Così, per immagini che tornano in mente senza pensarci troppo, perché racchiudere 106 anni di vita e ottanta di cinema in un articolo è impossibile. Inevitabile, forse, ma ingiusto.
Manoel De Oliveira è morto, anche se tutti lo consideravamo immortale. A un certo punto della sua carriera aveva pure cominciato a girare film testamentari (almeno così allora sembrava), film di riflessione sulla vita e sulla morte, come Viaggio all’inizio del mondo, Ritorno a casa, qualcuno disse anche Parola e utopia: ma siccome poi la sua ora non si decideva ad arrivare, De Oliveira proseguiva a cazzeggiare (sì, cazzeggare, non ricordo un regista che abbia cazzeggiato con maggior piacere come De Oliveira) e a divertirsi con il suo cinema, con la sua sterminata cultura, con l’ancora più vasta ironia, parlando di identità, di memoria, di radici, di bellezza, di morte, di angeli e demoni, di patti col diavolo, di scherzi a Dio, sempre con l’animo dell’affabulatore, del narratore che si prende il proprio tempo, che considera la parola come l’immagine, qualcosa da costruire, mettere in scena, rendere essenziale.
Era parsimonioso, De Oliveira. Ha girato un mucchio di film, nemmeno si sa bene quanti, lui stesso si è sempre divertito a confondere le idee rispetto al lavoro nel periodo fra gli anni ’30 e gli anni ’70. Ma ogni stacco di montaggio, ogni posizione della macchina da presa, De Oliveira li calibrava alla perfezione, o forse gli venivano così, semplici e naturali. Viene in mente La lettera, un film che più essenziale non si potrebbe, La principessa di Clèves ambientato negli anni ’90 ma con toni settecenteschi: lei che nel finale rinuncia per sempre al suo amore e lui, l’amato, che tiene un concerto rock filmato in campo lungo. Lei da una parte, lui dall’altra; due mondi, un’ereditiera e un cantante pop, un tamarro, separati ma capaci di comunicare grazie alla semplice vicinanza. Perché il cinema si fa così, mettendo insieme i pezzi, a cominciare dalle immagini. E poi l’alto con il basso, il settecento con la musica leggera, i tableau vivant fuori e il fuoco della passione dentro, l’ironia della narrazione e il dramma vero che si consuma in volti rigidi come statue.
Una statua, in fondo, dice tutto del cinema di De Oliveira: si chiama Pedro Macau, la si può vedere ancora oggi in un paesino sperduto della campagna portoghese, quella in cui il regista ha passato la sua infanzia. Lo racconta in Viaggio all’inizio del mondo: Pedro è un omino inginocchiato, su una sua spalla tiene una trave, e la trave regge una casa. C’è anche una filastrocca, che fa più o meno e così e soprattutto fa una tenerezza incredibile: «Mi chiamo Pedro Macau e ho una trave sulla schiena. Molti passano per vedermi, gli uni con la faccia bianca, gli altri con la faccia nera. Ma nessuno mi toglie dal mio tormento». In quell’immagine poverissima e straordinaria, De Oliveira ci mette tutta la dignità del dolore di cui una vita onesta è colma; ci mette il mito di Sisifo, la cognizione del dolore, un volto senza espressione, sofferente e calmo. Prendete i volti dei suoi attori preferiti, Leonor Silveira, Luís Miguel Cintra, Leonor Baldaque, Isabel Ruth, Ricardo Trêpa: inespressivi, serafici, calmi, anche quando soffrivano per amore. E pensare che in De Oliveira l’amore è sempre stato di perdizione, diabolico, crudele: a cominciare ovviamente da Amor de perdição, capolavoro tratto da uno dei suoi autori prediletti, Camilo Castelo Branco (dedicò pure un film ai suoi ultimi giorni di vita, Giorno della disperazione), passando poi per Francisca, Le soulier de satin, La valle del peccato.
Non si sono quasi mai guardati in volto, i personaggi di De Oliveira: guardavano oltre il fuoricampo, chissà dove, parlandosi in altri modi, comunicando su altre livelli. Nei Misteri del convento c’è una sequenza di porte aperte e porte chiuse che suggerisce seduzione, tradimento, segreto: sembra Lubitsch, lo è, e uno come De Oliveira se la poteva permettere una tale sintesi di azioni e desideri. Il cuore del discorso stava nel vuoto pienissimo che ogni immagini lasciava dentro e dietro di sé, prima della successiva, dopo la precedente.
A un certo punto, De Oliveira ha tolto il trucco da quei volti, per quanto bellissimi e angelici. L’ha tolto a Michel Piccoli, in Ritorno a casa, mettendolo di fronte alla tragedia della morte, della vecchiaia, della stanchezza: basta col teatro, basta con il cinema, basta con la finzione. L’improvvisa stanchezza sul volto di un attore finiva per svuotare il corpo dall’interno, così, da un momento all’altro: la maschera cadeva, non restava che la solitudine. Lo ha pure fatto, De Oliveira, di svuotare un corpo della sua anima: in Singolarità di una ragazza bionda. Una bella ereditiera cleptomane veniva scoperta e, puff, si spegneva di colpo, come una bambola meccanica, come se un corpo che senza volontà non avesse diritto a vivere. E il corpo – il corpo della Passione di Cristo (Acto de primavera), il corpo perduto e sempre promesso di re Sebastião e di tutta la storia portoghese (No, o la folle gloria del comando), il corpo mangiato e ben digerito grazie a un ricca eredità (I cannibali) – quel corpo è sempre stato il centro fisico del suo cinema.
Un cinema che De Oliveira ha attraversato in ottant’anni di vita e di lavoro, dal documentario degli inizi, alle rivoluzioni narrative e stilistiche degli anni ’70 e ’80 (lo straniamento, la teatralità, le durate fluviali, la letteratura alta e la vita grezza), fino alle vette intellettuali di fine anni ’90 e inizio degli anni duemila, il suo momento forse più alto, in cui De Oliveira riformulò tutto, inventandosi uno sguardo, una precisione, una parola, una visione storica e un’ironia senza tempo che sono diventate un marchio, un modello tutto suo, inimitabile e a volte pure, perché no, piacevolmente palloso.
Era immobile all’esterno, ma brulicante di passione sotto la superficie, il cinema di De Oliveria: chiunque si sia mai perduto in uno dei suoi mondi lo sa bene. La vita, misteriosamente, stava da altre parti, non nei corpi, non nei dialoghi, eppure c’era, con tutto il suo carico di leggerezza, tragedia e spiritualità che ricade sulle spalle di ogni Pedro Macau di questo mondo. In Un film parlato, ad esempio, ciascuno parlava la propria lingua, nessuno capiva, ma tutti si capivano: dove stava, allora, in quel caso e in mille altri della sua filmografia, il livello di comprensione? Nelle immagini, oltre le immagini, prima, dopo, in mezzo? Lui, De Oliveira, probabilmente non l’ha mai saputo, e quell’enigma l’ha cercato fino all’ultimo, visto che ancora in O Estranho Caso de Angélica, a oltre cent’anni, stava ancora lì a raccontare di una defunta che prende vita dentro un’immagine e dunque a prendersi gioco dell’idea che il cinema sia la morte al lavoro. Lui, De Oliveira, in fondo, la morte non sapeva nemmeno cosa fosse.
Questo articolo è stato pubblicato su Cineforum