La siepe
Che cosa significa definire se non, letteralmente, tracciare un/una fine, un confine, delimitare, «come quando si recinta un terreno, in modo da non confonderlo con le terre confinanti appartenenti ad altri? Grazie alla definizione si rintracciano caratteristiche comuni all’insieme di cose che stanno dentro il confine, le quali permettono di non confondere la cosa definita con altre» (Giuseppe Cambiano, Sette ragioni per amare la filosofia, Bologna, il Mulino, 2019, p. 43). Benissimo. Ma come definire l’infinito, che non ha estremità – come già preconizzava Epicuro e prima di lui facevano tutta la cosmologia e la fisica presocratiche – e che sfugge a ogni limite, gioiosamente superandoli tutti nella sua smisurata immensità? Forse riusciremo a definirlo, ci perdonino fisici e matematici, grazie a… una siepe!?
Ecco apparirci davanti agli occhi la siepe del secondo verso dell’Infinito di Leopardi, presentata subito dopo l’ermo colle, entrambi al poeta cari. Quella siepe che ritorna nel quinto verso con un richiamo indiretto, di là di quella, per definire nuovamente l’interminato spazio che si stende quieto e silenzioso, ampio e materno come la chora platonica, oltre quel termine, oltre quel limite. In entrambi i casi la siepe si pone come paradossale confine dell’infinito, che costringe lo sguardo a cambiare direzione. Il limite e il confine che tracciano, nel percorso della mostra, i muretti del Paesaggio con muri bianchi di Damaso Bianchi (n. 15). Qui quei muretti, che nel colore richiamano il cognome del pittore, toccati ma non attraversati dalle ombre degli alberi, ci impediscono di percepire il paesaggio dietro di essi ma insieme stimolano e aguzzano la vista esterna e la contemplazione e l’introspezione dell’io, del pittore e nostre.
I muretti, la siepe, limitano, chiudono. Chiudono davanti, come spiega la parola presepe, dal latino prae-saepit, che chiude con una siepe (saepes). Un recinto è dunque la siepe del presepe, dove si trova il cibo per il bestiame che ne sta all’interno, e che crea protezione e sicurezza anche per il Bambin Gesù, lì posto insieme ai tradizionali animali dell’iconografia cristiana. La siepe cinge, limita e protegge mentre esclude dallo sguardo: lo fanno la siepe di Leopardi e la siepe del Tramonto in Liguria di Gaetano Previati (n. 9), posta dietro i rigogliosi alberi carichi di agrumi, dietro la quale il mare in parte si intravede in parte si immagina.
Verticale e orizzontale
Protetto dalla siepe che gli è cara siede il giovane Giacomo, da poco divenuto ventenne, sull’ermo colle che come quella gli è caro (aggettivo che tra poco reinterpreteremo in un senso tutto particolare). Dall’alto il poeta contempla il paesaggio fingendo – col plasmare l’argilla del pensiero, immaginando dunque – spazi senza termine distesi sotto di lui. Costruisce così una sorta di violenta verticalità che ha al vertice il colle e alla base il mare, ultima parola dell’ultima riga, che fino all’ultimo non ci è dato vedere. Dall’altezza del pensiero che finge immagini e idee, alla profondità del mare che cela pericolose passioni nelle quali il naufragio è dolce. L’altezza è qui sublime quanto la profondità, sublime questa come «una durata interminata», notava Kant nelle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime [1764], che si accompagnano «a sensazioni di spavento come di meraviglia». Una suggestiva verticalità che precipita dal colle al mare e con la quale si incrocia, letteralmente e figurativamente, formando i bracci di una croce, l’orizzontalità del tempo descritta nei versi da 11 a 13: l’eterno/le morte stagioni/la presente e viva. Eternità (tempo infinito), passato, presente.
Una verticalità che nei dipinti della mostra si manifesta grazie all’ascensionalità degli alberi in Tramonto di Previati ma anche nello slancio della figura femminile e del cespuglio di Il prato dello stesso Previati, o nella siepe di alberi di Sole e brina di Plinio Nomellini. A cui si contrappone l’orizzontalità delle visioni fluviali, con Sull’Ofanto e Lungo l’Ofanto di Giuseppe De Nittis e La fleuve, di Émile René Ménard. L’incrocio in potenza delle due dimensioni, dove l’orizzontale sfuma nel verticale lo si nota poi ne Il sole di Pelizza da Volpedo, dove il disco luminoso che brilla all’orizzonte è pronto a spiccare la sua trionfale ascesa. E infine in Mare in burrasca di De Nittis dove la mente si finge l’abisso della profondità marina. Là dove Giacomo Leopardi esperisce il suo dolce naufragare.
