Ogni volta che usciva un suo libro, Daniele Del Giudice doveva sopportare una spero lieve ma inevitabile scocciatura: la telefonata di un giovane laureando in lettere che gli domandava se gli avrebbe fatto piacere conversare su Lo stadio di Wimbledon, su Atlante occidentale, su Staccando l’ombra da terra… Lui, ogni volta, acconsentiva con garbo e disponibilità, i due sono diventati amici e lo studente, di libro in libro, di conversazione in conversazione, si è prima laureato, e poi è diventato anch’egli scrittore.
Le ho conservate tutte, le chiacchierate con Daniele Del Giudice. Tutte registrate in audio, e alcune anche in video, ai tempi in cui lavoravo per Tele Capodistria. Mancano soltanto i suoi ultimi libri, Orizzonte mobile e In questa luce. Non ho potuto farle, perché Daniele a un certo punto ha cominciato a perdere proprio le parole, a non trovarle più, a dimenticarle. A dimenticare tutto. Anche questa volta, come al solito, sono corso in libreria, il giorno dell’uscita del suo I racconti, perché, come dice la quarta di copertina, “negli anni Ottanta e Novanta quando usciva un libro di Daniele Del Giudice era un evento per critici e lettori, in Italia e all’estero”. E per me lo è ancora, trent’anni dopo, un evento, e lo sarà sempre, quando usciranno (perché altri ne saranno pubblicati) in futuro. Esco dalla libreria e già per strada inizio a leggere la brillante prefazione di Tiziano Scarpa, con cui abbiamo condiviso incontri, conversazioni, bevute e pizze, a Venezia, insieme a Daniele. Scarpa comincia parlando di utopia malinconica, ed è questa seconda parola – ahimè – a colpirmi subito. Penso che anche per questo libro non potrò farla, la mia solita telefonata. Nessun incontro, nemmeno questa volta. Poi però penso che forse non è del tutto vero, che questa volta potrebbe essere come se gliela facessi, quella telefonata, e che ci vedessimo di nuovo, finalmente, poi.
Alcune delle nostre interviste sono state pubblicate, altre – più lunghe, più articolate, più ricche – le ho tenute per me, come questa. Con il libro dei racconti ancora in mano, nella strada di casa, mi sono ricordato della chiacchierata che avevamo fatto quasi vent’anni fa, quando Einaudi pubblicò Mania, nel 1997. Era il periodo di Tele Capodistria e arrivai a casa sua con una delle prime videocamere digitali. Ne mandammo in onda solo qualche minuto: la durata complessiva è di circa mezz’ora. Prima di incominciare l’intervista volle vedere la videocamera, aprirla, vedere come funzionava («Com’è noto, io frequento cose che non hanno niente a che vedere con la letteratura, perché ho curiosità di altre zone, di altri modi di pensare, di altri linguaggi», mi avrebbe detto poco dopo, parlando del racconto Dillon Bay).
I racconti di Mania sono il corpo centrale di questo suo ultimo libro, che si apre con Nel museo di Reims, racconto lungo che uscì nel 1988 nella collana L’Ottagono di Mondadori. Anche in quell’occasione feci la telefonata, e l’incontro avvenne a Milano, poco dopo l’uscita del libro, nello studio del pittore Marco Nereo Rotelli, che in quello stesso libro pubblicava sedici sue tele. Ho recuperato anche questa audiocassetta di quasi trent’anni fa, ho ritrovato a fatica, grazie ai miei genitori, un vecchio mangianastri e no, ora che ho riascoltato, ora che ho rivisto, so che non sarà mai come se davvero lo avessi potuto chiamare. Però ogni parola di Daniele Del Giudice, scritta o parlata che sia, è importante, e poterle rileggere e riascoltare oggi, a distanza di tanti anni, ne confermano la forza letteraria e la novità, che saranno per sempre attuali, come se pronunciate adesso, scritte adesso. Ho voluto mantenere il più possibile l’oralità di questa conversazione, anche se Daniele è sempre stato lo scrittore ideale da intervistare: la nitidezza del suo pensiero è la stessa che troviamo in ogni sua pagina.
