettiva partecipazione a un’istanza collettiva. Le forme di democrazia digitale rappresentano perfettamente questa particolare dialettica: convinto di partecipare a esperienze politiche di gruppo, l’individuo della nostra postmodernità non sembra rendersi conto che quella collettività è possibile solo al prezzo della sua individualità frammentata – e che la partecipazione alle pratiche collettive è in realtà una partecipazione semplicemente individualistica. Non a caso tali gruppi trovano un occasionale collante in un’alterità non meglio identificata: la rete, ad esempio, o un qualche occultato disegno supremo, di cui i leader sono solo sostegno o periodica emanazione.
4 Pertanto, la riuscita dell’alienazione consiste in un’affinata dialettica dell’asservimento: realizzando ciò che le sinistre meno avvedute vagheggiano da tempo – la scomparsa dell’individuo, la collettivizzazione dell’esperienza estetica, la fine del lavoro –, il dominio capitalistico attuale conduce i soggetti a sperimentare emozionalmente forme, quasi sempre temporanee, di aggregazione, accelerando i processi di riconoscimento sociale e la loro permanente mutazione, ed evitando che essi diventino occasione razionale e argomentata di fuoriuscita consapevole dalla prigione della propria individualità. È un’antropologia della disattenzione e della distrazione, quella messa in campo dall’attuale dominio.
La “cultura” – la cui estensione pervade tutti i pori della vita individuale e sociale – provvede a rinvigorire questa deriva antropologica, sabotando clamorosamente quel potenziale critico-analitico che la modernità le aveva attribuito. Attraverso l’immaginazione di un mondo disimpegnato, distratto e fintamente sociale, a uscirne rafforzati sono appunto la scomparsa di un individuo cosciente e capace di orientarsi (“di sapersi dirigere nella vita”, potremmo dire evocando Gramsci), la condivisione fluttuante e temporanea (per questo aggressiva e nichilistica) di occasioni culturali, di “isole narcisistiche” (Han) che presuppongono la rinuncia a un significato davvero socialmente costruito, e ancora la distruzione del lavoro come momento di edificazione del proprio Sé nella trama del riconoscimento sociale. Vale a dire che si realizza lo svuotamento effettivo di ciò che il dominio sembra potenziare: da cui discende il paradosso che la società dell’emozione sia in realtà una società che non sa più emozionarsi.
5 La coazione a esprimersi e a navigare nel network dell’emozionalità diffusa – facendo così parte non più di una massa, ma di uno sciame senza direzione, come direbbe Han (ma altro non è questo che l’esito di quel nomadismo tanto acclamato dai corifei della decostruzione) – è una costrizione alla vita en artiste: è una costrizione a esporsi. Ogni pulviscolo dell’individualità contemporanea presenta se stesso nell’atto dell’ostensione: deve cioè presentarsi nella forma di un profilo accettabile, rispondente alle sollecitazioni della norma imposta. L’Io-esposto è un Io che ha sacrificato la propria unità a beneficio di una permanente visibilità del proprio racconto di vita; è un Io che corrode l’esemplarità della vita vissuta perché si auto-elegge a esemplarità, mostrandosi e rivelandosi alla stregua di qualsiasi altra merce. Se si può parlare già da tempo di mercato della soggettività, ultimamente sembra invece farsi strada un mercato della profilassi individuale, tale da prevenire lo shock di una non-accettazione da parte degli altri. Ciò che viene irrimediabilmente eliminato è il non-ostensibile: vale a dire ciò che crea conflitto intrapsichico o relazionale. Per cui vale la pena chiedersi: che tipo di società è quella in cui solo una parte – quella accettabile, secondo norme che ovviamente variano – può essere mostrata? Una società che rinuncia a intrattenere un rapporto con ciò che non può essere mostrato – ad esempio, con i morti – è una società che non accetta la biologia materiale dell’essere umano, non presuppone il senso del cambiamento, non vuole simbolizzare i traumi, rifiuta il conflitto. L’Io-esposto – nella sua eterna ostensione – è un Io che non sa morire. Il suo desiderio di eternità ha qualcosa di artisticamente moderno; ma in realtà la sua rinuncia alla morte presuppone l’annullamento di qualsiasi limite, e dunque della morte stessa come oggetto di sfida. Cosicché l’individuo-esposto svolge la sua ostensione secondo criteri, potremmo dire, estetici (che ovviamente non presuppongono un ragionamento sull’estetica): l’Io che lavora sulla costruzione del proprio profilo si muove dannunzianamente, facendo arte del proprio Sé, presentandosi al pubblico nella sua artefatta irripetibilità.
6 Qual è il destino dell’arte nel momento in cui la divinizzazione del proprio Sé si è impadronita di tutti gli individui? Al di là delle difficoltà in cui versano la critica, la pratica dell’argomentazione e della selezione – lo sprofondamento in un contesto culturale in cui il conflitto delle interpretazioni è pressoché sconosciuto, per varie ragioni (compromissione, servilismo, passività) – siamo di fronte a una situazione certamente più emergenziale, e dunque chiara: non si può scommettere su forme d’arte genuinamente capaci di sottrarsi all’avvolgente normalizzazione capitalistica senza aver prima verificato le condizioni materiali e sociali da cui il lavoro artistico sembra essersi originato. Non si tratta di far rivivere speranzosamente una visione sociologica dell’opera d’arte. Proprio per l’alto tasso di probabilità che l’arte sia matrice di un esibizionismo gratuito delle credenziali individuali – la vanità non può essere certo cancellata dai comportamenti umani, ma allo stesso modo può essere oggetto di amministrazione –, un’analisi impietosa (una “verifica dei poteri”) dell’occasione sociale che presiede al fare artistico è compito non solo di chi ragiona sull’arte, ma dell’artista stesso. È evidente che l’arte ufficiale – specie se si guarda alla letteratura o alle arti figurative – per mantenersi tale ha bisogno del compromesso: e sempre più l’accesso all’ufficialità corrisponde con un addomesticamento delle proprie posizioni di partenza. È anche vero che l’arte resistente – che non necessariamente è un arte che viene dai margini (dal momento che anche i margini sono diventati un “oggetto culturale”) – ha più risentito di quel processo che i sociologi chiamano “estetizzazione diffusa”. Chi svolge un lavoro intellettuale con l’obiettivo di valorizzare le esperienze meno attrattive per i contenitori mainstream sa bene che il tentativo di far passare attraverso l’arte elementi di critica sociale (e il tentativo di far capire quanto arte e intervento sociale siano avvinti) trova un primo ostacolo nelle aspettative del pubblico, il cui orizzonte d’attesa resta spesso legato a un’idea artificiosa di esperienza estetica come esperienza unica e assoluta. In tal senso, per riuscire accettata, l’arte ha bisogno di negarsi come processo, di esibire la frattura che l’ha originata. Ed è enormemente facile, per chi lo voglia, esibire la patente di artista in un mondo in cui tutti sono potenzialmente artisti. In cosa consista, pertanto, un lavoro culturale che non accetti i canoni dell’ostensione e dell’emozionalità pruriginosa di cui ho fatto una fin troppo rapida e riduttiva descrizione, lo suggerisce il carattere stesso della nostra epoca (che nel mostrarsi servile è, paradossalmente, molto sincera): studiare, verificare, mettere in campo risorse concettuali in grado di ricostruire un alfabeto di significati. L’arte, poi, verrà di conseguenza (se verrà).