L’ossimoro del dolce naufragio
È quello evocato da Leopardi un naufragare fittizio nel pelago dei pensieri sull’essere e sull’infinità del tempo e dello spazio? O un naufragio reale, benché soltanto immaginato, un frangersi della nave prima di affondare nei flutti? È entrambe le cose, certo, ed è insieme un tema che ripropone una nuova configurazione a croce, orizzontale-verticale: essa comprende infatti in Leopardi sia il comandamento stoico-epicureo della contemplazione e del distacco atarassico dai turbamenti, che potremmo associare alla dimensione orizzontale nella sua calma e piatta estensione; sia la verticalità della sfida illuminista del mettere in gioco il contributo fondamentale delle passioni, il valore dell’entusiasmo e del rischio, la vivacità della lotta degli elementi, l’uno e l’altro apprezzati, riprenderemo questo punto, da Leopardi. Nell’ossimoro del dolce naufragio convive il piacere (orizzontale) della calma con la disperazione (verticale) ma anche la creatività del moto; convive l’innegabile gioia estetica della natura, con la sofferenza cui soggiace la stessa natura e che con e nella natura si impone.
Il dolce naufragio e Lucrezio
Ci dedicheremo ora al naufragio dolce di Leopardi, lasciandoci alle spalle i dolci paesaggi della mostra per immergerci negli infiniti leopardiani. Questa volta ci ispireremo a un altro dipinto, quasi contemporaneo alla composizione dell’idillio: Il viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer) di Caspar David Friedrich, del 1817, conservato nella Kunsthalle di Amburgo. Lì l’osservatore impassibile-pensieroso contempla sopra l’ondeggiante mare di nebbie i naufragi altrui:
Bello, quando sul mare si scontrano i venti
e la cupa vastità delle acque si turba,
guardare da terra il naufragio lontano:
non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina
ma la distanza da una simile sorte.
(Lucrezio, De rerum natura, II, 1-4, trad. it.vdi E. Cetrangolo, Firenze 1969, p. 73).
Lucrezio! Sì, Lucrezio.
L’ispirazione, il riferimento classico, il sostegno letterario e filosofico dell’Infinito di Leopardi è Lucrezio. Anzi, sono i versi di apertura del secondo libro del De rerum natura; di quell’opera che la chiesa aveva cercato disperatamente di cancellare dalla memoria storica, e c’era riuscita per più di un millennio, fino all’avventurosa scoperta e divulgazione del poema grazie all’infaticabile ricerca condotta da Poggio Bracciolini.
Lucrezio! Sì, Lucrezio che imposta la configurazione tra il braccio verticale dello strepito della storia, e quello orizzontale del silenzio, della pacatezza e assenza di turbamento. Lucrezio. Tito Lucrezio Caro. In latino, Titus Lucretius Carus. Carus. Caro. Semper Carus. Sempre Caro. Sempre caro. SEMPRE CARO. Sempre Lucrezio. Sempre il pensiero del poeta filosofo romano mi accompagnerà, sembra dichiarare solennemente il giovane ventenne, enunciando in maniera ancora criptica il suo ateismo e la sua idea che la natura sia un «cieco e inconscio meccanismo di produzione-distruzione» (Sebastiano Timpanaro, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, in «Critica storica», luglio-settembre 1988, 3, pp. 359-401, qui p. 397).
Non potendo, volendo, riuscendo a esclamare liberamente la propria convinzione, il giovane Leopardi lo fa – è la mia ipotesi e la mia proposta, frutto di intuizione più che di dimostrazione, ammetto – con un espediente quasi scherzoso, nascondendo la sua ammirazione e la sua fedeltà a Lucrezio proprio nelle prime due parole dell’idillio: sempre caro. E riprendendo nell’ultimo verso l’aggettivo dolce. Dolce, suave (neutro sing. di suavis), la prima parola del primo verso di quell’incipit lucreziano: Suave, mari magno turbantis aequora ventis…, aggettivo che più volte ritorna nei versi successivi.