E allora, adesso, lo faccio raccontare a lui, Nel museo di Reims:
“È la storia di Barnaba, un ex ufficiale di Marina che sta perdendo la vista per una malattia mal curata. Avrebbe voluto vedere mari e paesaggi che non conosceva, ma la prima a cadere è stata proprio la vista da lontano, e così ha deciso di conservare come ultime immagini quelle di alcuni quadri che si trovano nei musei d’Europa. Va a Reims, per vedere il Marat assassiné di David. La sua vista è però ormai compromessa. Una ragazza, Anne, se ne accorge e decide di aiutarlo, di raccontargli i quadri, ma nel farlo, mente. Barnaba se ne accorge e all’inizio è umiliato, offeso, non vorrebbe mai che si trattasse di un gesto di bontà. Poi però capisce e cerca di entrare nella malattia di Anne, perché in fondo è di due malattie di cui si tratta in questo racconto: da una parte quella di Barnaba, che è una malattia evidente, fisica, dall’altra quella di Anne che è invece più invisibile, anzi, contornata da bellezza, da gaiezza, ma forse proprio per questo ben più radicale. In questo modo si compone questo racconto che è una storia d’amore ma anche la storia di una apertura possibile attraverso il dolore, attraverso l’attenzione profonda a dov’è l’altro e che cosa chiede e, quindi, un amore inteso come assunzione della responsabilità del destino altrui”.
Nello studio di Rotelli c’erano alcuni dei quadri presenti nel libro. Sono rimasti solo nella prima edizione, ma a noi, quel giorno, circondati da quei colori, da quella luce, venne subito naturale parlare di un tema che ha accompagnato tutti i libri di Daniele Del Giudice.
“In questo testo ci sono due livelli del tema sul rapporto fra luce e ombra. Il primo è connesso al racconto e al personaggio che sta perdendo la vista e che quando ci parla di sé lo fa solo quando si trova al buio. L’averlo inserito in una continua sensazione di perdita del contorno delle cose, in un timore continuo del buio che verrà e al contempo averlo spinto così vicino, così a ridosso dei quadri, che quasi tocca col naso, è di per sé una storia connessa all’ombra. Come all’ombra è connesso il personaggio di Anne, legato alla menzogna e al motivo per cui mente. Il secondo livello è invece tutto interno alla frase. Ho sempre pensato che ogni parola che scriviamo fa un cono di luce e questo cono di luce crea una zona d’ombra. Io fin qui ho cercato di avere cura di questa zona d’ombra senza renderla esplicita, perché mi auguravo che proprio in quell’ombra passasse il mistero, passasse la zona notturna di una scrittura, la mia, che è apparentemente molto luminosa, molto nitida, netta. Nel museo di Reims, invece, ho provato a tirare l’ombra dentro allo spazio, a conservare cioè una struttura di frase che fosse sì luminosa, ma che avesse dentro di sé delle zone d’ombra, e lungo la narrazione, ne prendesse sempre di più”.
Anni dopo, dietro alla poltrona dove stava seduto, a casa sua, a Venezia, in un pomeriggio di primavera del 1997, c’era uno di quei sedici quadri. Io cercavo di far stare dentro all’inquadratura della videocamera lui e quanto possibile della tela di Rotelli, anche se la prima domanda – come era nato Mania – gliel’ho fatta che dava le spalle alla finestra aperta, da dove arrivavano i rumori di Venezia, il vocìo, i passi sui masegni, l’aria della primavera.
“Mania è un libro che si è fatto da solo, nel tempo. Sono dei racconti scritti nell’arco di una dozzina di anni, senza pensare a una loro destinazione, preso soltanto dalla fantasia, dall’invenzione e dalle zone scabre che, anche a distanza di tempo, avevo voglia di frequentare. Così alla fine il libro si è praticamente composto, anche se i racconti non sono ordinati nella successione temporale, ma questo per un semplice motivo di alternanza di ritmi, di frequenze, di tensione. Io come lettore ho sempre amato i libri di racconti perché si possono leggere da dove uno preferisce, attratti da un titolo o da un incipit, e vorrei che anche il lettore leggesse Mania in questo modo, entrando dalla porta che più preferisce, dove più gli fa curiosità, dove più è chiamato dal racconto medesimo. Il racconto poi è uno strumento narrativo notevolissimo, ti costringe a una forte tensione, deve sempre avere un elastico, un fionda che ti lancia verso la fine, per questo chiama più fantasia, più invenzione”.