Del resto il poeta di Recanati era stato un bambino e adolescente allegro e giocoso, addirittura scatenato e prepotente coi fratelli. Come non immaginarlo mentre con un sorriso sornione scrive quelle parole allusive, ancora pregno dell’entusiasmo infantile e adolescenziale?
La critica letteraria ha speso infinite pagine per mostrare e dimostrare se Leopardi conobbe Lucrezio, e se sì che cosa, e quali sono i riferimenti testuali e quali quelli contenutistici; se tematiche lucreziane siano presenti in Leopardi direttamente o provengano indirettamente dall’influenza di altri autori da lui conosciuti, Montaigne, Pascal, Goethe; se esistano e come si configurino affinità e differenze tra le concezioni pessimistiche di Leopardi e Lucrezio, quali siano le fonti latine alla radice dell’opera leopardiana e così via. Cito per tutti soltanto l’ampio studio di Sergio Sconocchia, Ancora su Leopardi e Lucrezio (in Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di A. Frattini, G. Galeazzi e S. Sconocchia, Roma, Edizioni Studium, 1990).
Nell’indagare i rapporti tra i due poeti-filosofi la critica talvolta sottolinea, talvolta minimizza l’influenza delle idee di Lucrezio sul pensiero di Leopardi, insistendo soprattutto sull’adesione all’epicureismo del primo, non confacentesi al secondo. Certo, guardare il naufragio e il turbamento altrui senza farsene coinvolgere è l’atteggiamento del saggio epicureo, capace di osservare imperturbabile il turbinio del mondo circostante. Eppure a quell’atteggiamento pure Lucrezio aderisce quasi pro forma per poi discostarsene, mostrando posizioni simili a quelle che saranno di Leopardi. Entrambi sono animi appassionati, e se per un momento si adagiano sul braccio orizzontale dell’imperturbabilità epicurea e dell’apatia stoica, non negano di certo, entrambi, quello verticale antitetico della curiosità, dell’irrequietezza, dell’angoscia. Anzi, commentava più di cent’anni fa un critico acutissimo, riferendosi proprio al libro II del De rerum natura e al paragone ivi istituito tra gli atomi travolti nello spazio infinito e le rovine del naufragio che il mare getta alla rinfusa sulla spiaggia, «come siamo lontani dalla meccanica ridda atomica e da Epicuro! Essi non han servito, si può dire, che a dare lo spunto alla fantasia di Lucrezio, la quale, spaziandosi e internandosi nel suo soggetto, determina a sua volta un movimento affettivo che prende un’espressione per nulla dissimile dalle leopardiane» notava Spartaco Borra (Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi, Bologna, Zanichelli, 1934, Ia ed. 1911, p. 61) e passim nella sua splendida interpretazione.
Entrambi i filosofi-poeti hanno interrogato il silenzio infinito del cielo, lo stupore e il terrore che esso suscita; entrambi hanno provato sia il godimento estetico sia l’angoscia esistenziale. Entrambi sentono e rendono il senso dell’infinito, ricevendo, dalla contemplazione del cielo e del mare, impressioni profonde, rasserenanti, dolorose.
Nel giovanile Infinito sprofondare in questa contemplazione, lasciare che la nave della mente si infranga contro i flutti e vi si immerga, è per Leopadi suave, dolce. In compagnia del caro Lucrezio Caro e come lui giocando con le parole e ripetendo quelle assonanze e allitterazioni e allusioni, nonché ripetizioni, raddoppi, e creazione di parole nuove (verba nova) che esercitavano un’attrazione irresistibile sul poeta latino. Il naufragio descritto da Lucrezio e osservato da riva, su cui medita il viandante di Friedrich, sarà sempre anche quello di Giacomo Leopardi: semper Carus, sempre caro.
Questo testo è estratto dal catalogo, edito da Silvana Editoriale, che ringraziamo, della mostra La fuggevole bellezza. Da Giuseppe De Nittis a Pellizza da Volpedo, a cura di Emanuela Angiuli , e della mostra sul contemporaneo a cura di Marcello Smarrelli con Metrocubo d’infinito di Michelangelo Pistoletto e Invisibile di Giovanni Anselmo, a Recanati, Villa Colloredo Mels, dal 30 giugno al 3 novembre 2019,