La bibliografia di Del Giudice è composta da pochissimi libri. Molti pensano scrivesse poco. Sbagliato. Io so che in qualche modo lui sta scrivendo anche adesso, nella sua stanza alla Giudecca. Ha sempre scritto, ma ha pubblicato poco. Esigeva tanto da se stesso, era severo. Non gliel’ho fatta, quella volta, una domanda su questo tema, ma fu lui a parlarmene:
“Io, come tutti sanno, sono per i tempi lunghi e per il deposito delle cose e credo che in questo caso il tempo sia stato un elemento del lavoro oltre che un tema. Ma, soprattutto, il tempo è un elemento indispensabile della scrittura. E ancora una volta credo nell’andare avanti alla cieca, senza vedere qual è la finalità delle storie che emergono, che chiedono sì di essere narrate facendo fede a una navigazione, a una rotta, ma senza sapere dove questa porti. Della mania non voglio dare una definizione. Nei racconti ho cercato di inseguirla, di attraversarla. La mania di questo libro è una zona dell’immaginario di oggi che si è depositata nelle pagine. Però c’è una caratteristica evidente che lo distingue dall’immaginario del passato, ed è la forza con cui tende a farsi azione, e a farlo senza alcuna mediazione. Questa caratteristica rende la mania attuale diversa dalla mania settecentesca, che era una mania dell’ordine. Quella di oggi è inquieta, preme, chiede di essere messa in atto. Per questo tutti i personaggi del libro si muovono in una zona fra il proprio immaginario e la necessità di mettere in atto le proprie manie, si tratta di una soglia che a me, raccontando queste storie, è sembrata un crinale morte-vita”.
L’attualità indelebile dei libri di Daniele Del Giudice è data anche e soprattutto dal suo saper guardare avanti, dal modo in cui, attraverso il romanzo, interroga il futuro. Così, se in Atlante occidentale immaginava un Cern già in funzione e praticamente uguale a quel che sarebbe stato, in Mania vede in anticipo quali saranno gli sviluppi della rete, come ha fatto nel racconto Evil live.
“In Evil live i due personaggi comunicano attraverso internet, cioè quello che a mio avviso è un fortissimo serbatoio di immaginario oltre che luogo di invenzione. E lo fanno usando uno strumento antichissimo: la novella, il racconto, il mezzo da sempre più adatto a comunicare i propri sentimenti, le proprie fantasie. Internet è proprio come una ipercittà senza confini che ha anche i suoi bassifondi. Per me come scrittore è sempre stato interessante frequentare i bassifondi, e così come un secolo e mezzo fa Dickens poteva frequentare i bassifondi della metropoli che stava nascendo – Londra – oggi può essere per me curioso, interessante, intrigante frequentare i bassifondi della rete. Tra l’altro la rete ha reintrodotto paradossalmente la scrittura. Intanto la scrittura epistolare, che sembrava del tutto eliminata dal telefono, quindi un diverso uso del telefono, dato che la rete al momento significa cavi, cioè cablature telefoniche che non portano più parole ma lettere, scambi epistolari. Grazie a ciò siamo ritornati di nuovo alla scrittura. E poi in rete si trovano molti racconti, molta narrazione, cosa che mi ha incuriosito da subito. È una grande novità di comunicazione, chiunque può pubblicare in rete un suo racconto senza dover passare attraverso un editore, attraverso la critica, e in questo modo può essere letto da milioni e milioni di lettori. Non è più un rapporto mediato dalla carta, ma l’autore si rivolge direttamente a un uditorio vastissimo. È una cosa di cui non so in nessun modo valutare gli effetti, però all’improvviso, dopo molti anni di consumo di immagini, una forma di comunicazione fra le più antiche, cioè la scrittura, trova posto all’interno della comunicazione più moderna che ci sia. Questo forse può aiutarci a capire quanto sia ridicolo distinguere ancora fra nuovo e vecchio, tra antico e modernissimo, e ci dice anche come lo sviluppo dei fatti non sia mai unilaterale, ma sia invece pieno di continui ritorni, di continue negazioni, di sorprese, di meticciamenti inattesi. Ci dice insomma quanto lo stare totalmente nell’orizzonte della pura nostalgia o nell’orizzonte della pura utopia sia ridicolo, e come per fortuna le combinazioni siano molto più imprevedibili, molto più sorprendenti e uniscano di continuo antico e nuovo, non nel senso dunque della continuità, ma della discontinuità, del ricombinarsi a volte casuale di tali elementi”.
Di quell’intervista video mancano, in queste pagine, il tono della voce di Daniele, un paio di altri temi di cui parlammo, la sua calma gestualità, gli occhi che si muovono come se cercassero – e trovassero, puntuali – le parole esatte, la luce e i suoni di Venezia, il quadro di Marco Nereo Rotelli, il tavolino con un sestante e il modellino in bronzo di un aeroplano, i passi di sua moglie Ida nella stanza accanto, uno scorcio degli scaffali della libreria, lo squillo del telefono di casa e lo scatto della segreteria. Esistono pochissime immagini in video di Daniele Del Giudice, ha sempre rifiutato di andare in tv. Schivo, Daniele preferiva fare letteratura, volare (all’aeroporto del Lido), studiare, organizzare il festival letterario Fondamenta. Un giorno, prima o poi, metterò in rete quest’intervista, e sarà bello rivederlo e sentirlo parlare di letteratura, lui, che ne è stato, è, e sarà, uno dei protagonisti principali.